giovedì 19 giugno 2014

CRESTI e DE LUCIA: Matteo Renzi, il Berluschino (VIDEO)



Videodialogo tra ANTONELLO CRESTI e MICHELE DE LUCIA, autore del libro "Matteo Renzi, il Berluschino" (Kaos Edizioni)

IMMAGINI, VIDEO, EDITING: ANDREA RUFFI





lunedì 16 giugno 2014

ANTONIO CIPOLLETTA: La comunicazione al tempo del social




Sin dagli albori della civiltà l'uomo,animale politico-comunitario,razionale e normativo per eccellenza, ha sempre nutrito l'esigenza di manifestare il proprio pensiero all'altro , che potesse essere o "prossimo" nell'accezione cristiana della persona più vicina che ascolta e recepisce le idee altrui accogliendo queste ed il suo concepitore nella grande famiglia del genere umano universalisticamente inteso;oppure che (potesse) essere un semplice interlocutore cui rivolgere la parola al fine di confrontarsi con questi e preservare il dialogo instaurato con incontri costanti e costruttivi.
A ben riflettere, l'attività comunicativa è contemporaneamente semplice e estremamente complessa, in quanto è facile riportare liberamente la propria opinione senza che questa sia oggetto di silenziamento o non considerazione ma, allo stesso tempo-ecco-risulta essere molto difficile avviare la comunicazione con un proprio pari se questi è restio ad intraprenderla realmente pensando che ciò che da esprimere sia di gran lunga superiore rispetto alle nostre riflessioni(infatti, come sostiene l'antico adagio latino:"contra negantem principia non est disputandum").
Trasferendoci idealmente e cronologicamente nell'antichità classica,assumendo come modello la Grecia delle poleis dove la Filosofia e la Comunità fungevano da poteri frenanti(in greco katechon) rispetto alla sfrenatezza dei costumi ed alla metafisica dell'illimitatezza, basti pensare al ruolo forte ed essenziale ricoperto dal dialogo, attività che pone in relazione due soggetti conoscenti che, spassionatamente, danno vita ad un intercambio di cambio e, operando in tal modo, consentono alla fiamma della conoscenza di divampare, come ebbe a sostenere il primo è più grande allievo del maestro Socrate, il filosofo idealista Platone che, proprio grazie a quello che è divenuto un anche un genere letterario . è riuscito a riscuotere enorme successo non soltanto presso il pubblico ateniese del suo tempo ma anche e soprattutto presso il pubblico di lettori postmoderni-contemporanei.
Dopo questa brevissima allusione al mondo antico, si può ritornare al tempo di cui siamo abitatori, in cui la comunicazione globale sta andando incontro ad un duplice e progressivo processo di massima evoluzione e diversificazione da un lato(sistemi di messaggistica istantanea, social networks, telefonia, mass-media) consentendo, dunque, alla quasi totalità degli oltre sei miliardi di abitanti della Terra di poter sfruttare le nuove tecnologie digitali e, in questo modo, tenere aperte più finestre sul mondo, intraprendendo la conoscenza di centinaia di "amici" virtuali" e non senza aver bisogno necessariamente di avere il piacere immenso di sentire la loro voce dal vivo;dall'altro, parliamo di un dinamica di svuotamento integrale di senso, declino e  compressione entro l'angusto spazio della virtualità-complemento immancabile della "società liquida"(Bauman), in cui nulla è stabile ma tutto è precario, proprio come il moto dei liquidi o di lettere scritte sulla sabbia.
Forse, è questo il fenomeno sociale più inquietante degli ultimi dieci anni, periodo a partire dal quale le relazioni socio-umane sono letteralmente scadute a causa dei nostri frenetici stili di vita(in questo il cosiddetto "American way of life" ha influito enormemente), della tecnologia avanzatissima e della velocizzazione dei ritmi che c'impediscono di possedere il tempo necessario per poter dialogare con l'altro;difatti, è necessario riconoscera dialetticamente la perfetta connessione tra identità individuale ed alterità, concependo l'altro, appunto, come elemento imprescindibile e complementare per la nostra stessa esistenza.

In conclusione, quindi, si può affermare che al giorno d'oggi , occorre più che mai correre ai ripari , proponendo un valido modello di autentici rapporti umani fondati sul dialogo , in cui due o più partecipanti siano disposti ad accettarsi vicendevolmente, a mostrarsi sinceramente, a manifestare la propria essenza comunitaria , cooperativa e solidale, non precipitando irrimediabilmente nella trappola assai opprimente del relativismo nichilistico,dell'atomismo sociale e dell'ideologia differenzialistica che oppone uomo e donna,vere e proprie forme di negazione integrale di quel dialogo veritativo , libero, critico ed autentico che la Filosofia e, forse ancor di più la religione, possono offrire agli attori umani che, nel loro avvicinamento e nella forte cultura dell'incontro, possono concorrere alla trasformazione radicale, prassistica se si vuole, dell'esistente e, di conseguenza, al dispiegamento di quelle potenzialità ontologiche che l'Uomo possiede in quanto "zoon politikón"(Aristotele) e "essere sociale"(Lukács).

giovedì 12 giugno 2014

GABRIELE REPACI: De Benoist e la mondializzazione



Che cos’è la mondializzazione? E’ un fenomeno ineluttabile oppure si tratta di qualcosa di reversibile? L’unificazione monetaria europea è stata vantaggiosa per i popoli del Vecchio Continente o al contrario li ha immiseriti? A questi quesiti tenta di dare una risposta Alain De Benoist nel suo ultimo libro La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, Arianna Editrice, p. 128. In quest’opera che si pone come completamento del suo precedente volume Sull’orlo del Baratro il pensatore francese analizza le cause della depressione che sta colpendo l’economia europea le quali vanno ricercate in una crisi generale del capitalismo globalizzato affermatosi in tutto il mondo a partire dalla caduta del muro di Berlino e la fine degli ultimi stati socialisti. Quella che sta affrontando l’Europa spiega De Benoist non è una semplice recessione economica ma una vera e propria perdita della sua sovranità. In passato infatti  il potere dei singoli stati nazione poggiava su alcuni principi fondamentali: la sovranità economica, quella militare ed infine quella culturale. La prima è stata eliminata attraverso la liberalizzazione dei mercati finanziari che ha reso impossibile alle autorità politiche di influire sulle decisioni di natura economica. Se esse prendessero misure controcorrente come la nazionalizzazione del sistema creditizio e delle leve fondamentali dell’economia indurrebbero gli investitori stranieri a portare i propri capitali altrove provocando il collasso economico del paese.
Attraverso la NATO e le molteplici basi militari americane sparse per il proprio territorio l’Europa non gode più, almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, di una sovranità politico-militare.
Per ciò che riguarda l’aspetto culturale la globalizzazione non ha fatto altro che accelerare il processo di americanizzazione dell’Europa. La lingua inglese in alcuni paesi, soprattutto in quelli Scandinavi, è parlata più dell’idioma nazionale. Attraverso i film di Hollywood o programmi televisivi come MTV  gli Stati Uniti hanno plasmato il nostro modo di fare erodendo pian piano gli usi e i costumi dei popoli europei.
Che fare allora? Nel suo libro De Benoist abbozza un programma che egli definisce di «demondializzazione» il quale consiste a detta dell’autore nell’applicazione di un protezionismo su scala europea, nel ritorno concordato alle singole monete nazionali, nella statalizzazione delle banche (accompagnata dalla creazione di un credito socializzato), nella tassazione delle transazione finanziarie, nel far scomparire i paradisi fiscali e nell’annullamento del debito. Ma quali forze politiche attualmente potrebbero farsi carico di un tale programma? Non certo le destra che ormai ha interiorizzato a livello ideologico i dettami neoliberisti, ma nemmeno la sinistra neanche quella radicale. Quest’ultima infatti pur opponendosi al liberalismo economico ne difende quello societario che è alla base del primo. Confondendo il protezionismo con l’autarchia essa difende la libera circolazione dei capitali.
Per questo motivo categorie come destra e sinistra secondo De Benoist vanno superate per dare vita a nuove sintesi in grado di comprendere la realtà contemporanea.
L’odierno capitalismo infatti non è né di destra né di sinistra o meglio è sia di destra che di sinistra. E’ di destra nell’economia ma è a sinistra nel costume. Criticarne l’aspetto meramente economico senza mettere in discussione quello sociologico  è un po’ come pensare che la febbre sia la causa della malattia.
Al contrario di quanto sostengono gli odierni riformisti non esiste alcuna possibilità di trasformare l’attuale U.E. in una confederazione solidale di popoli, in quanto essa sta svolgendo benissimo il compito per la quale è stata fondata ovvero eliminare l’«eccezione europea», basata su un modello misto di capitalismo stato-mercato, ed integrare pienamente l’economie dei paesi membri nel modello americano fondato sul liberismo selvaggio.
Privando gli stati dell’arma della svalutazione monetaria per rilanciare l’economia, l’Unione Europea costringe le nazioni facenti parte dell’area euro ad una politica deflazionistica messa in pratica attraverso una pressione al ribasso sui salari la quale non può altro che avere effetti negativi sulla domanda interna.  I teorici dell’austerità hanno spesso controbattuto a tale affermazione argomentando che gli introiti derivanti da una crescita alimentata dall’esportazioni compenserebbe la caduta della domanda aggregata. Tuttavia il proposito di trasformare l’Europa in una «grande Germania», ovvero un enorme macchina produttiva trainata dal commercio estero è destinata a fallire. Storicamente tale strategia ha funzionato solamente attraverso un potente «motore» della domanda effettiva che nel caso di Berlino sono stati paesi della periferia europea. Ma se anche questi ultimi iniziano a portare avanti una politica di moderazione salariale e tagli alla spesa pubblica allora l’intero continente andrà incontro a una recessione dagli effetti potenzialmente devastanti.  
Personalmente lo scrivente non si trova d’accordo con l’affermazione del giornalista Marcello Veneziani secondo il quale  il rischio della proposta di De Benoist «è che, alla fine, alla dittatura della tecno-finanza resti a opporsi solo la rozza demagogia dei populismi che sanno inveire e demolire, ma non saprebbero poi come costruire e selezionare» (cfr. Marcello Veneziani, Idee forti per abbattere la monarchia finanziaria, Il Giornale, 26 maggio 2014).
Al contrario a mio parere la demagogia e il populismo prosperano proprio laddove il potere politico mostra la propria vulnerabilità. Quando le istituzioni si mostrano deboli ed incapaci di affrontare l’influenza dell’economia sulla vita pubblica si creano le condizioni affinché le masse popolari seguano i progetti di leader megalomani e folli. La triste parabola della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo ne sono un esempio. Al contrario di quanto è comunemente pensato infatti a spianare la strada a Hitler non fu l’iperinflazione degli anni venti, bensì la politica monetaria e fiscale iper-restrittiva  del cancelliere Brüning.
Lo stesso discorso lo si potrebbe applicare al Movimento 5 Stelle in Italia. Il successo di Grillo è da addebitare integralmente ad una classe politica corrotta ed incapace di dare risposte ai bisogni del paese.

Si tratta di una frase molto attuale sulla quale i politici del nostro continente dovrebbero riflettere attentamente. 

mercoledì 11 giugno 2014

LEONARDO VITTORIO ARENA: La filosofia di David Sylvian



LEONARDO VITTORIO ARENA "LA FILOSOFIA DI DAVID SYLVIAN" (Mimesis Edizioni) In una intervista del 2007, chiesi a Sylvian se creava meglio in compagnia o da solo, prevedendo la risposta, come quando Gadamer dice che il docente esamina lo studente con domande dalla risposta prevedibile, che egli sa in anticipo…Su un piano ermeneutico ciò è inevitabilmente fallace. Più che la risposta di Sylvian, mi preme mostrare ciò che ha fatto dopo, il non detto: già incamminatosi su Blemish, un’onda che molti fan non perdonarono, si dibatté in un percorso ancora più solitario, verso Manafon, sovrapponendo la voce a un concerto di improvvisatori professionisti, il leader Evan Parker, come a dire: “Non voglio dire lo scontato, giudicatemi, come dalla Bibbia, dalle azioni, non dalle parole, queste non sono quelle, e viceversa: ascoltate, sono un cantante, non un fi losofo”. Non lo confessò, ma ne covava in sé il sentimento, lo sviluppo in questa direzione, e sorrise, probabilmente, all’interrogativo; in una intervista sul confl itto interiore, non ancora divenuto uno stato d’emergenza, diff uso e generalizzato… In World Citizen disse a tutti di aver bisogno di una seconda pelle: una seconda chance?, e concluse la canzone con un accorato appello... Il mio incontro con Sylvian avvenne quando disperavo di trovare, non dico un alter ego musicale, quanto una identità musicale, io che mi ero posto il dilemma insolubile, tra studiare da fi losofo o da musicista, al bivio di una carriera in embrione. Optai per la prima alternativa, ma ignoravo che fosse una decisione risolutiva, un aut aut, il musicale mi tentava, non meno che il fi losofi co da cui non sapevo distaccarmi. Non ho mai cercato nella musica una dimensione solo musicale, bensì alchemica, e nei testi e nella vita degli artisti dei ’70 scorsi una fi losofi a più solida di quella delle Accademie, un marxismo onnipresente, onnivoro e onninglobante, da alveo universitario, della specie di cui Lacan denuncia la lettera, dicendo uni-vers-se-taire, e accentuando il verbo… La fi losofi a era per me il mondo science-fi ctonal e spettrale dei Van der Graaf Generator, il ritorno sublime al Medioevo dei primi King Crimson, o le scorribande evanescenti dei Soft Machine, Robert Wyatt in primis, ai limiti del tonale, l’uscita refrigerante dall’angustia del ritmo quaternario: nel 9/4 o negli 11/16, meglio in sovrapposizioni poliritmiche, si ravvisavano mondi inesplorati, si apriva la fi nestra, con cambiamenti d’aria che solo Nietzsche, nel fi losofi co, o i maestri Zen sapevano promettere. Senza deludere. “Non sarò deluso” – la mia dizione della frase rientrava in questa prospettiva, o non era una prospettiva… Grazie a Nietzsche e allo Zen un mutamento di rotta, ma pure il profi larsi dell’alternativa: musica o fi losofi a? Che non poteva tradursi in musica e fi losofi a, una congiunzione sterile, che relegava al puer aeternus, una attività ludica non protraibile nell’età adulta. E poi la stasi, dovuta alla laurea, la carriera universitaria, il graduale distacco dalle esibizioni nelle sale da ballo, dai concerti… Il decennio successivo mi fece capire che il fi losofi co, a diff erenza che in India, è separato dal musicale, molto più che i mondi lontanissimi del poetico e del fi losofi co, che Heidegger descrive. Il musicale languiva in una sfera sepolta di una mente abbeveratasi a Nietzsche, appunto, e al buddismo Chan/Zen, non mai quello liturgico, che esauriva le sue risorse nel momento stesso in cui predicava. La venuta di Sylvian fu a dir poco salutare, con il suo distacco dai Japan, dove aveva esordito, non la vidi come una scissione, avendolo conosciuto all’incirca all’epoca di Brilliant Trees, che fu per lui e anche un po’ per me una epifania…Nel lugubre panorama degli ’80 c’era insomma qualcosa, ma non cui appoggiarsi, attaccarsi, per l’ennesima Weltanschauung di turno, e dire: “Ecco, la musica è viva, si ode ancora, nella natura, in noi, deborda dallo stereo, il CD non è esangue, uno strumento perfetto quindi inane…” Un panorama che già i Police o i Talking Heads avevano tentato di scalfi re, per me, lo sentii così, e con Sylvian si profi lava meglio, dai contorni più accesi, vitali, tanto da farmi confessare, non senza una punta di esagerazione, agli amici anni dopo: “Ciò che Dylan è stato per i ’60 è ora Sylvian!”. Anche nell’iperbole c’era qualcosa di fondato, e non nascondo che, come per i grandi dei ’60 e dei ’70, il suono di Sylvian all’inizio mi suonava ostico, le sue sequenze di accordi avventate o indecifrabili, la melodia dispersiva, pur riconoscibile...

giovedì 5 giugno 2014

Nigel Farage è il figlio di Hitler e Satana!


Io fino a qualche giorno fa avevo sentito parlare pochissimo di Nigel Farage (o FaraNge, la metà dei quotidiani non azzecca nemmeno il nome), e come tanti non avevo un’opinione su di lui. All’inizio volutamente non mi sono documentato perché:
1) avevo altro da fare
2) volevo osservare come venisse "creato" il personaggio dai media e dagli opinionisti di sinistra - soprattutto in chiave antigrillista.
La prima cosa che ho notato è il gioco sporco di Repubblica, che riprende il piccolo blog di un attivista di sinistra parecchio stereotipico  - uno che fa teatro sperimentale, ogni tre parole ci infila "migrante" e sicuramente userà l’asterisco al posto del suffisso di genere. L’articolo è un collage di dichiarazioni di Farage fuori contesto, tradotte a cazzo o di espulsi dal partito. Classico stile Repubblica. La domanda però sorge spontanea: ma se si parla del figlio segreto di Hitler e Satana non dovrebbe essere palese? Se si utilizza come fonte un bloggetto scrauso e frasi riprese qua e là non è losco? Ovvia a questo punto la strategia di demonizzazione (doppia: di Grillo e di Farage). Il pubblico italiano non lo conosce, e gli elettori di Sinistra
Poi ho letto le reazioni dei grillini (in questi giorni di ponte lungo su FB erano gli unici a discutere): su FB e sui forum si è aperto un dibattito sull’appoggio a Farage e le giustificazioni dello stesso Grillo. C’è chi è fedele alla linea, da bravo stereotipo del grillino adepto della setta, e chi argomenta a favore di una alleanza pragmatica. Quelli contrari hanno paura di come verranno percepiti dagli elettori (e trattati dalla Comunicazione di Sinistra) e parlano di Farage come un "turboliberista", "neoliberista" e ultraliberista", che sono superlativi che stanno per "liberista" e preferirebbero allearsi coi verdi. Giustamente dal loro punto di vista, per carità, ma generalmente chi parla di "turboliberismo" non sa di cosa stia parlando.
A questo punto sono andato a documentarmi, mi sono fatto un’idea: Farage è un personaggio controverso ma non certo un demone. Un troll, un antieuropeista e un nazionalista. Ha suscitato parecchie polemiche ma alcune sue tesi per quanto mi riguarda sono condivisibili (ad esempio è antiproibizionista).
Ognuno comunque è libero di di pensarne quello che vuole, ma fa impressione il conformismo degli elettori di sinistra: praticamente nessuno si sarà documentato, sulla rete è girata la pappa pronta di Repubblica e gli slogan ripetuti ossessivamente a sinistra ("è un pazzo neolibberista, è il Diavolo") e tanto basta. (come se il sistema attuale - tutele solo a chi ha un lavoro dipendente) funzionasse. Ma questo è un altro discorso, che un elettore della lista Tsipras o la salma rivitalizzata di Imposimato non potrebbe o vorrebbe comprendere temo).
Fa abbastanza paura il conformismo delle masse di sinistra e la facilità con cui venga manipolato, e sia facile creare un nemico e demonizzarlo, aldilà di Grillo e di cosa si possa pensare di Farage). Impressionante notare come le stesse accuse di "neo-liberismo sfrenato" e "fascista" venissero rivolte anche a Renzi, anche se adesso che è al Potere questi attacchi si sono fatti sempre più sparuti. Paradossale poi che l’elettorato di sinistra creda di essere immune da queste tecniche manipolatorie, che pensa riguardino solo i grillini e berlusconiani. D’altra parte i militanti di partito si somigliano parecchio, ma i post di analisi di comunicazione riguardano soltanto i grillini (probabilmente perché hanno parecchio successo e sono relativamente facili da scrivere: Più o meno dicono tutti le stesse cose, peraltro abbastanza evidenti - e perciò comprensibili - a chiunque. Chiunque non sia un militante intendo.)
P.S. Suggerisco questo articolo dell’Huff Post Italia (che si "redime" dopo il post furbetto e gli articoli fangosi) per formarsi un’opinione, in cui l’autore critica pesantemente Farage senza demonizzarlo o dargli del "turbolibberista"

fonte: http://www.linkiesta.it/blogs/web-factory/nigel-farange-e-il-figlio-segreto-di-hitler-e-satana

MARIO COLELLA: Marco Ciriello e il grande dolore



MARCO CIRIELLO "PER FAVORE NON DITE NIENTE" (Ed. Chiarelettere)

« La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi » (Giacomo Leopardi) «Non ho paura del foglio bianco né del numero di righe da tenere, io ho solo paura della morte, sempre. Per questo scrivo: per non morire » (Marco Ciriello) _______ “Tutto passa ma tutto rimane”, scriveva Pavel Florenskij, in una delle sue più belle lettere dal lager delle isole Solovki. Ma non ditelo al protagonista dell’ultimo libro di Marco Ciriello, classe 1975, scrittore e giornalista avellinese (suoi pezzi su Il Mattino, La Repubblica Donne, Il Foglio). Soprattutto non osate profferire queste parole a chi ha perduto la propria amata, nel suo momento più doloroso, quello del congedo. Si è immersi, allora, in una sofferenza disumana, che “non serve a niente” o che comunque in quel momento non può essere capita, elaborata razionalmente, può essere solo vissuta. Quando il dolore di una perdita, di quella fondamentale, del proprio amore, è così fresco, nulla appare sanabile, recuperabile, reversibile, se non sotto la forma del ricordo che chi vive quella perdita cerca di tutelare. Le parole non servono: devi seguire il tuo Calvario. Trovo questo libro appena uscito per Chiarelettere negli scaffali dello sport, accanto alla terribile autobiografia di Walter Mazzarri e al vecchio must giustizialista “Il calcio alla sbarra” della coppia Beha e Di Caro. Ma, sebbene la striscetta che lo accompagna dice sia ispirato alla storia di Cesare Prandelli, col calcio c’entra relativamente. Mentre ha a che fare con la morte (e l’amore). E nel gioco la possibilità di rifarsi c’è, nella vita “si gioca una volta sola e la sua durata non è nota”. Amore e morte, perdita e dolore sono i pozzi dove “Per favore non dite niente” chiede di immergerti, senza farti troppe domande, ascoltando, osservando un percorso, rispettosamente. Di più dei ragionamenti dice lo stupore, quello che accompagna nella sua discesa agli inferi l’allenatore ed ex calciatore che Ciriello ha scelto come maschera e che il romanzo cerca di trasmettere al lettore. Questo libro è stato investito da alcune polemiche, la casa editrice e lo scrittore sono stati diffidati dalla FIGC, per il presunto danno che ne deriverebbe alla figura del c.t. della nazionale alla cui storia sembra ispirarsi – Prandelli perse la moglie, Manuela, nel 2007, sconfitta dal cancro dopo alcuni anni di lotta che videro il tecnico di Orzinuovi lasciare la panchina della Roma per starle accanto. Ma sorvoliamo su questo aspetto e sulle conseguenti riflessioni che ne scaturirebbero (innanzitutto sul potere in Italia). Non so, non credo che Marco, l’allenatore del libro, sia in tutto e per tutto Prandelli. Non credo che l’uomo narrato da Ciriello avrebbe reagito così (cioè: facendo procedere i legali della FIGC) ad un romanzo così delicato e rispettoso dei sentimenti (di quelli che Prandelli deve aver indubbiamente provato). In ogni caso, l’autore ha ben chiarito che l’intento biografico è lontano anni luce dal suo modo di intendere la letteratura, il compito che essa ricopre, richiamando Balzac: «mandare in corto circuito la realtà del lettore, fino a portarlo a quella che potremmo chiamare “soglia Balzac”, da una affermazione dello scrittore: “un romanzo deve essere una cosa inaudita”». In un gioco di feedback che questo romanzo innesca, che ad alcuni ha ricordato i romanzi russi, mi viene in mente un’altra storia di dolore e sacrificio, certo assai diversa, quella dell’apocalittico “La strada” di Cormac McCarthy. Magari all’autore non sarà gradito l’accostamento, oppure no, ma anche qui è percepibile come il percorso dell’uomo sia connotato dal sacrificio nonché dalla necessità di prosecuzione di un cammino nel mondo. “Quale il colore del dolore? E’ davvero il nero come dicono?”, chiede il protagonista di un altro capolavoro di McCarthy, “Sutree”. Il Marco del romanzo di Ciriello risponderebbe probabilmente che il dolore non ha colore, per chi lo vive nella perdita del proprio amore, quanto l’assurdo, l’insensato, il vuoto. Ma se esso è inutile, è pur vero che “il senso dell'utile e dell'inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l'elemento diabolico della vita”, come recita la citazione riportata sotto il titolo (che è di Salvatore Satta). Non resta allora che viverla, questa sofferenza, come fa Marco, sprofondando in essa, da uomo libero. Ché la libertà non è il capriccio dei moderni quanto il pasoliniano “vivere nelle cose”, l’apertura all’ignoto che costringe al nomadismo, al viaggio in spazi non nostri, alla contemplazione del tormento che fa tacere gli idoli, per rendere quell’assenza, infine, presenza.

martedì 3 giugno 2014

MORENO PASQUINELLI: Quella contro l'Euro è una battaglia di sinistra (VIDEO)



Moreno Pasquinelli del Coordinamento Sinistra Contro l'Euro spiega cosa si intende per "uscita da sinistra" dalla eurozona e rivendica il senso democratico e popolare di questa battaglia.

LINK AL VIDEO

Si ringrazia Bottega Partigiana per la diffusione