Intervista a cura di Antonello Cresti e Ferruccio Filippi tratta dal volume di ANTONELLO CRESTI "COME TO THE SABBAT" (Tsunami Edizioni, 2011)
Dopo tutti questi anni, come
giudichi le influenze esoteriche ed occultistiche che comparivano nel primo
periodo della tua carriera?
Nessun giudizio, semplicemente le accetto in quanto
parte necessaria dello sviluppo dei Death in June, allora come ora, in molti
modi diversi. La musica di Death in June può essere potente e dunque
interpretata ed usata su tanti livelli. Ha una sua forza vitale a sé stante che
io accolgo naturalmente e non mi faccio troppe domande in merito. Quelle le
lascio agli altri.
In che modo l’esoterismo ha
influenzato il tuo pensiero politico?
Non so se sia mai accaduto, almeno coscientemente. E
comunque non sono mai stato coinvolto in alcuna attività politica a partire dal
1979-1980, quando avevo ventitré anni. Ho votato solo due volte in vita mia e
poi mi sono trovato d’accordo coi graffiti che tante volte ho visto dipinti
sopra i manifesti elettorali in Inghilterra e che dicono “Non votare! Perché
incoraggiarli?”. Mi sono trovato d’accordo, ed è ancora così. In Gran Bretagna
votare non è obbligatorio.
Chi sono i personaggi legati
al mondo dell’occulto che hanno in qualche modo “guidato” la tua carriera?
A partire dal 1983–1986 certamente Crowley,
soprattutto a causa delle canzoni che ho scritto con David Tibet, che all’epoca
era davvero un seguace del lavoro dell’occultista. E devo dire che
quell’approccio si è rivelato di grandissimo successo! Dopo aver letto “The
Book of the Law” (la copia me la dette personalmente Tibet) per la prima e
ultima volta in vita mia, come si dovrebbe fare, i Death in June si sono
ritrovati ad intraprendere un’attività davvero frenetica sotto ogni aspetto. Il
7’’ e 12’’ di “She Said Destroy” e l’album “NADA!” vendettero molto bene e catapultarono
il progetto totalmente su un altro livello. È stata davvero una fase
importante, di quelle che cambiano la vita! E forse erano necessari dei
sacrifici, dopo che le forze magiche avevano aiutato i Death in June…
L’abbandono di Patrick Leagas fu forse uno di questi sacrifici, dal momento che
fu uno shock e che mi è sembrato così assurdamente strano. Assurdo, considerato
il nostro successo all’epoca e pensando soprattutto al fatto che poco dopo il
nostro tour italiano, nell’aprile del 1985, avevamo in programma di tornare in
Italia per una performance speciale presso l’Abbazia di Thelema a Cefalù, in
Sicilia. Sarebbe stato magnifico e naturalmente non è potuto accadere a causa
dell’abbandono improvviso di Leagas e della sua poi concordata uscita dal gruppo
nel maggio del 1985. Mi sono sempre
chiesto il perché di quello che è successo. Se fosse stato qualcosa di invocato
a livello magico o meno… all’epoca appariva come una cosa totalmente insensata,
ma a ripensarci forse è qualcosa che doveva accadere, quantomeno con Leagas. Ha
messo volontariamente la sua testa sul ceppo e se n’è andato! Alla fine è stata
la cosa migliore per me ed i Death in June, e all’epoca anche per David Tibet.
Poi è arrivato il periodo in cui ho cominciato ad interessarmi ai misteri
nordici e alle rune ed ho trovato grande ispirazione negli scritti di Edred
Thorsson, Freya Aswynn e Michael Howard, e ancora lo faccio! Anche Charles
Manson ha giocato un ruolo importante. Mi è apparso in sogno durante il tour in
Germania del 1991 e mi ha insegnato il significato di “Ku Ku Ku”, ecco perché
ho scritto la canzone la mattina seguente. In definitiva, ci sono certamente
persone legate all’esoterismo e all’occulto che hanno influenzato la mia
carriera, dagli inizi sino a questo preciso momento. Ma non è proprio il caso
che le sappiate tutte.
Esiste un collegamento tra
l’uso che fai di maschere ed uniformi, teso a celare la tua identità, e le
rune, anche essi simboli che celano altri significati?
Non lo so. Non analizzo il mio uso di rune, maschere
ed uniformi in maniera troppo approfondita. È qualcosa che si è legato a Death
in June in maniera istintiva e che si è sviluppato molto velocemente. I membri
originari della band indossavano rune e uniformi sin dalle prime esibizioni del
1981, e maschere sin dal Gennaio del 1984. Ciò disturbava, o quantomeno
infastidiva, alcuni dei gruppi coi quali sonavamo in quel periodo e sicuramente
la gran parte dei promoter e dei critici musicali, ma fortunatamente non il
pubblico! Ci piaceva quella situazione. E sento che scegliere di
auto-ostracizzarci e alienarci dalla gran parte dei musicisti e dalle loro
noiose faccende da music business sia stato molto importante. Questo era il
nostro modo di agire. E, a posteriori, ti dico che ha avuto i suoi benefici. Adesso
mi rendo conto che l’utilizzo di Rune, maschere ed uniformi ha avuto una grande
influenza sulle band venute dopo. Ho collaborato con alcuni di questi gruppi e
li apprezzo sinceramente, però devo dire che il loro uso di certe simbologie ed
estetiche è molto più calcolato. Non avevo idea di cosa sarebbe successo quando
abbiamo iniziato e che questa nostra scelta sarebbe stata così popolare,
addirittura presso band che non hanno nulla a che vedere coi Death in June, né
tantomeno con le rune.
In un’intervista di qualche
anno fa, parlasti di un rituale fatto nella foresta con tante teste di cavallo
messe su un palo…
La miglior forma di Magick è quella che viene tenuta
segreta ed è così che la vedo io. Alcune persone hanno il dovere di spiegare i
rituali e i misteri, sono inevitabilmente dei maestri e questo è il loro
percorso e la loro vita. Ma io non sono uno di loro, né mai immaginerei di
rivestire un ruolo del genere. Non è nel mio destino. Ma magari ho indicato la
via ad altri? Ad ogni modo, vi sono rituali magici connessi a diverse uscite
discografiche dei Death in June. Il “Nyding stick” con le tre teste di cavallo
in fiamme nella foresta delle Ardenne, il 23 gennaio del 1995, è forse l’unico
di cui le persone sanno davvero qualcosa dal momento che alcune delle foto
scattate durante questo rituale sono poi state utilizzate per la grafica
dell’album “Rose Clouds of Holocaust”, che avevo appena concluso in Inghilterra
alla vigilia di Natale del 1994. Si trattava di una benedizione e di un’azione
necessaria per l’album e per me. E forse anche per le teste di cavallo.
Sembravano affermare fisicamente una nuova forza vitale durante il rituale, che
fu compiuto nel rispetto più profondo. O quantomeno, col massimo rispetto che
uno può dare nel mezzo della notte, in mezzo ad un bosco, con la neve che
scende copiosa e il sangue che gronda dai colli e la benzina che brucia
dappertutto! Le teste di cavallo pesavano una tonnellata e nessuno mi ha
aiutato ad issarle sui pali e a farle bruciare come fiaccole nella notte
invernale. E’ stata una cosa molto cruenta ma allo stesso tempo incredibilmente
bella.
Cosa pensi dell’influenza di
Crowley sulla cultura giovanile contemporanea?
Non ne ho idea. Ha effettivamente una qualche
influenza sul mondo del cinema, della moda e della letteratura o ha solo
esercitato un fascino su pochi gruppi musicali e singole persone negli anni
sessanta, settanta e ottanta? Per come la vedo io, la “cultura contemporanea” è
costituita dalla vacuità di Paris Hilton, Britney Spears e dall’esercito dei
loro inutili cloni. Ma forse Charlie Sheen e John Galliano potrebbero essere
capaci di ispirarsi a Crowley, chissà…
Sappiamo del tuo amore verso
figure come gli scrittori Genet e Mishima. C’è qualcun altro pensatore da
aggiungere al tuo “pantheon”?
L’unico altro personaggio che mi ha realmente
ispirato, anziché influenzato perché sono due cose distinte, è Nietzsche, i cui
scritti mi hanno tenuto compagnia e offerto grande conforto durante un momento
molto solitario della mia vita, nel 1989. Il suo lavoro è stato di grande aiuto
in quei giorni desolati che ancora oggi ricordo con grande cautela.
Cosa pensi della cosiddetta
scena neo-folk?
In parte è davvero fantastica ed in parte è roba usa e
getta, derivativa e trascurabile. Ma, come ho detto in qualche altra occasione,
come può essere “neo” il neo-folk, a un quarto di secolo dalla pubblicazione di
“Brown Book”, del 1986, che credo sia stato il primo album dei Death in June a
definire questo particolare stile? Forse rimarrà sempre legato ad un preciso
momento storico come l’Art Noveau, il Realismo Socialista o il Merseybeat! Non
saprei. Non è qualcosa a cui pensavo quando ho cominciato a scrivere le prime
canzoni che apparentemente hanno dato il via a quel genere. E tuttora non ci
penso; non sono intrappolato negli anni ottanta e novanta, parlo di quel
periodo solo quando mi viene chiesto nelle interviste. Naturalmente il meglio
del neo-folk si è sviluppato ed è mutato negli anni, cosa naturale per un
fenomeno di scala mondiale. Se procede così continuerà a mantenersi vivo ed
esercitare interesse, almeno per alcuni.
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