Marco
Fraquelli “Altri duci – i fascismi europei tra le due guerre”, Mursia
“Lo stato
ungarista dovrà poggiare su tre pilastri: il contadinato, il ceto operaio,
l’intellettualità; l’esercito avrà il compito di edificare la Grande Patria e difenderla contro i
pericoli esterni ed interni. L’economia verrà programmata dal Consiglio
Generale delle Corporazioni, la produzione agricola (…) affidata a contadini
riuniti in cooperative, la banca sarò nazionalizzata”. Così Ferenc Szálasi. leader del movimento parafascista
delle Camicie verdi, nel definire il suo “Ungaro-socialismo”, che contrapponeva
violentemente al regime conservatore-reazionario di Miklós Horthy rappresentante de facto dell’aristocrazia fondiaria
e della grande burocrazia.
La dialettica
Camicie verdi (poi Croci frecciate) –
Reggenza di Horthy proseguirà in una spirale di violenza e repressione, finché,
nel ’44, Horthy non verrà arrestato dai suoi stessi alleati tedeschi, che già
avevano occupato il paese, quando, il 15 ottobre, legge il suo programma di
resa.
Ecco allora
che, nel clima apocalittico dell’imminente disfatta, viene il turno di Szálasi di assumere il potere – almeno nominalmente, poiché, come
nel caso della Repubblica sociale italiana, le redini del potere vero sono saldamente tenute nelle
mani dei nazisti.
Destino
simile a quello Croci frecciate tocca alla Guardia di ferro, movimento
cristiano, fascista e antisemita dalla forte impronta mistica, che subirà dure
misure di repressione in Romania, altro paese alleato del Reich (alcune, pare,
ispirate dallo stesso Hitler), che conosceranno il culmine nell’imprigionamento
e nell’oscura morte del suo leader, il
Capitanu Corneliu Zelea Codreanu.
E anche se ne
’40-’41, il leader romeno maresciallo Antonescu, cercherà di associare al
potere i reduci della Guardia di Ferro,
l’esperimento fallirà anche per insuperabili divergenze di natura
socio-economica.
Da questi due
esempi si possono isolare delle costanti che interessano molti processi,
sia riguardanti la nascita di movimenti
parafascisti – o paranazisti – in tutta Europa, nel periodo che va dalla fine
della prima alla seconda guerra mondiale, sia concernenti l’involuzione
autoritaria di vari regimi conservatori in occasione dell’inarrestabile corsa
al predominio del Terzo Reich sull’Europa, a partire dall’Anschluss.
Innanzitutto,
i fascismi minori, che siano di portata minima e legati a contingenze
strettamente peculiari del paese dove vedono luce, come quelli irlandese e
svizzero, o di ben più vasta diffusione e incisività nella vicenda del paese,
come quelli dei paesi baltici, slavi e balcanici, direttamente interessati
dalla minaccia del bolscevismo, contengono degli elementi di sinistra (sia pure una “sinistra”
corporativa, “spirituale”, nazionale, su base etnica e antisemita e perfino,
nel caso delle Camicie verdi, pro-operaia) rispetto ai regimi o ai partiti
generalmente clerical-conservatori con cui si trovano ad avere a che fare.
Addirittura, nella Spagna pre-guerra civile,
il capo della Falange José Antonio Primo de Rivera unisce il suo partito a
quello dei nazionalsindacalisti di Ledesma Ramos (non senza successivi
contrasti, va detto), prima che giunga per lui l’occasione di un pronunciamento fascista che, se
colta, avrebbe potuto portarlo al potere evitando forse al Paese iberico la
guerra civile.
Un
“anticapitalismo di destra”, come lo chiama Giorgio Galli nella sua illuminante
prefazione, che fa il suo ingresso in un Europa dilaniata dalla guerra, dalla
crisi economica, dai conflitti sociali, e che non è detto discenda sempre
direttamente dall’esempio del fascismo italiano, essendo alcuni dei leader
discussi in questo volume già frequentatori di movimenti völkisch o delle idee che gravitano attorno
all’ Action
française,
che,come ha dimostrato Zeev Sternhell, anticipano e informano (in parte) lo
stesso fascismo mussoliniano.
La seconda
costante è che la Germania nazista, con l’eccezione del caso russo, che per
ovvie ragioni fa storia a sé, preferisce sempre appoggiarsi a solidi partiti
conservatori nei paesi alleati e/o occupati, piuttosto che dare il potere a
movimenti o frange filonaziste, che entreranno davvero in gioco eventualmente
solo quando, a guerra praticamente persa, la questione sarà di puro e semplice
collaborazionismo: valga su tutti il noto esempio della Francia.
Questo,
escludendo i paesi destinati a far parte, per una questione di “purezza
razziale”, direttamente del Reich, come
l’Austria, l’Olanda (dove il partito filonazista locale tenta comunque di
conservare un minimo di autonomia), il Lussemburgo
Più duttile
l’atteggiamento del fascismo italiano, che, almeno inizialmente, finanzia e
incoraggia partiti e formazioni più o meno gemelle, un po’ ovunque. Il fascismo
albanese è addirittura una diretta filiazione di quello italiano, i terribili
Ustascia croati di Ante
Pavelić sono foraggiati e allevati da Mussolini (e
dalla Chiesa Cattolica) nell’ottica strategica della disintegrazione del Regno
Jugoslavo.
E i CAUR (in
particolare in Svizzera), unico tentativo serio di un’”internazionalizzazione”
del fascismo, saranno sostenuti molto più dagli italiani che dai tedeschi.
Ma la perdita
di prestigio del fascismo italiano, fa sì
che, per quanto dogmaticamente razzista, la dottrina nazionalsocialista
cominci a fare via via molto più presa su popoli anche differenti tra loro.
Marco
Fraquelli, da anni attento studioso di aspetti più o meno marginali, ma sempre
in qualche modo decisivi, del fascismo storico e del neofascismo
- ricordo il suo saggio “A destra di Porto Alegre” (Rubbettino, 2005)
sull’antiglobalismo “di destra”, nonché l’interessantissimo “Omosessuali di
destra”(Rubbettino 2007), traccia un ritratto il più esaustivo possibile di un
fenomeno complesso, quello dei fascismi minori tra le due guerre, con infinite
varianti locali, poco trattato dalla storiografia, almeno quella italiana,
nonostante la sua importanza, forse anche per meglio comprendere i rivolgimenti
dell’Europa attuale.
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