Coloro i quali, per formazione culturale o predispozione, non
appartengono alla categoria degli economisti che primeggiano nei media
generalisti, nelle università e nei consessi esclusivi – talvolta
contemporaneamente – potranno rilevare la particolare natura dei progetti di
Matteo Renzi e le sofisticate tecniche di comunicazione di massa con cui si
stanno dispiegando. Non possedendo il completo ventaglio di elementi per una
valutazione approfondita delle infinite variabili insite nelle politiche
economiche e monetarie, consiglio la lettura di studiosi di ogni orientamento
per accrescere la propria consapevolezza. Credo però che ognuno debba
infischiarsene della conditio sine qua non degli addetti ai lavori e possa
contribuire al dibattito condividendo il proprio patrimonio di competenze,
siano essere storiche, giuridiche, scientifiche o umanistiche. Sotto l’aspetto
dell’informazione il veteroblairismo del giovine premier, terzo esemplare della
tecnocrazia priva di legittimazione elettorale, è abilmente occultato sotto una
miscela pirotecnica di annunci, finte provocazioni, specchietti per le
allodole. Soltanto analizzando questa sfera fondamentale è possibile sviluppare
un ragionamento compiuto sul vero obbiettivo di questa nuova generazione della
politica con la p minuscola, la cui debolezza rispetto al potere economico
affonda le radici nella mutazione antropologica e culturale, oltrechè di etica
civile, della sinistra italiana. Cercheremo dunque di far emergere
l’inaccessibile chiave di volta di tale strategia multilevel “light, ordinary
and shock disinformation”, propedeutica allo “sdoganamento del peggiorismo”.
Con la seconda locuzione intendo riferirmi al pensiero di Achille Occhetto, che
di recente ha descritto l’attuale Pd come l’alchimia tra il “peggio delle
tradizioni della Dc e del Pci”.
Il filosofo Salvatore Veca coniò il termine migliorista per
descrivere la corrente comunista che non cercava di abbattere il capitalismo
con la violenza ma di migliorarlo, quella di Giorgio Amendola, Gerardo
Chiaromonte, Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano, un’area che negli anni
’80, al contrario, ha esemplificato la degenerazione morale della sinistra:
collaterale al corrotto Psi di Craxi, finanziata tramite il settimanale Il
Moderno dalle società del piduista Berlusconi. Lo scopo che si prefiggevano
ontologicamente i miglioristi si era invece realizzato nel periodo di massimo
sviluppo economico del Paese, negli anni ’70, in virtù del compromesso storico
di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, ma prima ancora per effetto della leale
collaborazione tra il predecessore Luigi Longo e il presidente dell’Eni Enrico
Mattei, vero pioniere della pubblica innovazione e della crescita sistemica
nazionale. Tra molte ombre e vizi endemici (clientelismo, familismo amorale,
malaffare e sprechi a livello politico-amministrativo) lo Stato italiano seppe
declinare in senso progressista la propria rivoluzione industriale, sospinto da
diverse istanze, soprattutto la presa di coscienza giovanile nel 1968 e la
crescita elettorale del Pci. In questo senso ci soccorre la ricostruzione di
Noam Chomsky in Sistemi di potere (Ponte alle Grazie, 2013), nella misura in
cui, secondo il linguista e politologo americano, le spinte endogene delle
forze migliori della società favorirono il New Deal di Roosevelt. Malgrado le
differenze di condizioni economiche e storico-culturali di un popolo che ha
conosciuto tardive unificazione, alfabetizzazione e democratizzazione, nell’
Italia del boom hanno avuto un ruolo analogo le forze sindacali, il
movimentismo studentesco, il femminismo, i comunisti e alcuni intellettuali
d’avanguardia. Il risultato di questo combinato disposto con la nuova coscienza
delle classi lavoratrici, solidificatosi non senza difficili mediazioni tra i
diversi strati della politica e dell’imprenditoria illuminata, è stato appunto
il progresso sociale: l’obbligo scolastico fino a 14 anni, i diritti civili, il
Servizio sanitario nazionale, l’evoluzione del Diritto finalmente depurato da
disparità di genere, lo Statuto dei lavoratori e la Scala mobile, il meccanismo
di automatico adeguamento dei salari all’inflazione abbattuto dal Pentapartito
dei governi Craxi e Amato, che ora il presidente Usa Barack Obama sta
introducendo in alcune categorie del pubblico impiego. Il sistema italiano di
tutele, in vigore nelle nazioni più progredite, si inserisce nel solco
costituzionale dei diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione qualificata e
all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Non a caso incarna il male
assoluto per le forze delle reazione, non solo in ambito culturale e dunque di
stampo clerico-fascista, ma soprattutto per il potere economico-finanziario. Lo
scatto in avanti per il bene comune assume ancor più valore nel contesto
storico in cui è maturato: l’emancipazione dell’Europa dallo strapotere degli
Stati Uniti, tornati al 25% della ricchezza mondiale come negli anni ’20, e
dunque indotti dal governo Nixon a svincolare le riserve auree dall’emissione
del dollaro, il cui valore era legato fino al 1971 a quello dell’oro, e nei due
anni successivi ad un rapporto di cambio fisso con tutte le valute mondiali;
nella sfera geopolitica il gendarme del mondo, reduce da insuccessi politici e
militari a Cuba e in Vietnam, fresco complice del golpe de estado del generale
Augusto Pinochet in Cile, osservava con crescente preoccupazione, come d’altra
parte l’Unione sovietica, l’anomalia italiana condizionata dall’unico partito
“comunista democratico” che viaggiava oltre il 30% dei consensi, nel crocevia
mediterraneo tra i blocchi della guerra fredda anche per lo snodo con il mondo
arabo. Dal 1969 il nostro Paese è stato ostaggio della strategia della
tensione, di terrorismi e mafie legati anche a poteri
politico-istituzionali-militari dalle origini indefinite, opportunamente
dimenticati dalla grande stampa che li banalizza ancora sbrigativamente come
“deviati” (consiglio la lettura dei libri di Paolo Cucchiarelli “La strage di
piazza Fontana” e di Stefania Limiti “Il doppio livello”), dunque è incapace di
restituire giustizia e verità alle sue vittime. Per comprendere i meccanismi di
selezione della classe dirigente italiana valga un esempio per tutti. Giorgio
Napolitano fu accreditato come primo dirigente del Pci a tenere university
lectures negli Stati Uniti, il viaggio fu concordato nel febbraio 1978 e si
svolse durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Al netto di quello che
la nuova verità giudiziaria potrà accertare e delle dichiarazioni su presunte
responsabilità dei defunti Andreotti e Cossiga da parte del giudice Ferdinando
Imposimato che si era occupato del caso, si può concordare che ci trovammo
nella condizione di un vero e proprio colpo di Stato, dopo diversi altri
falliti o inscenati per indurre i governi a svolte autoritarie. Il rapimento
del presidente della Dc che già era scampato 4 anni prima alla strage del treno
Italicus per un provvidenziale contrattempo, è stato eseguito dalle Brigate
Rosse con una “geometrica potenza” tale da venire considerata dagli osservatori
come parte di un piano noto alle Intelligence di mezzo mondo, quantomeno non
ostacolato a livelli molto più alti. A ‘Re Giorgio’ non si può imputare
null’altro che una questione di opportunità per la scelta, fortemente
simbolica, di non rientrare in Italia in quei giorni terribili. Di certo la sua
ascesa è inarrestabile: da ex burocrate favorevole persino all’invasione
dell’Ungheria ad ambasciatore del Pci nel mondo, Napolitano salì alla
presidenza della Camera sotto le bombe di Milano e Roma nel biennio nero della
trattativa Stato-mafia e di Tangentopoli, poi si è trasferito al Viminale nel
primo governo Prodi, dichiarando alla vigilia dell’insediamento di non avere
alcuna intenzione “di aprire armadi”. Superfluo dunque ricordare, nel due
mandati al Colle, le affinità del capo dello Stato con Berlusconi, fenomeno che
come ogni raider politico di successo è stato prima sostenuto convintamente dai
poteri forti e poi in parte scaricato, e il nodo gordiano delle prassi anomale
di King George rispetto alle prerogative costituzionali. Nel 2001 Henry
Kissinger confermerà in una pubblica cerimonia quanto i media conoscevano ma
hanno sempre ignorato: ”Napolitano is my favourite communist”.
Con la scomparsa di condottieri come Moro e Berlinguer
l’involuzione della sinistra, della politica italiana e della società ha subìto
un’ impressionante accelerazione. I keynesiani forniscono una chiave di lettura
importante sul “divorzio” tra ministero del Tesoro e Bankitalia. Nel 1981, per
volere del governatore Carlo Azeglio Ciampi e del ministro Beniamino Andreatta,
mentore di Prodi, Enrico Letta e tuttora stella polare di Renzi, la banca
centrale non potè più presentarsi come acquirente di prima istanza di Bot e
Cct, consentendo agli istituti di credito di stabilire il prezzo del rendimento
dei titoli di Stato, ovvero tassi d’interesse favorevoli per i loro bilanci e
dannosi per i conti pubblici, in modo esponenziale e permanente. Il mutamento
ha prodotto una buona fetta dell’indebitamento dello Stato italiano, soggetto
inoltre, sempre per la mancata protezione di Bankitalia, all’assalto degli
speculatori stranieri che nel 1992 costrinsero l’Italia a svalutare uscendo dal
sistema monetario europeo. La direzione unilateralmente intrapresa, quella
della perdita di sovranità monetaria, risale al 1979 con l’adesione acritica
allo Sme (ad eccezione di Napolitano, che all’epoca paventò il rischio di una
regia germanocentrica) e all’Ecu, la moneta virtuale embrione dell’Euro, e
passa per apposite riforme strutturali dei governi tecnici e di centrosinistra.
Il professor Romano Prodi, tuttora celebrato come salvatore della patria e
iconizzato dal leader della minoranza della sedicente sinistra del Pd, Pippo
Civati, si era già distinto negli anni ’80 come dominus dell’Iri e manager
preposto alla cessione di comparti significativi: Italsider fu venduta ai Riva
previo creazione di una bad company per scaricare sulla collettività i debiti
pregressi dell’acciaieria, l’agroalimentare Sme alla Cir di Carlo De Benedetti,
Cirio finì nelle grinfie del finanziere Sergio Cragnotti, la casa
automobilistica Alfa Romeo fagocitata dall’onnipotente Fiat. La nuova tornata,
due lustri dopo, ha visto il passaggio di Autostrade alla holding della
famiglia Benetton, la Telecom controllata prima dalla Ifi degli Agnelli e poi,
sotto il governo D’Alema, scalata a debito dai capitani coraggiosi Roberto
Colannino e Chicco Gnutti con il concorso esterno del superconsulente Gianni
Consorte di Unipol. Lo scenario non è
neppure immaginabile nelle altre nazioni europee, sia a guida socialista che
conservatrice: gli Stati non aderenti all’euro governano l’economia con banche
centrali autonome, svalutano la moneta per favorire le esportazioni, sono privi
di vincoli rispetto al debito pubblico e al disavanzo annuale, che sempre
secondo i keynesiani rappresenta un fattore di salubrità per una comunità.
Secondo questa concezione, se il denaro non viene adoperato dai governi per
ridurre il deficit ma speso per investimenti cresce la ricchezza privata dei
cittadini e delle imprese. All’interno dell’eurozona inoltre nessun governo si
è mai sognato di privatizzare asset nazionali. Ancora nel 2007 l’ Italia
partoriva nuovi progetti che restano blindati sul tavolo delle riforme
auspicabili, l’allora vicesegretario del Pd Enrico Letta difatti invocava la
cessione di quote di “Enel, Eni e Finmeccanica”. Persino gli Usa, che pure
hanno una concezione anti-solidaristica dell’amministrazione, sono spesso
ricorsi al protezionismo con dazi doganali ad hoc, hanno sviluppato politiche
economiche statali con la leva della banca centrale e per effetto di una forte
vocazione imperialista, sebbene oggi la perfetta macchina militare, a causa
dell’indebolimento del dollaro e del debito pubblico nei confronti di Giappone
e Cina, non riesca più ad assicurare l’assoluto dominio nelle aree ad alta
intensità energetica nel Sudamerica e nel Medio Oriente. La ricerca e
l’innovazione promossa dalla Casa Bianca favorisce da sempre le start up
incarnando lo spirito non già del miracolo americano ma di qualsiasi realtà
evoluta, che concepisce lo Stato come reale timone che alimenta, in costante
confronto con la società civile, la propria Weltanschauung, elaborando progetti
che possano fornire alternative e competizione vera, antidoto agli oligopoli.
Al contrario un Paese senza sovranità monetaria e guida Politica come l’Italia,
in balia delle disposizioni cogenti della troika, proseguirà con gli aumenti di
imposizione fiscale e i tagli di risorse pubbliche in una spirale che riduce i
consumi e le produzioni toccando vette di disoccupazione e pauperismo.
Onde evitare il dibattito vero, ossia fino a che punto la
pubblica amministrazione debba spingersi nell’economia, i media autoctoni
agitano lo spettro del debito pubblico dimenticando che si tratta di un male
comune a potenze come gli Usa e il Giappone, e suggerendo per l’Italia “derubata
e colpita al cuore” palliativi da malato terminale. La lotta agli sprechi e
all’ evasione fiscale, alla corruzione e alle mafie darebbe certamente
risultati tangibili ove ci fosse la volontà politica finora mancata: una
efficace gestione dei beni confiscati che troppo spesso ritornano nelle mani
dei boss, l’assenza del reato di autoriciclaggio introdotto nelle scorse
settimane persino nella Repubblica di San Marino; la corruzione tra privati e
il traffico d’influenze previsti dalla legge Severino sono reati non
perseguibili poiché con pene da 1 a 3 anni non consentono intercettazioni, il
falso in bilancio e l’abuso d’ufficio restano depenalizzati, reati ambientali e
abusi edilizi si risolvono con semplici oblazioni, per la frode fiscale non si
finisce in carcere neppure se reo-confessi di ruberie miliardarie. Il problema
è che questa discussione nell’alveo dell’ indignazione mediatica e delle
dichiarazioni d’intenti politiche non ha mai prodotto risultati per evidenti
molteplici interessi, non soltanto le collusioni mafiose e le lobby
parlamentari di indagati e avvocati, ma per ragioni storiche più profonde: le
quattro organizzazioni criminali sono cresciute negli anni grazie a quelle
cointeressenze affaristiche e strategiche. Su piani diversi ma con una logica
non dissimile, certamente aggravata dalla deriva morale del berlusconismo, è
spiegabile l’inerzia della classe politica, talvolta anche dopo l’intervento
della magistratura, rispetto agli sperperi (vitalizi d’oro, consulenze dorate,
stipendi record) relativi a cricche burocratiche che non sono sottoposte a
spoil system, al clientelismo demeritocratico e ai fiumi di denaro legati a
fenomeni di corruzione sempre più ingegnerizzati.
Se da un lato è sacrosanto insistere nelle denunce di ogni
commistione, immoralità e reato, nell’impegno civico per l’educazione alla
legalità, da tempo si sarebbero dovute affrontare le ragioni più profonde della
crisi italiana. Roberto Saviano ha lanciato la consueta suddetta evergreen
question per consentire a Renzi di fornire pronte promesse law and order, ma
perlomeno non si è spinto oltre. Sul Corriere della Sera del 3 marzo 2014, in
un editoriale intitolato “Le cause politiche della descrescita”, Ernesto Galli
della Loggia si sofferma su quelle che considera le conseguenze negative molto
importanti: ”L’espansione caotica e costosa dello Stato sociale, i sussidi
indiscriminati alle imprese, il peggioramento della qualità dell’istruzione e
della Pubblica amministrazione a causa di concessioni permissiviste dall’alto e
pansindacalismi e agitazioni democraticiste dal basso (…)”.Additare l’eccesso
di spesa sociale come causa dell’indebitamento pubblico è un esercizio di
disonestà intellettuale se si evita di riferirsi ai fenomeni corruttivi, alle
svendite di comparti fondamentali, agli alti tassi d’interesse dei titoli di
Stato che le banche private hanno sfruttato dagli anni ’80. E soprattutto alla
stretta dei vincoli europei. Basti considerare le conseguenze nefaste del
pareggio in bilancio, introdotto in Costituzione nel luglio 2012, in sordina e
con voto bipartisan dunque, senza neppure dover manomettere l’articolo 138
della suprema Carta. Si tratta del fiscal compact, che per riportare il debito
pubblico italiano al 60% del Pil si manifesta come un cappio al collo da 50
miliardi di euro l’anno per i prossimi venti. Ergo, volenti o nolenti, i
governi non potranno favorire lo sviluppo attraverso riduzioni fiscali del
costo del lavoro e incentivi che Confindustria e le altre associazioni di
categoria continuano a chiedere, concentrandosi sulla macelleria sociale. In
sostanza, la subalternità culturale della classe dirigente italiana, e il
centrosinistra mutato antropologicamente più ancora del pregiudicato
Berlusconi, continuerà a seguire pedissequamente i diktat della grande finanza
internazionale. I proclami per l’uscita dall’euro, un pass-through le cui
conseguenze negative sui movimenti di capitali e sui salari in relazione al
nuovo tasso di cambio sono oggetto di complessi studi scientifici, favoriranno
le ali nazionaliste dello scacchiere europeo ma rappresentano vacua retorica. I
componenti della troika, ossia Fmi, Commissione Europea e Bce, parimenti al
Consiglio d’Europa, sono costituiti da tecnocrati nominati dai governi,
personalità di grande competenza ma prive di legittimazione popolare, tuttavia
in larga parte appartenenti alle classi dominanti, aristocrazie moderne che si
confrontano presso club esclusivi per banchieri, manager, boiardi di Stato,
giornalisti selezionatissimi. Nessuno invece spiega che l’unico organo
democraticamente eletto, il Parlamento Ue, è privo dei poteri legislativo ed
esecutivo.
Torniamo dunque al tema dell’informazione, che fino all’altro
ieri non aveva mai pronunciato sulle tv e i giornali nazionali le due parole
magiche, “fiscal compact”, mentre oggi c’è grande fibrillazione per il rinnovo,
pressochè ininfluente, dell’europarlamento. Negli ultimi anni stampa e Pd
lancia (Renzi) in resta hanno avallato i progetti tayloristi dell’ad Fiat
Sergio Marchionne e continuato a ripetere ossessivamente la necessità di
privatizzare reti strategiche nazionali e locali: con la perdita delle prime si
impedirà qualunque policy innovativa e progressista, con gli oligopoli misti
delle multiutility si sedimenterà ulteriormente il profitto finanziario in beni
e servizi pubblici. Eppure i disastri provocati nell’ossatura della
piccola-media impresa e in termini di sperequazioni dei redditi erano visibili
molti anni prima della crisi del 2008, fatta coincidere con il crac della
Lehman Brothers. Come non notare che l’abolizione dello Steagall act voluta da
Bill Clinton aveva eliminato in modo criminogeno la separazione tra banche
d’affari e di risparmio, aprendo il varco ai piani d’investimento a rischio che
hanno rovinato milioni di risparmiatori nel vortice dei derivati, il moderno
gioco d’azzardo su titoli sottostanti? Wolfang Goethe nel 1830, scriveva: ”Vuoi
moneta di zecca? Ecco la banca. E se non c’è, basta scavare un po’. Coppe e
collane si vendono all’asta e la carta moneta subito ammortizzata fa vergogna all’incredulo
che di noi se la ride”(Mefistofele, Faust II). Onde evitare di affrontare il
merito delle questioni il mainstream ha propugnato assiomi indimostrati
sull’efficienza del capitalismo finanziario, assunti neppure filosofici o
ideologici ma psicologici: di fronte al contrarsi di salari, diritti del
lavoro, investimenti pubblici in scuola e ricerca, il mercato finanziario sarà
grato e dunque si spenderà per la collettività. Neppure Adam Smith era mai
giunto a sostenere tanto. Difatti qualificava i mercanti inglesi dell’età
vittoriana come i “principali architetti” della politica economica, non certo
disinteressati creatori di benessere. Soltanto di recente dunque, di fronte
alla protesta popolare per l’impoverimento delle classi medie e all’impegno di
soggetti come il M5s e di Tsipras in Grecia, l’agenda mediatica ha concesso
piccoli spazi di democrazia partecipata.
L’agenda politica, secondo il parlamentare Pd Corradino Mineo
intervistato oggi nella trasmissione “Un giorno da Pecora”, sarà dettata da
Matteo Renzi ancora a lungo. Il terzo premier nominato senza passare dalle
elezioni né da un dibattito parlamentare che motivasse la sfiducia, possiede
quello spago che mancava ai predecessori Monti e Letta invisi all’opinione
pubblica: ben congegnate traiettorie mediatiche lo hanno ammantato di nuovismo
e decisionismo, nondimeno caricato di una buona dote di alibi preconfezionati
(il Ncd di Alfano, le burocrazie eterne, la sinistra interna, ect). Ai fini
dell’esito positivo della congiura di palazzo che ha destituito Enrico “stai
sereno” Letta, è stata decisivo lo “scoop” nel libro di Frieadman sugli
incontri informali di Napolitano per sostituire Berlusconi con Monti
nell’estate del 2011. Re Giorgio, che come abbiamo visto è il garante supremo
degli interessi dei poteri forti atlantici, vaticani e finanziari, si è
orientato come un barometro sulle condizioni meteorologiche favorevoli a Renzi,
dischiudendogli le porte di palazzo Chigi dopo una votazione democratica che in
altri tempi si sarebbe definita bulgara. Sarà un caso ma la scelta di non
indire nuove elezioni dopo la caduta di Berlusconi nel novembre 2011 favorì,
oltre al Cavaliere al minimo storico nei sondaggi, lo stesso rampante
fiorentino. Il quale ha avuto tutto il tempo di preparare la sua campagna
elettorale permanente per le primarie di fine 2012 contro il segretario
Bersani, arrivato all’appuntamento con le Politiche del febbraio 2013 con lo
scandalo Mps sul groppone. Lo stupore minimizzatorio degli osservatori per il
recente endorsement del Fmi al Jobs act di Renzi appare surreale per il
risaputo orientamento liberista del premier, in prima fila nell’ostentare
deferenza ai sacerdoti dell’austerity mescolati ad elogi ai padri nobili
dell’Europa come De Gasperi, Altiero Spinelli e Adenauer. Domenica 2 marzo il
“compagno Matteo”, per lanciare “la sfida dell’education e della cultura”, ha
citato l’esempio delle banche che “finanziarono gli artisti del Rinascimento”,
esempio classico di paleocapitalismo elitario anglossassone. Puro afflato
filantropico, amnesia temporanea per il profitto e lo spread tra borghesia
finanziaria e ceti disagiati, o riverniciatina d’immagine veteroblairiana che
consentirà di rilanciare la tesi tecnocratica dominante del cut-cut-cut per “il
bene delle nuove generazioni”? Renzi pronunciato questo discorso in occasione
dell’ingresso nel Partito socialista europeo del Pd, descritto da alcuni
osservatori più realisti del re come l’ennesima medaglia del sindaco di
Firenze. Un eccesso che ha costretto il fondatore del Pds Occhetto a ricordare
come il partito fosse entrato nella famiglia socialista europea sotto la sua
guida. Altro aspetto significativo è il ringraziamento che Renzi, sedicente
rottamatore della vecchia classe dirigente dei Ds, ha inteso tributare
pubblicamente a Bersani, D’Alema e Fassino, peraltro già degnamente
rappresentati nella direzione del partito e nei ruoli di sottogoverno. Che si
tratti di un’abile mossa tattica nei confronti di chi sta evidentemente
trattando nuovi posti di potere, poco importa. Questa somma di ragioni induce a
ritenere che le supposte richieste renziane di modificare i patti di stabilità,
amplificate dagli esegeti bocconiani della prima ora e dai più frizzanti
presenzialisti televisivi, non rappresentino altro che banali depistaggi informativi.
Nel libro scritto con Ferruccio Pinotti per Chiarelettere, I panni sporchi
della sinistra, abbiamo dedicato alcune pagine all’ascesa di Renzi, all’epoca
ancora sindaco di Firenze e sfidante di Bersani alla segreteria democratica.
Più che sulla variopinta galassia di cantanti, sportivi e scrittori ci siamo
concentrati sui sostenitori di peso: il gotha dell’industria e della finanza,
compresa la galassia berlusconiana di Giorgio Gori, Flavio Briatore, Fedele
Confalonieri. Prima di rendere noti i finanziatori della fondazione Big Bang
era stata una cena di autofinanziamento promossa da Davide Serra, golden boy
della finanza a lungo all’opposizione nel colosso Generali e ideatore
dell’hedge fund Algebris Investments Ltd, a svelare gli aficionados. Alla cena
erano presenti imprenditori del calibro di Claudio Costamagna, presidente di
Impregilo, Andrea Guerra, amministratore delegato di Luxottica, banchieri come
Flavio Valeri di Deutsche Bank e Carlo Salvatori di Lazard Italia, ex Unipol,
Intesa e Unicredit. All’uscita Guido Roberto Vitale, già presidente Lazard,
regalò lo screenshot: «Renzi è l’unico uomo di sinistra che non ha letto Marx e
per questo è da stimare”. Non abbiamo esitato a rivelare l’occhiuta presenza
del potere atlantico per il tramite di Michael Leeden, falco repubblicano
stratega dei servizi segreti, che unisce virtualmente il deus ex machina della
politica italiana Giorgio Napolitano e il nuovo predestinato Matteo Renzi.
Anche se c’è chi parla di viaggi transoceanici precedenti alla visita privata
del sindaco di Firenze alla residenza di Berlusconi ad Arcore, Leeden si
sarebbe avvicinato alla galassia renziana tramite il costruttore Marco Carrai,
consigliere presso alcune ex municipalizzate che vanta buoni agganci negli Usa
e in Israele, oltre che legami con l’Opus Dei. Leeden, presente alla Leopolda,
pareva un fantasma per tv e stampa italiane benchè personaggio di una certa
fama: trent’anni orsono, lo stimato consulente dei servizi italiani, prima di
venire coinvolto (e scagionato) negli scandali Iran-contra e Niger-gate, si
interessò dell’individuazione di Napolitano come l’affidabile nella fila del
Pci. “I panni sporchi” ha dunque lanciato alcuni sassi nel silente stagno
mediatico: scoop come la condanna alla Corte dei conti dello storico tesoriere
Ds Ugo Sposetti, notizie confinate nelle cronache locali come il legame tra il
luogotenente di D’Alema, l’ex sindaco di Gallipoli Flavio Fasano, e il
capomafia della Sacra Corona Unita Rosario Padovano, le vicende censurate dei
procedimenti trattati da magistrati scomodi come Clementina Forleo e Desireè
Digeronimo sono rimasti “pezzi unici”. Eppure sono state vendute svariate
migliaia di copie e gruppi di cittadini partecipano con passione alle
presentazioni, sia quelle organizzate dagli attivisti del M5S sia ai dibattiti
con colleghi come Antonello Cresti del Manifesto, o con l’autore di tre libri
su Mps Raffaele Ascheri, o ancora “banditi” che da anni non danno tregua alle
cosche come Christian Abbondanza della Casa della legalità. Forse qualche
conduttore tv e quotidiano del salotto buono lo avrà sfogliato distrattamente,
ad esempio potrebbe non essere stata una coincidenza la scelta del settimanale
di Repubblica, Il Venerdì, di dedicare ai rapporti tra Napolitano e il mondo
anglosassone la prima pagina del 13 dicembre 2013 Link all’operazione de Il
venerdì.
Il meccanismo della shock disinformation è invisibile per
effetto di un’oliata dissimulazione posta su tre livelli, vere e proprie ruote
dentate sincronizzate: l’occupazione della comunicazione generalista con
aspetti sovrastrutturali grazie a decine di figuranti entrati talmente bene nei
rispettivi ruoli da rendere perfettamente credibili gli scontri polemici; la
censura e, ove questa fosse impossibile, la minimizzazione e la manipolazione delle
verità scomode; al terzo livello la shock disinformation. Il piatto centrale al
desco dei manovratori del Risiko comunicativo, finalizzato allo sdoganamento
del peggiorismo, è il terzo livello. Citiamo ad esempio la polemica di fine
2012 tra il finanziere Davide Serra e l’allora segretario del Pd Bersani, sulla
società del primo operante con “base alla Cayman” contrapposta alla
nomenclatura che stava boccheggiando con lo scoppio di scandali come Mps. Il
quesito che s’insinuava in lettori ed elettori non era facilmente percepibile
ma poneva di fatto sulla bilancia due realtà fino a qualche anno fa, a
sinistra, incompatibili: sono più abietti i paradisi fiscali, la finanza
speculativa, le grandi lobby che scaleranno e poi sosterranno (american
trasparency) il partito della fu sinistra o i costi esorbitanti della Casta
pubblica, il voluminoso rimborso pubblico ai partiti e ai giornali che infatti
Renzi propone di abolire tout court sfruttando le proposte del Movimento 5
Stelle? Lo stesso Serra, quando il mese scorso la Elettrolux ha annunciato
l’intenzione di chiudere lo stabilimento friulano se non avesse dimezzato i
salari, ha ribadito la concezione classica dei liberisti del capitalismo
finanziario globalizzato. In un tweet, poi bacchettato da Gad Lerner, ha
legittimato la sparata della multinazionale svedese definendola razionale:
“Costo del lavoro per azienda e triplo dopo oneri sociali. Per salvare lavoro
deve abbassare 40% stipendi”. Il messaggio della shock disinformation deve
essere esplosivo per incrinare i retaggi delle conquiste sociali, anche se è lo
stesso concetto che sentiamo ripetere nelle università e nella pubblicistica da
un trentennio a questa parte. Privato è bello, anche se la produzione
delocalizza, se l’industria si finanziarizza, se l’economia reale si
trasferisce da beni e servizi a giochi borsistici mentre le banche conducono il
percorso inverso e perverso: prestando denaro creato dal nulla a famiglie,
imprese e Stati realizzano strozzinaggio legalizzato. Quando la real
competition, poiché la vera concorrenza nel mercato è fattore positivo, aggrava
le condizioni dei “creatori di denaro” ecco subentrare gli aiuti della Bce e
degli Stati: dopo il regalo della patrimonializzazione di Bankitalia posseduta
da istituti privati che potranno vendere le quote eccedenti il 3%, ora il
governatore Ignazio Visco suggerisce di creare una bad bank per rilevare i
mutui subprime, i crediti difficilmente esigibili, delle banche private. Non è
arduo prevedere che presto sarà la sanità pubblica a venire aggredita. Il
sistema economico-finanziario promuove sottili campagne che amplificano i
problemi del pubblico e occultano quelli oggettivamente maggiori dei network
privati. Le catto-privatizzazioni e esternalizzazioni per interessi endogeni ed
esogeni, dalla clinica locale alla multinazionale del farmaco, sono favorite
dalla spending review che gli organismi internazionali impongono agli Stati, i
quali a loro volta obbligano le Regioni a “razionalizzare” anche il numero dei
posti letto. Dunque la difesa della sanità e degli ospedali pubblici da parte
di pochi coraggiosi amministratori locali è una battaglia di civiltà.
A questo punto mi ricollego ad una tesi di Pier Paolo Pasolini,
la cui visione si è dimostrata anticipatrice e neorealista, nel senso della capacità
di rendere intellegibile un dato momento storico. Stiamo parlando di un
intellettuale che allora incideva nella carne viva del Potere con i suoi
ragionamenti profondi ed emancipati (usurpati ancora oggi, giocoforza senza
citazione), scomodo poiché consentiva ai lettori del primo quotidiano italiano
di sublimare concetti nobili, intrisi di grande logica e pragmaticità. Ad
esempio il poeta bolognese, che pure non ha mai risparmiato sacrosanta
irriverenza alle falsità clericali, considerava più pericolose le mode
fintamente trasgressive e realmente nichiliste, indotte dalla società
consumistica. In sostanza le critiche del ribellismo all’ipocrisia (il pubblico
pudore che è il dazio pagato dal vizio alla virtù) di sinistra, sindacati o
della stessa religione cristiana, in definitiva della struttura che ha
idealmente valore pubblico, erano e sono utili alle forze politico-mediatiche
capitaliste per inculcare modelli privi di etica civile. E’ ovviamente
importante fare emergere malaffare, incoerenze e liturgie insensate per
migliorare questi aspetti, gravi ma sovrastrutturali, ma lo è di più progettare
una società migliore, classica o/e innovatrice, votata al bene collettivo e
ambientale. Invece la geometrica potenza dei poteri forti amplifica mediante le
apposite maschere politiche (panem et circenses) quegli aspetti negativi,
dovuti alla natura predatoria e meschina dei singoli, con lo scopo malcelato di
svilire e delegittimare i principi di uguaglianza e solidarietà da sempre nel
mirino. Degli sdoganatori del peggiorismo.
In questo articolo avete dimenticato cose molto importanti... le riforme estremamente importanti attuate durante i governi dal 63 al 76 sono state fatte grazie ai socialisti... statuto dei lavoratori (Brodolini e Giugni)... Scuola dell'obbligo per tutti e aperta a tutti niente soldi alle scuole private... riforma dello stato di famiglia che equiparava finalmente l'uomo e la donna... servizio sanitario nazionale (Pieraccini)... divorzio e aborto (Loris Fortuna)... il socialista Giolitti non ha poi potuto attuare la legge sulla riforma dei suoli perchè hanno cominciato a tintinnar le sciabole... dopo il 76 la sinistra invece di fare l'union dela gauche ha fatto i grandi compromessi storici PCI-DC e PSI-DC... voluti da Berlinguer prima e da Craxi dopo e la sinistra ha fatto karakiri... le riforme socialiste 63-76 dei socialisti seri sono state lentamente smantellate... e ora è tutto da rifare da capo solo che i comunisti non hanno voluto diventare socialisti e hanno preferito diventare democristiani... alla guida degli ex comunisti ci sono ora i democristiani, prima Letta poi Renzi... e Renzi ha voluto entrare nel PSE non perchè sia socialista ma per tattica opportunistica... qui in Italia col PPE ci sono Berlusconi e un nugolo di voltagabbana Comunisti socialisti radicali repubblicani e democristiani interessati alla pecunia... una volta sparito Berlusconi vedremo il democristiano Renzi tornare all'ovile vaticano dopo aver un pò destabilizzati il socialismo europeo...
RispondiEliminaCompletamente d'accordo su questa analisi. Aggiungo e sottolineo che l'incapacitá di creare un'economia non piramidale porta inevitabilmente a un deterioramento della qualitá della vita di tutti dalle basi ai vertici. Un tragico e soesso patologico impoverimento di vita di un intero popolo. É paradossalmente triste e frustrante vivere da ricchi in un paese povero e soprattutto frustrato.
RispondiEliminanessun dubbio sul fatto che quei poteri che tu menzioni puntino su Renzi, che non è per niente Renzie. Il segnale più clamoroso è stato lo "scoop" Corriere-Friedman poche ore prima dello scannamento di Letta, deciso in quattro e quattr'otto. Ma penso anche che Renzi abbia progetti talmente grandiosi su di sé da poter essere lui stesso (ma non prima del plebiscito elettorale) a imporre logiche, priorità e agende. Quel che è certo, sarà un fenomeno politico di lunghissima durata, a meno di fatti clamorosi e imprevedibili
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