venerdì 21 febbraio 2014

JACOPO FANO': David Cronenberg e l'industrial



Nel 1986 il regista canadese David Cronenberg era prossimo a presentare nelle sale cinematografiche “La Mosca”, forse la sua pellicola, oggi, più conosciuta, rinomata e citata, allorché la discussione verta sull’intensità visiva, e quindi la conseguente violenza sensoriale, necessarie ad un buon “body-horror” per riuscire nel suo intento primo: evidenziare la continua compenetrazione dell’universo alieno, altro, con la fisicità quotidiana dell’essere umano.
Nel film, il geniale scienziato Seth Brundle subisce una lenta metamorfosi, -dalle immancabili referenze kafkiane-, giungendo a perdere completamente la sua razionalità superiore, a favore di un ibrido costretto ad obbedire a pulsioni ferali, richiamando così la componente istintuale, rimossa nelle iterazioni normali e comunemente accettate, da un auto-censura strettamente collegata con l’apparato delle funzioni sociali. La sua ineffabile bruttezza, accentuata dalla sua inopinata appartenenza ad un reame, quello degli insetti, generatore di paure ataviche (semplice notare come la diversità proveniente dallo spazio cosmico prenda le fattezze di orribili mostruosità dotate di bulbi oculari composti ed antenne), riflette lo smarrito equilibrio, l’incapacità di intessere una relazione proficua se formulata nei termini del senso comune.
Lo stesso si veda nel successivo, del 1991, Il Pasto Nudo, in cui la dipendenza dall’eroina, sperimentata sulla pelle bucherellata dello stesso William S. Burroughs mentre soggiornava a Tangeri, aiutato saltuariamente dalle poche figure in grande di avvicinarlo, in particolare Allen Ginsberg e Jack Kerouac,  si riverbera in una narrazione vergata dall’onnipresente vena satirica, offrendo allo spettatore una retrospettiva sull’indecenza isolazionista, sulla decadenza dei costumi, sulla stessa de-strutturazione di un testo (Burroughs suggerisce in un breve articolo sulla tecnica del cut-up, che sia preferibile unire Rimbaud a Shakespeare se questo ha per l’agente un significato che trascenda la mera lettura del testo, oramai svuotato del valore comunicativo da anni di intensi studi sopra di esso) cercando una nuova forma espressiva, che non sia né consuetudine né sperimentalismo fine a se stesso, non grado, cioè, di spalancare determinate porte della percezione.
Non è una casualità che analisi affini ai due paragrafi superiori siano concesse nel momento in cui l’attenzione si sposta verso l’infinito reame della musica “noise”. Originariamente discendente dai tentativi del futurista Luigi Russolo, famoso per il suo manifesto “L’Arte dei Rumori” e per aver fornito ai successivi epigoni le fondamenta teoriche adatte ad oltrepassare le barriere poste in essere dalle svariate Accademie (il filo conduttore che porta dall’accettazione dell’intervallo di terza a Merzbow meriterebbe un articolo a se stante), il genere non ha mai abbandonato la sua nicchia privilegiata, raggiunta unicamente da coloro i quali abbiano un fondato interesse nell’addestrarsi nella disciplina della demolizione del paradigma dell’ordine e della definizione.  Tuttavia, tale ricerca spasmodica del superamento del concetto di progressione armonica, di melodia, è alimentata dalla stessa furia iconoclasta la quale comanda la volontà di Cronenberg nell’atto di riprendere un attacco diretto alla tranquillità psichica del pubblico, la medesima che permette al connazionale Éric Falardeau, in Thanatomorphose, di delineare un disfacimento progressivo del corpo come insieme costituito da legami molecolari stabili, dipingendo la sessualità non nella sua accezione interiorizzata e dettata dai regolamenti del vivere civile, ma nella sua natura selvaggia, autodistruttiva, immorale, riassunta mirabilmente dalla definizione francese di orgasmo: petit mort.
Maurizio Bianchi, il celebrato padre dell’industrial, Pierpaolo Zoppo, compianto compositore sotto le insegne della Mauthausen Orchestra, Merzbow, il giapponese stregato dall’eroticità dei metalli, dalla sensualità di un muro di rumore bianco, paragonato ad una situazione di totalmente incoscienza, non dissimile dal controllo esterno a cui il partner deve affidarsi nella pratica del bondage, la provocatoria posizione umana e politica dello statunitense Boyd Rice (NON), la modifica delle proprie capacità riproduttive da parte di John Duncan, sono solo alcuni esempi della rivoluzione culturale che l’abbandono di una prassi istituita per confondere la fattualità della condanna alla disperazione dell’individuo contemporaneo. Il disgusto suscitato dalla visione di una mosca metaforica fusa ad architetture riconosciute, però grottescamente estese fino a non piegarsi ai teoremi euclidei, rivela un processo di glorificazione del transeunte: nell’approccio rumoristico, perfetta mimesi dell’esistenza biologica, l’invecchiamento (il termine della performance, in Cronenberg il compimento dell’uomo-mosca o l’Interzona) è il preludio alla fine, la marcia funebre suonata prima che il feedback degli strumenti costruiti dagli stessi performer si spenga, abbandonando gli astanti ad una notte feconda di incubi nauseabondi, schizzi espressionisti conseguenti all’aver fissato con voyeurismo il frutto proibito della realtà ontologica.
Il rasoio di Occam del noise rende impossibile non visualizzare chiaramente la separazione tra un corpo inanimato, quale il rumore, ed una mente, il performer, presente sul palco od in studio per, con clinica pignoleria, annotare febbrilmente le improvvise modificazioni della materia sonora, travestendosi da Seth Brundle, lo scienziato affascinato dalla sua stessa putrefazione, rapito dal sublime scaturito dalla gemmazione dalla sua martoriata carne di un nuovo essere, di un nuovo accordo composto da intervalli sconosciuti precedentemente.  La sorprendente imprevedibilità della manipolazione di enti non musicali, la combinazioni di questi ultimi con una catena di effetti analogici o digitali, collegati uno all’altro senza una precisa logica (dando vita, immediatamente, ad un rituale dionisiaco della libera creatività, qui rappresentata in uno stato purissimo) e tecnica, procede in simbiosi con l’osservazione distaccata di un insieme di resti (denti, capelli, unghie), destinati a polverizzarsi nell’atto di plasmare un corpo successivo, emblema della post-corporeità, oggetto di studio di una teleologia del fisico, dei suoi apparati, delle sue cellule.
Alle spalle della coltre di fastidiosi rimbombi, echi, folli percussioni, ciò che risplende è l’aleatorio, l’unico, il nato-per-morire, a cui il singolo ascoltatore è chiamata a fornire un sostentamento sotto le spoglie di un significato, di un nesso causale, di una sintassi adeguata: come nella convivenza di due spiriti antagonisti nel Brundlemosca, in un’opera di, ricorrendo ad un caso specifico, Maurizio Bianchi, oltre ad una tensione neurotica verso una dissezione del materiale a disposizione, in modo tale da infondere in esso un pneuma in armonia con il grido di un passato non ancora storicizzato (es. Symphony Of A Genocide, 1983), è fortemente radicata una volontà di non coniugare due istanze difformi, lasciandole nella terra di nessuno, negando loro una sintesi, una risoluzione definitiva al disequilibrio in atto tra tesi ed antitesi. Proprio in questo meccanismo, l’appassionato gode di un ruolo da protagonista: è lui, solamente lui, ad attribuire un’interpretazione, sigillando il cerchio. Preferirà mantenere lo status quo non sposando due concetti per ottenere la loro somma? Proverà pietà verso l’umanità recedente di Brundle o il suo interesse anelerà ad una mutazione ancor più rapida, essendo egli avidamente attratto da una tassidermia che ben presto da un corpo singolo si muove nella direzione di un pantagruelico rituale di espiazione attraverso l’eliminazione dolorosa della “vecchia carne”(o, nel caso del noise, del “vecchio canone”)?
In conclusione, la potenza espressiva di Cronenberg segue (quasi di pari passo) la vivisezione dello spettro dei suoni, suscitando lo stesso orrore, la stessa sensazione di alienazione, di atterrimento che solo la manifestazione in sé di una verità dogmatica in tutta la forza della sua inattaccabile sostanza desta, in quanto la mente del singolo comprende che egli è dapprima un corpo (costretto alla coabitazione con forme a lui completamente estranee, attratte, si veda la mosca, dai suoi scarti, dalla sua putrefazione) poi un rumore, una vibrazione cosmica. Assistere ad una cerimonia nella quale dette certezze sono poste in discussione (egli può divenire un “altro corpo”, irrelato con il primo, un'altra vibrazione figlia di un armonico non appartenente all’accordo di partenza) scuote le fondamenta della sua stessa essenza.

Citando proprio il regista: “Long Life To The New Flesh”.

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