Figura estremamente atipica e controversa, quella del
terrorista nero Vincenzo Vinciguerra. Catanese di nascita, muove i primi passi
politici negli anni ‘60 nell’ambito del MSI e quindi di Ordine nuovo udinese,
di cui diviene uomo di punta.
Si rende colpevole di una strage quando, il 31 maggio 1972,
alcuni carabinieri, avvertiti dal suo camerata Carlo Cicuttini cercano di
aprire una 500 abbandonata con fori di proiettili, in località Peteano di
Sagrado (Gorizia): tre di loro moriranno
nell’esplosione di quest’ultima, mentre un quarto rimarrà gravemente ferito.
Ancora nell’ottobre dello stesso anno, a scopo di
autofinanziamento, pianifica il dirottamento di un Fokker 27 nel quale troverà
la morte il sodale Ivano Boccaccio.
Fugge dall’Italia nel 1974 per scampare
l’arresto in relazione a quest’ultimo episodio. Ritiene tuttavia - e lo dichiarerà nel libro “La strategia del
depistaggio” (Il Fenicottero, 1993) – che militari dell'Arma e servizi
sapessero del coinvolgimento suo e di Cicuttini nell'attentato di Peteano. Sono
troppi gli elementi a portare in quella direzione, è la sua convinzione.
Intorno alla strage di carabinieri è fiorita una serie incredibile di
depistaggi (non va dimenticato che le vittime erano militari e colleghi di
molti fra quanti indagavano), culminati nell'attribuzione fittizia di
responsabilità ad alcuni malavitosi locali, incastrati sulla base di
testimonianze ben ricompensate e di indizi inesistenti.
La prima tappa della fuga di Vinciguerra è in Spagna, sotto
la protezione del regime franchista. Lì, a suo dire, comprende sino in fondo le
compromissioni di Ordine nuovo con il potere “democratico e atlantico” e decide di uscirne, legandosi ad Avanguardia
nazionale e al suo capo Stefano Delle Chiaie, conosciuto nella penisola
iberica.
Stando alla sua autobiografia, “Ergastolo per la libertà”
(Arnaud, 1989), anche i rapporti con i camerati di Avanguardia nazionale non
sono idilliaci, e ciò specialmente durante la latitanza argentina. Infatti dopo un soggiorno in Cile, Vinciguerra si era rifugiato
a Buenos Aires. Si tratta di permanenze molto sospette per uno che afferma di
avere compiuto una scelta attivamente anti-atlantista, soprattutto perché
resta inserito con funzioni operative
nel network di Avanguardia nazionale e, dunque, rimane al servizio quantomeno
dei regimi di Franco in Spagna e di Pinochet in Cile. Vinciguerra non ha mai
spiegato interamente cosa fosse successo nei lunghi anni della latitanza: nel
libro succitato sembra talora arrampicarsi un po’ sugli specchi, forse
anche per la necessità di coprire persone ancora in vita.
Rientrato in Italia nel ’79, nell’84 decide di dare notizia
alla magistratura (e non di “confessare”, precisa) del ruolo da lui ricoperto
nella strage di Peteano. Lo fa, a suo
dire, non per “pentimento”, ma per chiarire la collusione di Ordine nuovo e del
resto del neofascismo, parlamentare e non, con le istituzioni. Quelle stesse
istituzioni, democratiche e atlantiste che i neofascisti asserivano invece di
voler combattere. L’attentato di Peteano, secondo Vinciguerra, è stato l’unico
nella triste storia delle stragi ad essere compiuto “contro” lo Stato e i suoi
rappresentanti, proprio poiché rivolto a carabinieri in servizio e non a
civili.
Da detenuto intraprende a quel punto una battaglia per un
ergastolo che preveda la sua piena e autonoma responsabilità (non coinvolge il
telefonista Cicuttini, riconosciuto in una telefonata registrata dalla polizia,
finché la condanna di quest’ultimo non passa in giudicato), e la sua
indipendenza dalle vergognose omissioni
e dai depistaggi da parte dello Stato - carabinieri e polizia - attuati a sua
insaputa e, comunque, contro la sua volontà. Condannato all'ergastolo in primo grado,
rinuncia all’appello: dichiara di voler dimostrare così di non avere ammesso le
proprie responsabilità per ottenere benefici di sorta. Viene comunque
trascinato in appello, dove i giudici riconfermano la condanna alla massima
pena.
Da questo momento comincia una collaborazione con la
magistratura: vuole far uscire allo scoperto quella che lui considera la verità,
cioè la completa sottomissione del neofascismo extraparlamentare e non, alle
logiche dell’atlantismo e dei suoi rappresentanti in Italia.
Darà un importante contributo allo sforzo di comprensione
del giudice istruttore Guido Salvini, che grazie anche a lui può riaprire, a
metà anni Novanta, i processi sulle stragi attribuite a Ordine nuovo, a partire
da quella di Piazza Fontana. Anche se un solo imputato (Carlo Digilio) verrà
condannato in via definitiva, la sentenza-ordinanza del ‘95 del magistrato
milanese rimarrà uno spartiacque di estrema importanza nell’ambito della
storicizzazione della destra eversiva.
Ma Vinciguerra rifiuterà sempre il ruolo di “collaboratore”: non ritiene ad esempio di
parlare di quei camerati che egli considera aver agito in buona fede, indicando
solamente i “traditori” di un fascismo che per lui doveva essere anti-atlantico
e anti-sistema. E non altro.
Ma questa strategia finisce per forza di cose per diventare
troppo ambigua. Per questo, nel 1993, il neofascista interrompe per la seconda
volta il “dialogo” con la magistratura. Questa volta per sempre.
Non rinuncia tuttavia a portare avanti la sua battaglia di
“soldato politico” con la memorialistica. La sua ultima uscita si intitola
“Stato d’emergenza” (2013, edito in proprio), e raccoglie una serie di scritti
– dal 1999 al 2013 - sulla strage di piazza Fontana con l’intento di far luce
sulla carneficina avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.
Queste episodio si colloca, secondo Vinciguerra, in uno
scenario di continuità con le stragi successive: quella alla Questura di Milano
(1973), dell’Italicus (1974), di piazza Loggia (1974) e finanche la strage di
Bologna (1980), oltre a un gran numero di attentati falliti per cui individua
vari centri operativi: Roma, Milano, Mestre-Venezia, Trieste, cui si aggiungerà
in seguito la Toscana. Per lui tali attentati sono parte di un unico disegno
criminoso: fa notare che gli imputati in tutti i processi scaturiti dalle
indagini di Salvini sono più o meno gli stessi, e sostiene che il non
raggruppare tutti i procedimenti in uno solo abbia costituito un grave handicap
per l’accertamento della verità. Vedremo più in là i punti salienti di questa
tesi
Innanzitutto Vinciguerra ravvisa un coordinamento fra le
azioni di MSI, Ordine nuovo, Avanguardia nazionale e Fronte nazionale di Junio
Valerio Borghese.
Avanguardia nazionale di scioglie nel ’65 ma solo
formalmente, e i suoi aderenti finiscono in parte negli altri gruppi eversivi.
Il loro scopo è soprattutto fare manovalanza “coperta” per azioni di guerra non
ortodossa, come l’operazione di affissione di manifesti “cinesi” (in realtà
filo-sovietici a dispetto del nome) nel febbraio ’66, promossa dal direttore
del “Borghese” Mario Tedeschi per conto dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero
degli Interni. Obiettivo di questa operazione è creare divisione nella
sinistra.
Avanguardia nazionale non mancherà di ricattare in seguito
Tedeschi (e, tramite lui, Umberto Federico D’Amato, capo dell’Ufficio Affari
Riservati) su questa questione.
Ordine nuovo invece rientra nel MSI alla vigilia della
strage di Piazza Fontana, per procurarsi un “ombrello” parlamentare in vista
del piano eversivo. Il Movimento politico ordine nuovo di Clemente Graziani si
scinderà dalla casa madre solo formalmente, mentre nel dicembre 1968 si
costituisce ufficialmente il Fronte nazionale di Borghese, il cui fallito golpe
della fine del ‘70 è ritenuto da Vinciguerra un mero
tentativo di replica di quello programmato per il fatale dicembre del ’69.
La famosa velina del Sid che a ridosso della strage del 12
dicembre indica in Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie e Yves Guérin Sérac i
responsabili degli attentati di Roma, non è frutto di una trappola del servizio
militare - da cui Ordine nuovo dipende -
contro Avanguardia nazionale (facente capo al Servizio civile), ma
rappresenta una forma di “avvertimento” e di “ricatto”. Per il fascista catanese,
nonostante la rivalità tra i due gruppi extraparlamentari (che culminano
persino, a suo avviso, nell’uccisione di Carmine Palladino figura di prestigio di Avanguardia
nazionale, da parte dell’ordinovista Pierluigi Concutelli nel carcere di Novara, nel 1982), le relative
azioni sono state sempre parte di un
unico disegno. Resterebbe da spiegare come mai per alcuni anni dopo
l’assunzione di responsabilità su Peteano, Vinciguerra si consideri ancora
legato ad Avanguardia nazionale e lanci le sue accuse praticamente solo verso
Ordine nuovo.
Secondo lui il modello dell’atto terroristico da attribuire
ad anarchici o comunisti (con successive e violente manifestazioni in piazza
del MSI e la proclamazione dello stato di pericolo pubblico da parte del
Presidente della Repubblica) sarebbero gli obiettivi di tutte le stragi.
Obiettivi peraltro simili in parte alle vicende di sangue che ebbero luogo
durante il governo Tambroni del 1960, appoggiato dal MSI.
La visita in Italia del Presidente
americano Nixon il 27 febbraio del 1968 è costellata di violente manifestazioni
in piazza e attentati, mentre il Secolo d’Italia dedica un’intera pagina del
giornale ad avvertire il Presidente repubblicano che “l’Italia si prepara a
tradire gli impegni atlantici sottoscritti con gli Stati Uniti e portare i
comunisti al potere”. E’ probabile che, a detta dell’autore, anche a causa di
questi eventi, Nixon dia a Saragat un assenso di massima al Regime change – non
si sa quanto “soft”, che si va preparando nel Paese.
Saragat, infatti, a ridosso della
strage del 12 dicembre 1969, tenterà di proclamare lo stato di “pericolo
pubblico”, con sospensione delle garanzie costituzionali; ma sarà bloccato dal
veto dell’allora Presidente del Consiglio Mariano Rumor (insieme al Ministro
degli Interni Restivo), che compie anche la mossa decisiva (forse suggerita
indirettamente dai servizi segreti britannici) di vietare le manifestazioni in
piazza su tutto il territorio nazionale, vanificando così totalmente la
strategia del “Partito del golpe”.
Ed è proprio questa per Vinciguerra la ragione
principale per cui Mariano Rumor sarà
oggetto di un attentato a Milano il 17 marzo 1973, durante la cerimonia di
scoprimento di un busto del commissario Calabresi. L’attentatore, il sedicente
anarchico Gianfranco Bertoli, lancia una bomba a mano ma manca il bersaglio,
provocando però una cinquantina tra morti e feriti.
Nonostante le rivendicazioni offerte – l' attentato sarebbe stato di stampo
anarchico, rivolto contro la memoria di Calabresi per vendicare Pinelli - Bertoli ha sicuramente lavorato per il SIFAR,
è stato membro del movimento golpista Pace e libertà di Edgardo Sogno, ed era
in contatto con militanti francesi di Jeune Révolution, oltre che con gli
ordinovisti veneti.
Questa strana “doppia” natura di Bertoli può ricollegarsi a
quanto suggerito da Vinciguerra in un'altra parte del libro: ovvero l'esistenza
di una minoranza di anarchici che non solo per questioni filosofiche, ma
politiche (le persecuzioni da parte dei comunisti),in quegli anni potrebbero
essersi schierata con l’estrema destra.
In questo elenco egli non pone però Valpreda: secondo il
neofascista siciliano, questi non sarebbe mai stato un anarchico, ma uno
sbandato perfettamente a conoscenza della militanza di Merlino in Avanguardia
nazionale. “Si dimentica” dice l’autore in proposito “ che il presunto
“fascista” e il presunto “anarchico” (Merlino e Valpreda, NdR), nei loro
interrogatori hanno mantenuto all’unisono una comune linea di accusa contro gli
anarchici. Insieme accusano Ivo della Savia di detenzione di esplosivi, e
Pietro Valpreda offre alla polizia addirittura la soluzione del caso: il 9
gennaio 1970, difatti, indica in tale “Gino”, facilmente individuabile, il suo
sosia cha avrebbe portato la bomba all’interno della Banca dell’Agricoltura
di Milano.” Si tratta di Tommaso Gino
Liverani, anarchico anche lui.
Sono quindi forti (anche pur sempre passibili di critica) le
argomentazioni che Vinciguerra porta a sostegno di uno stretto legame tra la
strage alla Banca dell'Agricoltura a Milano e la strage alla Questura della
stessa città.
Meno convincenti, invece, sono le sue tesi circa un
parallelismo tra la strage di Piazza Fontana
e la manifestazione missina del
14 dicembre - poi vietata da Rumor – con i fatti del ‘73 che egli ritiene
corrispondenti: la mancata strage del 7 aprile sul direttissimo Torino-Roma (un
evento in cui Nico Azzi, legato all'organizzazione milanese Fenice di Giancarlo
Rognoni, si fa esplodere una bomba in mano nel tentativo di innescarla, dopo aver
fatto bella mostra del giornale “Lotta continua”), e ai successivi incidenti
alla manifestazione missina del 12: i lanci di bombe SRCM da parte di
neofascisti di San Babila al seguito dei quali perde la vita l'agente di
polizia Antonio Marino. Bombe che risulteranno poi fornite dallo stesso Azzi
La tesi dell’appartenenza dei due delitti a un unico piano è
stata fatta propria anche da studiosi di vaglia come Franco Ferraresi; ma pure
ammettendo l’esistenza di un complotto originario, i missini avrebbero
proseguito nel proprio piano anche dopo avere ottenuto, con Azzi, il risultato opposto
a quello auspicato, cioè la dimostrazione definitiva
dinnanzi al popolo italiano che i fascisti (o alcuni di essi perlomeno),
mettevano le bombe? Sarebbero stati tanto autolesionisti, i missini, da mandare
i sanbabilini a tirare bombe proprio in un frangente del genere (per
denunciarli poco dopo)? E, infatti, a ridosso di quei tragici fatti il MSI
rischia lo scioglimento.
Ci sarebbe ancora molto da dire sul libro di Vinciguerra,
soprattutto sugli acuti spunti di indagine che egli riesce ancora a offrire su
Piazza Fontana. Ho scelto gli episodi sopra commentati per rilevare da un lato
la logica e la sapienza dell’autore nel porre determinati temi, dall’altro la
sua tendenza al ragionamento induttivo, per cui, trovato un dato schema, tende
a replicarlo ad libitum. Forse perché l’intento di Vinciguerra, prima ancora di offrire una verità
disinteressata a costo di un ergastolo, è quello di lasciare un’eredità
politica di “lotta”: tra coloro che ripongono fiducia in lui e nella sua
ricostruzione si contano la Comunità Politica di Avanguardia e la Federazione nazionale
combattenti della Repubblica Sociale Italiana.
Vinciguerra si proclama a tutt'oggi un nazionalsocialista e
non indifferenti a questa scelta sembrano i suoi attacchi antisemiti, spesso al limite del
grottesco.
Restano i dubbi sul personaggio. Che cosa ha fatto realmente
negli anni di latitanza e perché, pur costituitosi nel ’79, ha parlato di
Peteano solo nel 1984? Cosa nasconde il suo strano rapporto con Delle Chiaie?
E’ da ribadire, inoltre, che nessuno, oltre lui e Digilio, è stato condannato
con sentenza definitiva nei processi originati, del tutto o in parte, dalle sue
rivelazioni. Ma l’assurdo boicottaggio di cui è fatto oggetto, in primis dal
sistema carcerario, va contro il diritto di verità di un intero popolo. La
mancanza di un vero editore per questo libro ce lo ricorda.
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