lunedì 28 luglio 2014

MICHAEL NEUMANN: Cos'è l'antisemitismo?


Ogni tanto qualche intellettuale ebreo di sinistra fa un bel respiro, ci apre il suo buon cuore e ci comunica che criticare Israele o il sionismo non vuol dire essere antisemiti. Tra sé e sé, si congratula con se stesso per il proprio coraggio. E, con un sospiro, scaccia la preoccupazione che forse non sia un bene mettere questa pericolosa informazione nelle mani dei gentili – per non parlare di quelle degli arabi.

Altre volte lo fanno invece i gentili al loro seguito,: quelli il cui ethos, se non la cui identità, aspira all’ebraicità. Per non sbilanciarsi troppo, si affrettano poi a ricordarci che l’antisemitismo va comunque preso molto sul serio. Il fatto che Israele, appoggiato da una nutrita maggioranza di ebrei, stia combattendo una guerra razziale contro i Palestinesi, è il motivo fondamentale per cui stare in guardia. Non si sa mai. Metti che ciò provochi del risentimento!
Io la vedo in modo diverso. Penso che non dovremmo quasi mai prendere l’antisemitismo sul serio e che forse dovremmo perfino riderci su. Penso che l’antisemitismo sia particolarmente irrilevante nel conflitto israelo-palestinese, se non forse come distrazione dalle questioni reali. E passo a dimostrare che quello che dico è vero e anche sensato, e certo non gratuitamente malvagio come, chessò, strappare le ali a un insetto.
“Antisemitismo”, in senso stretto, non significa odio per i semiti: questo è confondere l’etimologia con le definizioni. Antisemitismo significa odio per gli ebrei. Ma su questo, immediatamente, ci ritroviamo dinanzi al vecchio gioco delle tre carte dell’identità ebraica: “Guarda! La nostra è una religione! No! E’ un’etnia! No! E’ un’entità culturale! Scusate, è una religione!” Non appena ci stanchiamo di questo gioco veniamo subito risucchiati nell’altro: “L’antisionismo è antisemitismo!”, che un attimo dopo si alterna con: “Non confondiamo sionismo con ebraismo! Come osi, antisemita?!”
Ora, cerchiamo di essere sportivi. Proviamo a definire l’antisemitismo nel più esteso dei sensi che gli potrebbe dare un qualsiasi sostenitore di Israele: l’antisemitismo può essere odio per la razza ebraica o per la sua cultura o religione, o anche odio per il sionismo. E non solo odio, ma anche disapprovazione o opposizione o leggera antipatia.
I sostenitori di Israele, però, non troveranno questo gioco divertente come si aspettano. Gonfiare il significato di “antisemitismo” fino a includere qualunque cosa che possa danneggiare politicamente Israele è una spada a doppio taglio. Può essere comodo per colpire i propri nemici, ma il problema è che l’inflazione dei termini, come qualunque altra inflazione, svaluta la moneta. Quante più cose vengono definite antisemite, meno orribile ci suonerà l’antisemitismo. Questo perché, anche se nessuno può impedirci di gonfiare le definizioni, ciò che non possiamo fare è modificare i fatti. Nello specifico, nessuna definizione di antisemitismo potrà cancellare la versione dei fatti, sostanzialmente dalla parte dei palestinesi, che io sostengo, e che è quella sostenuta dalla maggior parte degli europei, da molti israeliani, e da un numero crescente di nordamericani.
Questo in che senso? Poniamo il caso, per esempio, che un israeliano di destra dica che le colonie rappresentano la realizzazione di aspirazioni fondamentali per il popolo ebraico, e che opporsi a esse è antisemitismo. Possiamo accettare questa affermazione, che certo è difficile da confutare. Ma non possiamo però rinunciare alla convinzione, ben fondata, che tali colonie stiano soffocando il popolo palestinese e spegnendo ogni speranza di pace. A questo punto, le acrobazie terminologiche non ci servono a niente. Possiamo solo dire: al diavolo le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, le colonie sono moralmente inaccettabili. La conclusione logica è che, visto che abbiamo il dovere di opporci alle colonie, siamo costretti a essere antisemiti. L’inflazione dei termini fa sì che alcune forme di “antisemitismo” diventino un obbligo morale.
E’ ancora peggio quando è l’antisionismo ad essere bollato come antisemita, perché le colonie, se anche non rappresentano le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, sono un’estensione del tutto plausibile del sionismo. Opporsi alle colonie vuol dire quindi opporsi al sionismo ed essere pertanto antisemiti nel senso ampio del termine. Più il concetto di antisemitismo viene ampliato per includere l’opposizione alle politiche di Israele, più esso appare come qualcosa di positivo. Considerati i crimini di cui deve rispondere il sionismo, ecco che appare un altro semplice sillogismo: l’antisionismo è un obbligo morale; dunque, se essere antisionisti è antisemitismo, l’antisemitismo stesso diventa un obbligo morale.
Di quali crimini parliamo? Perfino gli apologeti di Israele, in maggioranza, hanno smesso di negarli e si limitano a insinuare che farli notare è un po’ antisemita. Dopotutto, Israele “non è peggio di altri.” Primo: e allora? Anche a sei anni sapevamo che “lo fanno tutti” non era una scusante; ce lo siamo dimenticato? Secondo: i crimini sono equiparabili solo se li consideriamo indipendentemente dal loro scopo. Certo, altri popoli hanno ucciso i civili, li hanno guardati morire per mancanza di cure mediche, ne hanno demolito le case, distrutto i raccolti e li hanno usati come scudi umani. Ma Israele lo fa per correggere l’errore di Israel Zangwill che nel 1901 affermò “La Palestina è una terra senza un popolo; gli Ebrei sono un popolo senza terra”. Spera così di creare una terra totalmente svuotata dai gentili, un’Arabia deserta in cui i bambini ebrei possano ridere e giocare in mezzo a un deserto chiamato pace.
Molto prima dell’era di Hitler, i sionisti percorsero migliaia di chilometri per spogliare dei loro beni persone che non avevano mai fatto loro alcun male e di cui riuscirono a ignorare la stessa esistenza. Le atrocità dei sionisti non facevano parte del piano iniziale. Emersero man mano che l’amnesia razzista di un popolo perseguitato sfociava nell’ideologia di superiorità razziale di un popolo persecutore. Questa è la ragione per cui chi guidò gli stupri, le mutilazioni e le uccisioni di bambini a Deir Yassin sarebbe poi diventato primo ministro di Israele. Ma questi crimini non bastavano. Oggi, quando Israele potrebbe avere la pace senza pagare alcun prezzo, continua a condurre una campagna di spoliazione, rendendo la Palestina lentamente, deliberatamente, invivibile per i palestinesi e vivibile per gli ebrei. Il suo obiettivo non è la difesa o l’ordine pubblico, ma l’estinzione di un popolo. Certo, Israele è abbastanza abile nelle pubbliche relazioni da farlo con un livello di violenza americano piuttosto che hitleriano. Si tratta di un genocidio più delicato, più gentile, che dipinge come vittime chi lo compie.
Israele sta costruendo uno stato razziale, non religioso. Io, come i miei genitori, sono sempre stato ateo. Ma la mia nascita biologica mi dà diritto alla cittadinanza israeliana; voi, che magari credete fervidamente nel Giudaismo, questo diritto non lo avete. I palestinesi vengono vessati e uccisi per me, non per voi. Sono quelli il cui destino è essere spinti verso la Giordania, a morire in una guerra civile. E quindi no, sparare ai civili palestinesi non è la stessa cosa che sparare ai civili vietnamiti o ceceni. I palestinesi non sono un “danno collaterale” in una guerra contro comunisti ben armati o forze separatiste. Gli si spara perché Israele pensa che tutti i palestinesi debbano svanire o morire, così che chiunque abbia un nonno ebreo possa trasformare in lotti abitativi le macerie delle loro case. Questo non è il tragico errore di una superpotenza in abbaglio; è chiara malvagità, deliberata strategia di uno stato concepito e operante in nome di un nazionalismo etnico sempre più aggressivo. Ha al suo attivo relativamente pochi cadaveri, finora, ma le sue armi nucleari potrebbero uccidere forse venticinque milioni di persone in poche ore.
Vogliamo dire che è antisemitismo accusare non solo gli israeliani, ma gli ebrei in generale, di complicità in questi crimini contro l’umanità? Di nuovo, forse no, perché ci sono argomenti abbastanza ragionevoli a sostegno di queste affermazioni. Paragoniamole, ad esempio, con quelle per cui i tedeschi in generale furono complici di certi crimini. Questo non ha mai voluto dire che tutti i tedeschi, fino all’ultimo uomo, donna, ritardato mentale o bambino, fossero colpevoli. Vuol dire che la maggior parte dei tedeschi lo fu. La loro colpa non fu, ovviamente, quella di avere spinto prigionieri nudi dentro le camere a gas. Fu quella di avere sostenuto coloro che pianificarono quegli atti, oppure – come molti scritti ebraici soverchiamente moralistici vi diranno – quella di avere negato l’orrore che si dispiegava attorno a loro, quella di non avere parlato né resistito, il loro consenso passivo. È da notare che, in questo caso, l’estrema pericolosità di ogni forma di resistenza attiva non è considerata una scusante valida.
Ebbene, praticamente nessun ebreo corre alcun tipo di rischio se esprime dissenso. Ed esprimere dissenso è l’unica forma di resistenza necessaria. Se molti ebrei lo facessero, ne deriverebbe un effetto enorme. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei non lo fa e, nella maggior parte dei casi, non lo fa perché sostiene Israele. A questo punto, forse, dovremmo lasciar cadere l’intero concetto di responsabilità collettiva. Magari qualche persona intelligente cercherà di convincerci a farlo. Ma, al momento, la tesi di una complicità ebraica pare molto più forte di quella della complicità tedesca. Quindi, se non è razzista ed è anzi ragionevole affermare che i tedeschi sono stati complici di crimini contro l’umanità, è altrettanto non razzista e ragionevole dire lo stesso degli ebrei. E se anche il concetto di responsabilità collettiva fosse da abbandonare, sarebbe comunque ragionevole dire che molti, forse la maggior parte degli ebrei adulti, sostengono uno Stato che commette crimini di guerra, Perché è, semplicemente, la verità. Quindi, se dire queste cose è antisemita, può apparire ragionevole essere antisemiti.
In altri termini, c’è da fare una scelta. O si usa la parola “antisemitismo” adattandola alle propria agenda politica o la si usa come termine di condanna morale, ma non si possono fare entrambe le cose. Se si vuole evitare che l’antisemitismo finisca con il diventare qualcosa di ragionevole o di eticamente accettabile, esso deve essere definito in senso stretto e non strumentale. Sarebbe prudente limitare il concetto di antisemitismo all’odio esplicitamente razziale per gli ebrei, all’aggressione verso chi è semplicemente nato ebreo. Ma sarebbe una prudenza inutile: neppure i nazisti affermavano di odiare la gente solo perché era nata ebrea. Sostenevano di odiare gli ebrei perché essi aspiravano a dominare gli ariani.
Chiaramente, una visione simile deve essere considerata antisemita, sia che appartenga ai cinici razzisti che l’hanno concepita, sia agli stupidi che se la sono bevuta
C’è un solo modo per garantire che il termine “antisemitismo” includa tutte e solamente le azioni o le posizioni negative verso gli ebrei. Dobbiamo cominciare da quelle su cui siamo tutti d’accordo che lo siano, e assicurarci che il termine indichi tutte e solo quelle. Probabilmente, abbiamo in comune abbastanza senso morale da poterlo fare.
Per esempio, condividiamo abbastanza senso morale per dire che tutti gli atti e le avversioni basate sulla discriminazione razziale sono sbagliati, e possiamo quindi tranquillamente considerarli antisemiti. Ma non tutte le “ostilità verso gli ebrei” nemmeno quelle verso l’assoluta maggioranza degli ebrei, dovrebbero essere considerate antisemite. Né dovrebbe esserlo qualsiasi tipo di ostilità verso la religione o la cultura ebraica.
Io, per esempio, sono cresciuto nella cultura ebraica, e come accade a molte persone che crescono in una determinata cultura, essa ha finito con il non piacermi. Ma non ha senso considerare antisemita il fatto che non mi piaccia. E non perché io sono ebreo, ma perché la mia mancanza di apprezzamento è innocua. Forse non è innocua in assoluto: magari, in qualche sottilissima maniera, essa potrebbe in qualche modo incoraggiare qualcuno degli atti o degli atteggiamenti pericolosi che abbiamo deciso di chiamare antisemiti. Ma allora? Il filosemitismo esagerato, quello che considera tutti gli ebrei come dei santi brillanti, cordiali e intelligenti, potrebbe avere lo stesso effetto. Il mio non apprezzamento comporta pericoli infinitamente minori. Anche quando è molto diffusa, l’antipatia collettiva per una cultura è normalmente innocua. La cultura francese, per esempio, sembra essere ampiamente detestata in Nord America, ma nessuno, nemmeno i francesi, considera questo una sorta di crimine razzista.
Non tutte le azioni o gli atteggiamenti che possano recare danno agli ebrei sono da considerare antisemitismo. Molte persone disapprovano la cultura americana; alcuni boicottano i prodotti americani. Sia l’atteggiamento che l’azione potrebbero in generale recare un danno agli americani, ma non c’è niente di moralmente condannabile nell’una o nell’altra cosa. Definirli come atti di antiamericanismo significa solo che alcune forme di antiamericanismo sono perfettamente accettabili. Se l’opposizione alla politica di Israele viene chiamata antisemita, in quanto potrebbe portare qualche danno agli ebrei in generale, questo vorrà solo dire che alcune forme di antisemitismo sono ugualmente accettabili.
Se l’antisemitismo deve rimanere qualcosa di moralmente condannabile, esso deve applicarsi anche al di là delle azioni, delle idee e dei sentimenti esplicitamente razzisti. Ma non lo si può applicare al di là di un’ ostilità seria e chiaramente ingiustificata contro gli ebrei. I nazisti inventarono fantasie storiche per giustificare i propri attacchi; lo stesso fanno i moderni antisemiti che credono nei Protocolli dei Savi di Sion. Lo stesso fanno i razzisti inconfessati che si lamentano del dominio ebraico sull’economia. Questo è antisemitismo nel senso stretto e negativo della parola. Sono azioni o operazioni di propaganda pianificate per fare del male agli ebrei, non per ciò che questi possono fare o non fare ma per quello che sono. Lo stesso vale per gli atteggiamenti che questa propaganda punta a inculcare. Anche se non è sempre esplicitamente razzista, si fonda comunque su motivazioni razziste, e con l’intenzione di provocare danni reali. Un’opposizione ragionevolmente fondata alle politiche di Israele, invece, non si adatta a questa descrizione, nemmeno se offende tutti gli ebrei. Né vi si adatta la semplice e innocua antipatia per ciò che è ebraico.
Dico tutto questo per suggerire che è meglio restringere la definizione di antisemitismo, in modo che nessun atto possa essere al tempo stesso antisemita e ineccepibile. Ma possiamo andare oltre. Ora che abbiamo giocato abbastanza, poniamoci qualche domanda sul ruolo che ha “l’autentico”, deprecabile antisemitismo nel conflitto israelo-palestinese e nel mondo in generale.
Indubbiamente esiste del genuino antisemitismo nel mondo arabo: la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende sugli ebrei che ruberebbero il sangue dei bambini gentili. Questo è oggettivamente ingiustificabile. Ma lo è anche il fatto che hai dimenticato di rispondere all’ultima lettera di tua zia Paolina. In altri termini, dobbiamo dirci questo: che va semplicemente accettato il principio che l’antisemitismo è un male. Non farlo ci escluderebbe da un mondo etico. Ma è una cosa molto diversa dall’avere qualcuno che ci costringa a proclamare che l’antisemitismo è il Male di tutti i Mali. Non siamo bambini che devono imparare la moralità: è responsabilità nostra stabilire le nostre priorità morali. Non possiamo farlo guardando le orribili immagini del 1945, o ascoltando i lamenti angosciati di sofferenti opinionisti. Dobbiamo chiederci quanto male fa o può fare l’antisemitismo, non nel passato, ma oggi. E dobbiamo chiederci dove questo male può manifestarsi, e perché.
Si ritiene che l’antisemitismo del mondo arabo sia molto pericoloso. Ma l’antisemitismo arabo non è la causa dell’ostilità araba verso Israele o verso gli ebrei. Ne è un effetto. Il progredire dell’antisemitismo arabo va di pari passo con il progredire dell’usurpazione territoriale ebraica, e delle atrocità commesse da ebrei. Questo, non per giustificare il genuino antisemitismo. Piuttosto, per banalizzarlo. Esso è arrivato in Medio Oriente con il sionismo e scomparirà quando il sionismo cesserà di essere una minaccia espansionistica. Di fatto, la sua causa principale non è la propaganda antisemita ma gli sforzi sistematici, decennali e costanti che Israele fa per coinvolgere tutti gli ebrei nei propri crimini. Se l’antisemitismo arabo persistesse dopo il raggiungimento di un accordo di pace, potremmo tutti riunirci e deprecarlo. Ma non farebbe comunque del vero danno agli ebrei. I governi arabi avrebbero solo da perdere, permettendo attacchi contro i propri cittadini ebrei: significherebbe invitare Israele a intervenire. E ci sono davvero pochi motivi per aspettarsi che ciò accada: se tutti gli orrori delle recenti campagne israeliane non sono bastati a provocarli, è difficile immaginarsi cosa potrebbe riuscirci. Ci vorrebbe probabilmente una qualche azione israeliana così spaventosa e criminale da oltrepassare, e di molto, gli attacchi stessi.
Se c’è un posto dove è verosimile pensare che l’antisemitismo possa avere effetti terribili, questo è piuttosto l’Europa occidentale. Là, il risorgere del neofascismo è del tutto reale. Ma è un pericolo per gli ebrei? Le Pen, per esempio, è sicuramente antisemita. Ma nulla ci fa pensare che voglia mettere in pratica il suo antisemitismo. Al contrario, sta facendo ogni sforzo possibile per stare in pace con gli ebrei e forse assicurarsi addirittura il loro aiuto contro il suo vero obiettivo, gli “arabi”. Non sarebbe certo il primo politico ad allearsi con qualcuno che non gli piace. Ma se avesse davvero dei piani accuratamente nascosti contro gli ebrei, questo sì che sarebbe insolito: Hitler, come gli insorgenti russi antisemiti, erano assolutamente aperti sulle loro intenzioni, e certo non tentarono mai di accattivarsi il sostegno degli ebrei. Mentre è un fatto che che alcuni ebrei francesi vedono Le Pen come un fenomeno positivo o, addirittura, un alleato. (Si veda, per esempio, “ ‘Le Pen è un bene per noi’ dicono sostenitori ebrei”, Ha’aretz, 4 maggio 2002, e il commento di Goldenburg su France TV del 23 aprile).
Naturalmente ci sono ragioni storiche per temere un orrendo attacco contro gli ebrei. E tutto è possibile: domani stesso potrebbe esserci, a Parigi, un massacro di ebrei. O di algerini. Quale dei due è pù probabile? Se si imparano lezioni dalla storia, queste dovrebbero essere applicate a circostanze che abbiano un minimo di analogia. E l’Europa di oggi assomiglia molto poco all’Europa del 1933. Inoltre, potremmo anche vedere le cose in positivo: cosa ci fa pensare che sia più probabile vedere un pogrom piuttosto che il dissolvimento dell’antisemitismo in un’ineffettiva malevolenza? Non esiste preoccupazione sensata che non debba basarsi sull’effettiva presenza di una minaccia.
Il fatto che si verifichino aggressioni antisemite potrebbe dimostrare questa minaccia. Ma queste prove sono parecchio fumose: non viene fatta nessuna distinzione tra gli attacchi a monumenti o simboli ebraici e le effettive aggressioni contro ebrei. Inoltre, è tale l’accento posto sull’aumento della frequenza degli attacchi che non ci si rende conto della bassissima incidenza del loro livello. Gli attacchi simbolici sono effettivamente aumentati in significativi numeri assoluti. Quelli alle persone, no [*]. Soprattutto, la maggior parte di questi attacchi è compiuta da immigrati musulmani: in altre parole, da una minoranza ampiamente odiata, perseguitata e soggetta a un rigido controllo poliziesco, che non ha la minima possibilità di intraprendere una seria campagna di violenza contro gli ebrei.
Certo, è molto spiacevole che una mezza dozzina di ebrei siano finiti in ospedale – nessuno ucciso – a causa di recenti aggressioni in vari luoghi d’Europa. Ma chiunque consideri questo come uno dei problemi più importanti del mondo, semplicemente non ha guardato bene il mondo. Queste aggressioni sono di competenza della polizia, non sono una ragione per cui noi tutti dobbiamo farci poliziotti di noi stessi e degli altri, così da arginare chissà quale mortale malattia morale. Lo sarebbe solo se le aggressioni razziste avvenissero in società ostili o indifferenti alla minoranza aggredita. Chi ha davvero paura di un ritorno del nazismo, per esempio, dovrebbe riservare le proprie angoscie alle aggressioni, di gran lunga più violente e di gran lunga più diffusamente accettate, di cui sono vittime gli zingari, la cui storia da perseguitati è pienamente paragonabile al passato degli ebrei. La posizione degli ebrei è oggi molto più vicina a quella dei bianchi, che sono anch’essi, ovviamente, vittime di aggressioni a sfondo etnico.
Certo, molti rifiutano questo genere di freddo ragionamento numerico. Ci diranno che, con il passato che incombe su di noi, anche un solo insulto antisemita è una cosa terribile e che la bruttura non si può misurare dal numero di cadaveri. E tuttavia, quanto più osserviamo la cosa da un’angolatura ampia, tanto più l’antisemitismo diventa meno importante, anziché di più. Considerare qualunque spargimento di sangue ebraico come una calamità planetaria, che va al di là di ogni misura e paragone, è razzismo puro e semplice: Significa dare al sangue di una razza un valore maggiore che a quello di tutte le altre. Il fatto che gli ebrei siano stati perseguitati per secoli, e che abbiano sofferto terribilmente mezzo secolo fa, non cancella il fatto che in Europa, oggi, gli ebrei sono cittadini integrati, che hanno moltissime meno ragioni di soffrire e di avere paura di quante ne abbiano altri gruppi etnici. Certo, le aggressioni razziste contro una minoranza benestante sono tanto spregevoli quanto quelle contro minoranze povere e senza potere. Ma che degli aggressori siano ugualmente spregevoli non vuol dire che tutte le aggressioni siano altrettanto preoccupanti.
Non sono gli ebrei, oggi, quelli su cui si allungano le ombre dei campi di concentramento. I “campi di transito” proposti da Le Pen sono per gli arabi, non per gli ebrei. E per quanto vi siano partiti politicamente rappresentativi in cui militano molti antisemiti, non uno solo di questi partiti mostra di volere articolare, e tanto meno di portare avanti, un programma antisemita. Né esiste alcuna ragione di sospettare che, una volta al potere, cambieranno tono. L’Austria di Haider non è considerata pericolosa per gli ebrei; né lo era la Croazia di Tudjman. E sa anche ci fosse un tale pericolo, be’, abbiamo una potenza nucleare ebraica pronta ad accogliere qualunque rifugiato, come pure farebbero gli Stati Uniti o il Canada. E dire che non ci sono pericoli reali adesso, non significa dire che dobbiamo ignorare ogni pericolo che potrebbe sorgere in futuro. Se in Francia, per esempio, il Front National cominciasse a invocare campi di transito per gli ebrei o politiche migratorie antiebraiche, dovremmo certo allarmarci. Ma preoccuparci per ogni cosa allarmante che potrebbe appena ipoteticamente accadere è fuori luogo: ci sono cose molto più allarmanti che accadono già!
Si può replicare che, se le cose non sono più allarmanti, è solo perché gli ebrei, e altri, sono stati così vigili nel combattere l’antisemitismo. Ma questo non è plausibile. Per prima cosa, la vigilanza contro l’antisemitismo è una specie di visione a senso unico: come i neofascisti stanno imparando, per evitare di farsi notare gli basta tacere sugli ebrei. Inoltre, non ci sono stati pericoli gravi per gli ebrei nemmeno in paesi tradizionalmente antisemiti sui quali il mondo non vigila affatto, come l’Ucraina o la Croazia. Paesi ai quali si dedica pochissima attenzione non sembrano più pericolosi di quelli che ne hanno molta. Per quanto riguarda le vigorose reazioni contro Le Pen in Francia, esse sembrano essere dovute molto più alla repulsione francese verso il neofascismo che alle ramanzine della Anti-Defamation League. Supporre che le organizzazioni ebraiche e i coscienziosi opinionisti pronti a gettarsi contro l’antisemitismo stiano salvando il mondo dalla catastrofe è come affermare che Bertrand Russell e i quaccheri siano bastati a salvarci da una guerra nucleare.
Potremmo anche dire che, quali che siano i pericoli reali, essi sono comunque atroci per gli ebrei e riportano alla mente ricordi insopportabilmente dolorosi. Questo può essere vero per quei pochissimi che ancora hanno questi ricordi, ma non lo è per gli ebrei in generale. Io sono un ebreo tedesco, e potrei benissimo rivendicare il mio status di vittima di seconda generazione o di terza mano. Invece, me ne frego altamente degli accadimenti antisemiti o di un clima di crescente antisemitismo. Ho molta più paura quando mi trovo in situazioni realmente pericolose, per esempio quando guido. E comunque, anche i ricordi dolorosi e gli stati d’ansia non hanno poi tanto peso, se li paragoniamo alle autentiche sofferenze fisiche inflitte dalle discriminazioni a tanti non ebrei.
Tutto questo non è per sminuire tutto l’antisemitismo e ovunque. Si sente spesso parlare di perversi antisemiti in Polonia o in Russia, sia nelle strade che al governo. Ma, per quanto ciò possa essere preoccupante, è anche privo di ogni influenza derivante dai conflitti israelo-palestinesi, ed è decisamente improbabile che questi conflitti possano influenzarlo in un modo o nell’altro. Per di più, che io sappia, in nessun luogo c’è tanta violenza contro gli ebrei quanta ce n’è contro gli “arabi”. Quindi, se anche l’antisemitismo è, da qualche parte, una questione spaventosamente seria, possiamo solo concludere che il sentimento antiarabo è qualcosa di molto più serio. E siccome qualsiasi gruppo antisemita è anche, e in misura molto maggiore, contro l’immigrazione e contro gli arabi, essi possono essere combattuti non in nome dell’antisemitismo ma in difesa degli arabi e degli immigrati.Non vale neanche la pena di concentrarsi sulla minaccia antisemita che questi gruppi comportano, quindi. Basta combatterli in nome della giustizia per gli arabi e per i migranti.
Riassumendo, oggi il vero scandalo non è l’antisemitismo, ma l’importanza che gli si dà. Israele ha commesso crimini di guerra. Ha coinvolto gli ebrei in generale in questi crimini e, in generale, gli ebrei si sono precipitati a lasciarvisi coinvolgere. Questo ha provocato astio contro gli ebrei. Perché non avrebbe dovuto? In qualche caso questo astio è razzista, in qualche altro caso no, ma cosa importa? Perché dovremmo dedicarvi attenzione? Il fatto che la guerra etnica di Israele abbia provocato dell’aspra rabbia è più importante della guerra stessa? La remota possibilità che da qualche parte, in qualche momento, in qualche modo, questo odio possa teoricamente uccidere degli ebrei è più importante della brutale e concreta persecuzione fisica dei palestinesi e delle centinaia di migliaia di voti dati a chi vorrebbe internare gli arabi nei campi di transito? Oh, ma dimenticavo. Come non detto, ritiro tutto. Qualcuno con la bomboletta spray ha scritto degli slogan antisemiti sul muro di una sinagoga.
[*] Nemmeno la ADL o il B’nai B’rith includono gli attacchi contro Israele nel conto; parlano piuttosto di “Punti di vista insidiosi con cui viene visto il conflitto tra israeliani e palestinesi, usati dagli antisemiti” E, come molte altre persone, io non considero gli attacchi terroristici di organizzazioni come Al Qaeda come esempi di antisemitismo, ma piuttosto come delle fallimentari campagne paramilitari contro gli USA e Israele. Ma se anche le si include nel conto, non sembra particolarmente pericoloso essere ebreo al di fuori di Israele.
Michael Neumann è professore di filosofia alla Trent University, Ontario, Canada. Gli si può scrivere a: mneumann@trentu.ca

traduzione: http://www.ilcircolo.net/lia/2014/07/26/che-cose-lantisemitismo-di-nuovo/

sabato 19 luglio 2014

Scandalo appalti presso le biblioteche fiorentine



Mentre imperversano proclami di vario genere ben diversa è la reale gestione delle problematiche relative alla città di Firenze.
Di oggi la notizia di uno scandalo appalti relativo ai servizi di gestione delle biblioteche comunali.
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato a cura di Silvia Noferi, capogruppo al consiglio comunale per il M5S.

Il Comune di Firenze ha dato in appalto ad un raggruppamento temporaneo di imprese il servizio di gestione delle biblioteche e dell’archivio storico comunali tramite un bando che non ha previsto per i lavoratori la garanzia del mantenimento delle precedenti condizioni contrattuali.
I circa 70 lavoratori interessati si sono trovati a dover scegliere fra rimanere senza lavoro o accettare le condizioni offerte dai nuovi gestori, anche se peggiorative.
La paura di rimanere senza lavoro in un periodo così difficile come quello attuale ha portato 48 di loro a firmare le dimissioni volontarie (senza avere dall’altra parte un contratto pronto in sostituzione) ma alcuni, 21 per l’esattezza, resistono sorretti dalla convinzione che non si possa continuare ad accettare tutto in nome della crisi economica.
Sembra di tornare al secolo scorso, i diritti dei lavoratori vengono calpestati, le professionalità ignorate, i sacrifici chiesti sempre ai più deboli.
La cosa più intollerabile e forse più incomprensibile è che tutto questo accade all’interno di strutture comunali che, se è pur vero  che debbano risparmiare (e l’unico modo sembra ormai essere l’esternalizzazione dei servizi), dall’altra dovrebbero essere i luoghi in cui i rapporti fra dipendenti e datori di lavoro sono costruiti su modelli virtuosi.
Se non si è in grado di garantire all’interno del Comune di Firenze quel senso di giustizia ed equità che dovrebbe essere base imprescindibile di ogni contratto di lavoro, cosa dobbiamo aspettarci, come cittadini e dipendenti, da altri “luoghi” e altri datori di lavoro?
Non basta rifugiarsi dietro al sottile paravento “dell’aver fatto tutto il possibile” o “di non essere legalmente parte in causa”. Non ci possono essere giustificazioni per un’amministrazione  che decide di avvalersi di soggetti terzi per la gestione dei servizi pubblici di una comunità: il dovere in questo caso è anche e soprattutto morale, il dovere di tutela dei diritti dei singoli che non può sottostare alle leggi del mercato o della convenienza.
Perché in caso contrario la scelta di affidare a terzi un servizio potrebbe sembrare un pretesto per disinteressarsi della parte etica e morale. Cercare di evitare i caduti facendo un maggior numero di feriti senza cure garantite non è, a volte, la soluzione.
Non entriamo nel merito di quanto possa sentirsi demotivato un lavoratore che dopo 17 anni di precariato si veda  costretto a vivere sotto ricatto, a subire continui tagli allo stipendio, declassamenti del proprio livello, perdita di ogni riconoscimento sulla qualità del servizio prestato, ma proviamo lo stesso, per un attimo, a pensare con quanta voglia di collaborare possa svolgere il suo compito.
La dignità non può diventare merce di scambio, non può essere quel “punto” in più per vincere un appalto mentre sotto lo stesso tetto comunale si decide di nominare tre Direttori di Macro-area in aiuto alla Direzione Generale (prospetto della nuova organizzazione presentato oggi in Consiglio Comunale).
C’è qualcosa che stride in tutto questo, domande che ronzano nella testa:
- “Quanto guadagneranno all’anno questi tre Direttori?”
- “Non bastavano 12 Direttori ad aiutare la Direzione Generale?”

Mentre i tempi della politica procedono con lentezza esasperante fra ordini del giorno e slides, i diritti dei lavoratori diventano quasi un vezzo, un dettaglio e non solo per chi un lavoro non ce l’ha più e per chi lo prenderebbe a qualsiasi condizione.
Si rischia quasi di passare come dei pretenziosi, degli incontentabili da parte dei rappresentanti della politica, di quella politica che un tempo molto lontano aveva l’Internazionale fra i suoi inni.