Nel 1986 il regista canadese David Cronenberg era prossimo a
presentare nelle sale cinematografiche “La Mosca”, forse la sua pellicola,
oggi, più conosciuta, rinomata e citata, allorché la discussione verta
sull’intensità visiva, e quindi la conseguente violenza sensoriale, necessarie
ad un buon “body-horror” per riuscire nel suo intento primo: evidenziare la
continua compenetrazione dell’universo alieno, altro, con la fisicità
quotidiana dell’essere umano.
Nel film, il geniale scienziato Seth Brundle subisce una
lenta metamorfosi, -dalle immancabili referenze kafkiane-, giungendo a perdere
completamente la sua razionalità superiore, a favore di un ibrido costretto ad
obbedire a pulsioni ferali, richiamando così la componente istintuale, rimossa
nelle iterazioni normali e comunemente accettate, da un auto-censura
strettamente collegata con l’apparato delle funzioni sociali. La sua ineffabile
bruttezza, accentuata dalla sua inopinata appartenenza ad un reame, quello
degli insetti, generatore di paure ataviche (semplice notare come la diversità
proveniente dallo spazio cosmico prenda le fattezze di orribili mostruosità
dotate di bulbi oculari composti ed antenne), riflette lo smarrito equilibrio,
l’incapacità di intessere una relazione proficua se formulata nei termini del
senso comune.
Lo stesso si veda nel successivo, del 1991, Il Pasto Nudo,
in cui la dipendenza dall’eroina, sperimentata sulla pelle bucherellata dello
stesso William S. Burroughs mentre soggiornava a Tangeri, aiutato
saltuariamente dalle poche figure in grande di avvicinarlo, in particolare
Allen Ginsberg e Jack Kerouac, si
riverbera in una narrazione vergata dall’onnipresente vena satirica, offrendo
allo spettatore una retrospettiva sull’indecenza isolazionista, sulla decadenza
dei costumi, sulla stessa de-strutturazione di un testo (Burroughs suggerisce
in un breve articolo sulla tecnica del cut-up, che sia preferibile unire
Rimbaud a Shakespeare se questo ha per l’agente un significato che trascenda la
mera lettura del testo, oramai svuotato del valore comunicativo da anni di
intensi studi sopra di esso) cercando una nuova forma espressiva, che non sia
né consuetudine né sperimentalismo fine a se stesso, non grado, cioè, di
spalancare determinate porte della percezione.
Non è una casualità che analisi affini ai due paragrafi
superiori siano concesse nel momento in cui l’attenzione si sposta verso
l’infinito reame della musica “noise”. Originariamente discendente dai
tentativi del futurista Luigi Russolo, famoso per il suo manifesto “L’Arte dei
Rumori” e per aver fornito ai successivi epigoni le fondamenta teoriche adatte
ad oltrepassare le barriere poste in essere dalle svariate Accademie (il filo
conduttore che porta dall’accettazione dell’intervallo di terza a Merzbow
meriterebbe un articolo a se stante), il genere non ha mai abbandonato la sua
nicchia privilegiata, raggiunta unicamente da coloro i quali abbiano un fondato
interesse nell’addestrarsi nella disciplina della demolizione del paradigma
dell’ordine e della definizione.
Tuttavia, tale ricerca spasmodica del superamento del concetto di
progressione armonica, di melodia, è alimentata dalla stessa furia iconoclasta
la quale comanda la volontà di Cronenberg nell’atto di riprendere un attacco
diretto alla tranquillità psichica del pubblico, la medesima che permette al
connazionale Éric Falardeau, in Thanatomorphose, di delineare un disfacimento
progressivo del corpo come insieme costituito da legami molecolari stabili,
dipingendo la sessualità non nella sua accezione interiorizzata e dettata dai
regolamenti del vivere civile, ma nella sua natura selvaggia, autodistruttiva,
immorale, riassunta mirabilmente dalla definizione francese di orgasmo: petit
mort.
Maurizio Bianchi, il celebrato padre dell’industrial,
Pierpaolo Zoppo, compianto compositore sotto le insegne della Mauthausen
Orchestra, Merzbow, il giapponese stregato dall’eroticità dei metalli, dalla
sensualità di un muro di rumore bianco, paragonato ad una situazione di
totalmente incoscienza, non dissimile dal controllo esterno a cui il partner
deve affidarsi nella pratica del bondage, la provocatoria posizione umana e
politica dello statunitense Boyd Rice (NON), la modifica delle proprie capacità
riproduttive da parte di John Duncan, sono solo alcuni esempi della rivoluzione
culturale che l’abbandono di una prassi istituita per confondere la fattualità
della condanna alla disperazione dell’individuo contemporaneo. Il disgusto
suscitato dalla visione di una mosca metaforica fusa ad architetture
riconosciute, però grottescamente estese fino a non piegarsi ai teoremi
euclidei, rivela un processo di glorificazione del transeunte: nell’approccio
rumoristico, perfetta mimesi dell’esistenza biologica, l’invecchiamento (il
termine della performance, in Cronenberg il compimento dell’uomo-mosca o
l’Interzona) è il preludio alla fine, la marcia funebre suonata prima che il
feedback degli strumenti costruiti dagli stessi performer si spenga,
abbandonando gli astanti ad una notte feconda di incubi nauseabondi, schizzi
espressionisti conseguenti all’aver fissato con voyeurismo il frutto proibito
della realtà ontologica.
Il rasoio di Occam del noise rende impossibile non
visualizzare chiaramente la separazione tra un corpo inanimato, quale il
rumore, ed una mente, il performer, presente sul palco od in studio per, con
clinica pignoleria, annotare febbrilmente le improvvise modificazioni della
materia sonora, travestendosi da Seth Brundle, lo scienziato affascinato dalla
sua stessa putrefazione, rapito dal sublime scaturito dalla gemmazione dalla
sua martoriata carne di un nuovo essere, di un nuovo accordo composto da
intervalli sconosciuti precedentemente.
La sorprendente imprevedibilità della manipolazione di enti non
musicali, la combinazioni di questi ultimi con una catena di effetti analogici
o digitali, collegati uno all’altro senza una precisa logica (dando vita,
immediatamente, ad un rituale dionisiaco della libera creatività, qui
rappresentata in uno stato purissimo) e tecnica, procede in simbiosi con
l’osservazione distaccata di un insieme di resti (denti, capelli, unghie),
destinati a polverizzarsi nell’atto di plasmare un corpo successivo, emblema
della post-corporeità, oggetto di studio di una teleologia del fisico, dei suoi
apparati, delle sue cellule.
Alle spalle della coltre di fastidiosi rimbombi, echi, folli
percussioni, ciò che risplende è l’aleatorio, l’unico, il nato-per-morire, a
cui il singolo ascoltatore è chiamata a fornire un sostentamento sotto le
spoglie di un significato, di un nesso causale, di una sintassi adeguata: come
nella convivenza di due spiriti antagonisti nel Brundlemosca, in un’opera di,
ricorrendo ad un caso specifico, Maurizio Bianchi, oltre ad una tensione
neurotica verso una dissezione del materiale a disposizione, in modo tale da
infondere in esso un pneuma in armonia con il grido di un passato non ancora
storicizzato (es. Symphony Of A Genocide, 1983), è fortemente radicata una
volontà di non coniugare due istanze difformi, lasciandole nella terra di
nessuno, negando loro una sintesi, una risoluzione definitiva al disequilibrio
in atto tra tesi ed antitesi. Proprio in questo meccanismo, l’appassionato gode
di un ruolo da protagonista: è lui, solamente lui, ad attribuire
un’interpretazione, sigillando il cerchio. Preferirà mantenere lo status quo
non sposando due concetti per ottenere la loro somma? Proverà pietà verso
l’umanità recedente di Brundle o il suo interesse anelerà ad una mutazione
ancor più rapida, essendo egli avidamente attratto da una tassidermia che ben
presto da un corpo singolo si muove nella direzione di un pantagruelico rituale
di espiazione attraverso l’eliminazione dolorosa della “vecchia carne”(o, nel
caso del noise, del “vecchio canone”)?
In conclusione, la potenza espressiva di Cronenberg segue
(quasi di pari passo) la vivisezione dello spettro dei suoni, suscitando lo
stesso orrore, la stessa sensazione di alienazione, di atterrimento che solo la
manifestazione in sé di una verità dogmatica in tutta la forza della sua
inattaccabile sostanza desta, in quanto la mente del singolo comprende che egli
è dapprima un corpo (costretto alla coabitazione con forme a lui completamente
estranee, attratte, si veda la mosca, dai suoi scarti, dalla sua putrefazione)
poi un rumore, una vibrazione cosmica. Assistere ad una cerimonia nella quale
dette certezze sono poste in discussione (egli può divenire un “altro corpo”,
irrelato con il primo, un'altra vibrazione figlia di un armonico non
appartenente all’accordo di partenza) scuote le fondamenta della sua stessa
essenza.
Citando proprio il regista: “Long Life To The New Flesh”.
Nessun commento:
Posta un commento