INTERVISTA A CURA DI: DAVIDE GONZAGA
E'
uscito da poco per Arianna Editrice il volume di Alain De Benoist “La
fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere
ai popoli”.
Il
libro, come argomenta Eduardo Zarelli nella puntuale e rigorosa
prefazione, è l'aggiornamento e il completamento di “Sull'orlo del
baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro”, pubblicato
sempre da Arianna Editrice nel 2012.
Il
pensatore francese in questo testo concentra la sua attenzione sul
completo svuotamento operato in questi anni dei parlamenti nazionali
ridotti, ormai, semplicemente a esecutori di ordini della Commissione
Europea.
In
questo senso vanno pure viste tutte le decisione prese circa il
Meccanismo europeo di stabilità, il Trattato sulla stabilità fino
alla futura istituzione di un grande mercato transatlantico che di
fatto ridurrà l'Europa a vassallo delle decisioni e degli interessi
di Washington.
Cominciamo
dal titolo del libro. Se un paio di anni fa, professore, Lei
sosteneva che eravamo “Sull’orlo del baratro” adesso con “La
fine della sovranità” abbiamo oltrepassato quel limite, e dunque
lo stato-nazione, con i suoi punti di riferimento stabili, non esiste
più?
Viviamo
ormai irreversibilmente in un mondo post-moderno?
R- Se consideriamo che
lo Stato-nazione è stata la forma politica più tipica dell’epoca
moderna, allora si può dire che siamo effettivamente entrati
nell’era post-moderna. Lo Stato-nazione era già in crisi negli
anni ’30, come aveva sottolineato Carl Schmitt. Nel corso degli
ultimi decenni è stato progressivamente privato della sovranità in
tutti gli ambiti: la sovranità politica, a causa della sua
dipendenza dai mercati finanziari; la sovranità economica, per
l’influenza delle multinazionali; la sovranità militare, per la
presenza della NATO; la sovranità monetaria, a causa
dell’introduzione dell’Euro; la sovranità in termini di budget,
per rispondere alle esigenze del Meccanismo Europeo di Stabilità
(MES). Ciò non sarebbe del tutto grave se la sovranità tolta agli
Stati fosse stata trasferita e affermata con maggiore forza a livello
sovranazionale. Ma così non è stato: la sovranità è sparita in
una sorta di “buco nero”. Ne risulta che le sovranità nazionali
non sono altro che un ricordo, mentre la sovranità europea è più
che mai introvabile. La sola vera sovranità che esiste oggi è
quella del sistema del denaro.
Nel
primo capitolo, professore, Lei affronta il tema della
mondializzazione.
Ci
può spiegare che cosa intende con questo termine e perché è cosi
importante tenerne conto per capire oggi le dinamiche del capitalismo
e il ruolo che gli Stati hanno in questi anni assunto in relazione a
essa?
R-Di solito,
distinguiamo la globalizzazione (o mondializzazione) culturale, la
globalizzazione tecnologica, quella finanziaria, sociale, ecc. In
realtà, tutte queste forme di globalizzazione derivano dalla
globalizzazione economica e finanziaria, per la semplice ragione che
l’elemento economico è necessariamente l’elemento dominante di
una società di mercato, e che, per i liberali, solo l’economia
intesa come libero confronto degli interessi di ciascuno è atta a
regolare i rapporti tra gli individui. La globalizzazione, dunque,
deve essere compresa prima di tutto come una tendenza
all’interdipendenza globale e all’interconnessione generalizzata,
in primo luogo per quanto riguarda i mercati. La globalizzazione
tende a integrare i mercati locali in un grande mercato planetario
sopprimendo le misure di protezione di cui godevano in precedenza e
sottoponendoli alla concorrenza internazionale. La globalizzazione,
in altri termini, non è altro che il processo storico-geografico di
progressiva espansione del capitalismo su scala mondiale,
l’espansione planetaria del principio del libero mercato.
In
questi anni uno dei temi forti che ha messo in ginocchio le economie
di alcuni Stati dell’Ue è stato certamente il debito pubblico.
Come è stato possibile, a suo avviso, che questi Paesi siano stati
costretti ad adottare politiche di rigore con tagli profondi alla
sanità, all'istruzione, ai servizi sociali, ai trasporti e,
nonostante questo, la voragine del debito pubblico non solo non tende
a diminuire ma addirittura aumenta?
Al
riguardo ci sono precise responsabilità? E si possono evidenziare
delle cause precise per tutto ciò?
R- La politica del
debito pubblico è una politica di tipo usuraio, la cui causa prima è
l’indipendenza che è stata accordata alle Banche Centrali. A
partire dal 1973, allo scopo di combattere l’inflazione, gli Stati
hanno impedito a se stessi di chiedere prestiti alle proprie banche
centrali (Banque de France, Banca d’Italia, ecc.), che fino a quel
momento prestavano denaro agli Stati a tassi molto bassi o nulli. Per
finanziare i loro deficit, gli Stati si sono quindi posti alla
dipendenza degli istituti bancari e dei mercati finanziari, che
concedono prestiti a tassi molto più elevati (mentre tali istituti
bancari possono, loro sì, rifornirsi dalle banche centrali a un
tasso molto basso). L’indipendenza della Banca Centrale Europea
(BCE) ha poi coronato il tutto.
Ben inteso, le banche
richiedono un tasso di interesse tanto più elevato rispetto a quanto
loro stesse ritengano le economie nazionali più o meno in cattivo
stato. Per ottenere tassi di interessi più bassi, gli Stati si
sottomettono dunque ai requisiti delle organizzazioni internazionali
che, conformemente alla dottrina liberale, pensano che il risanamento
delle finanze pubbliche passi per delle “cure di austerità”. In
realtà, ciò che si osserva è il risultato contrario. Le politiche
di austerità provocano un abbassamento del potere d’acquisto,
quindi della domanda, quindi dei consumi, quindi della produzione, e
di conseguenza un aumento della disoccupazione, della
deindustrializzazione e del numero di delocalizzazioni. In fin dei
conti, le entrate fiscali diminuiscono invece di aumentare. Per
assolvere i loro debiti, gli Stati devono allora continuare a
chiedere prestiti al settore privato, anche solo per finanziare gli
interessi su tali debiti. Questi nuovi prestiti appesantiscono di
nuovo il debito pubblico, facendone aumentare ancora gli interessi.
La Francia, per esempio, deve chiedere in prestito ogni anno 50
miliardi di euro al solo fine di rimborsare gli interessi del suo
debito pubblico (è la voce di budget più consistente dopo
l’educazione pubblica). Si entra così in un ciclo senza fine.
L'esplosione
della bolla finanziaria, provocata dalla crisi dei subprime, ha avuto
conseguenze così gravi per l'economia reale da indurre i governi
della zona Euro a firmare il trattato di istituzione del Meccanismo
europeo di stabilità (MES) e il TSCG che obbliga gli Stati a
conseguire una serie di rapporti molto rigidi tra PIL e debito
pubblico. Al di là degli aspetti tecnici di tali provvedimenti qual
è la "ratio" che caratterizza queste decisioni, che
vengono presentate dalle autorità dell'Ue come necessarie?
R-Le disposizioni del
Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mirano a imporre a tutti gli
Stati le stesse regole in materia di indebitamento e di deficit
pubblico, regole che sono praticamente inapplicabili perché, nella
maggior parte dei paesi europei, la loro applicazione sfocerebbe in
un rafforzamento delle politiche di austerità che sarebbe
politicamente e socialmente insostenibile.
In
questi anni, dalla Grecia all'Italia si sono avvicendati governi
tecnici che hanno fatto dell’austerità il presupposto
imprescindibile di ogni decisione. Di fatto però questa politica
economica ha creato povertà e disoccupazione (specie giovanile), ha
costretto alla chiusura centinaia di migliaia di imprese (con numeri
che si registrano di solito dopo una guerra) ha comportato tagli, ha
imposto riforme del mercato del lavoro cancellando diritti
conquistati dopo anni di durissime lotte sociali. Tutto questo in
nome del dogma liberista secondo cui i mercati, in quanto sarebbero
"intrinsecamente" efficienti, riporteranno in positivo,
prima o poi, la crescita dell'economia dei Paesi che attualmente
attraversano una grave crisi economica e sociale. Nel frattempo, però
cresce il malcontento verso l'Euro visto come il nemico da abbattere.
A Suo avviso l'uscita dall'Euro sarebbe la soluzione per uscire da
tale crisi?
R-Sono abbastanza
combattuto su questo punto. L’istituzione di una moneta unica non
era in sé una cattiva idea, tanto che si poteva sperare che l’Euro
si imponesse progressivamente come moneta di riserva internazionale
rispetto al dollaro. Il problema è che la Germania ha preteso (e
ottenuto) che il valore dell’Euro fosse fissato allo stesso livello
del vecchio Marco tedesco, rendendo così l’Euro fin da subito
inutilizzabile per i paesi il cui livello economico era nettamente
inferiore a quello della Germania. Ora, una moneta unica non può
semplicemente essere utilizzata come moneta nazionale da paesi con
livelli economici totalmente diversi. Anche in rapporto al Dollaro,
si vede oggi come l’Euro sia sopravvalutato. In queste condizioni,
l’istituzione dell’Euro non poteva che aggravare gli effetti
della crisi finanziaria del 2008 e della crescita vertiginosa
dell’indebitamento pubblico che tale crisi ha provocato. Nonostante
ciò, bisogna comunque ricordare come i paesi europei che non hanno
adottato l’Euro, come la Gran Bretagna, non si trovino oggi in una
situazione migliore (per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito
e i deficit commerciali hanno aggiunto un livello fenomenale, quando
la Federal Reserve americana dispone, in materia di produzione di
moneta, di mezzi che la BCE non ha).
Un ritorno alle
valute nazionali, accompagnato a una svalutazione di queste monete,
potrebbe aiutare a uscire dall’impasse. Ma potrebbe anche provocare
una brusca inflazione, di entità difficile da misurare. Con il
debito pubblico ancora formulato in Euro, questo verrebbe di nuovo
appesantito. Un paese che uscisse unilateralmente dall’Euro si
ritroverebbe inoltre piuttosto isolato. La situazione sarebbe diversa
se più paesi decidessero di uscire contemporaneamente dall’Euro,
ma nell’immediato non si capisce bene quali paesi siano decisi a
farlo. Un’altra soluzione sarebbe una svalutazione dell’Euro, ma
la BCE non ne vuole sapere. Infine, va da sé che l’abbandono
dell’Euro non cambierebbe nulla della natura profonda del sistema
capitalista. In ogni caso, se la moneta unica dovesse sparire,
ritengo che l’Euro sarebbe da mantenere come moneta comune per gli
scambi finanziari con i paesi non europei.
Ruolo
subalterno dei parlamenti nazionali nonché del parlamento europeo
rispetto alla Commissione Europea e alle lobby della finanza.
Depressione economica. Disoccupazione di massa in special modo
giovanile.
A
fronte di tutto questo da un lato pare manifestarsi una rabbia sorda
e si ha l'impressione che prevalga una sorta di rassegnazione cupa.
Forse perché manca quel senso di fiducia nel legame comunitario che
la società di mercato e l'individualismo imperante hanno contribuito
a indebolire se non a spezzare del tutto. Dall'altro, però, crescono
partiti e nascono movimenti politici che la stampa ha immediatamente
bollato come “populisti”. In Francia il FN di Marine Le Pen, in
Inghilterra lo Ukip di Nigel Farage, in Italia il M5S di Beppe Grillo
e la stessa Lega di Matteo Salvini.
Che
cosa pensa di questi fenomeni?
R-La comparsa e il
successo dei movimenti «populisti» in Europa è la conseguenza
diretta di una crisi generale della democrazia rappresentativa, le
cui cause sono da cercare nella cancellazione della divisione
destra-sinistra e nell’ascesa di una “Nuova Classe” politica
dalla quale il popolo è tagliato fuori. Nel corso degli ultimi
decenni, la gente ha visto succedersi governi “di destra” e “di
sinistra” che praticavano la stessa politica e non riuscivano, né
gli uni né gli altri, a risolvere i problemi concreti. In parallelo,
la globalizzazione ha accelerato i processi di immigrazione,
disoccupazione, le delocalizzazioni, innescando così una catena di
“terrori morali”. Avendo constatato che i grandi partiti classici
non li rappresentano più, che l’alternanza ha sostituito
l’alternativa, il popolo si è allontanato dalla “Nuova Classe”.
Alcuni hanno trovato rifugio nell’astensionismo, altri si sono
rivolti ai movimenti “populisti”, visti come “l’ultima
chance”.
Ma bisogna anche
sottolineare che, dal punto di vista della scienza politica, il
“populismo” è diventato anche una categoria “minestrone” che
comprende un po’ tutto, e allo stesso tempo oggetto di repulsione.
In realtà, il populismo non è un’ideologia, bensì uno stile.
Tale stile si può associare agli orientamenti ideologici più vari.
Se si guardano da vicino i diversi movimenti che Lei cita, si vede
comunque che, al di là di quanto possano avere in comune, emergono
anche profonde differenze. Il Fronte Nazionale in France, per
esempio, ha un programma economico e sociale nettamente “orientato
a sinistra”, mentre la maggior parte degli altri partiti populisti
sono decisamente dalla parte dell’economia capitalista liberale.
Allo stesso modo, il FN è accanitamente giacobino e
antiregionalista, mentre la Lega Nord e il Vlaams Belang in Belgio
hanno opinioni totalmente opposte. E si potrebbero fare molti altri
esempi.
In
un capitolo molto denso e fondamentale del suo testo Lei
ricostruisce, in modo assai efficace, sia sotto l'aspetto storico sia
sotto quello economico, le tappe di un processo che dovrebbe portare
alla nascita del Mercato Mondiale Transatlantico.
Ci
può spiegare perché è così importante e perché è così
pericoloso?
R-Il 14 giugno 2013, i
Governi degli stati membri dell’UE hanno conferito ufficialmente
alla Commissione Europea il mandato per negoziare con il governo
americano la creazione di un grande mercato comune transatlantico,
con il nome di Trattato Transatlantico sul Commercio e gli
Investimenti (Trasantlantic Trade and Investment Partnership, TTIP).
Da allora, il negoziato prosegue senza che il grande pubblico ne sia
informato. L’obiettivo è di creare, procedendo a una deregulation
generalizzata, una gigantesca zona di libero scambio corrispondente a
un mercato di più di 800 milioni di consumatori, alla metà del PIL
mondiale e al 40% degli scambi globali. Per gli europei, che si
ritroverebbero così definitivamente legati agli USA, questa è un
minaccia da temere per almeno due motivi.
Il primo è che il
TTIP si dà come obiettivo non solo di eliminare i diritti doganali
(cancellando così qualsiasi speranza di istituire un protezionismo
europeo), ma anche di abbattere le cosiddette “barriere non
tariffarie” (BNT), cioè l’insieme delle norme destinate a
rappresentare delle “barriere” al libero commercio. Più
precisamente: le norme costituzionali, legali e regolamentari che, in
ciascun paese, potrebbero limitare la libertà commerciale intesa
come libertà fondamentale. L’accordo prevede che, in tutti gli
ambiti, la regola sarà quella di allinearsi al “livello più alto
di liberalizzazione esistente”, che significa che la “convergenza”
avverrà con l’allineamento delle norme europee alle norme sociali,
salariali, ambientali, sanitarie in vigore negli USA. In ambito
agricolo, ciò dovrebbe portare all’arrivo massiccio sui mercati
europei dei prodotti a basso costo del business agroalimentare
americano: manzo agli ormoni, volatili lavati nella clorina, OGM
(Organismi Geneticamente Modificati), animali nutriti con farine
animali, ecc. Tutte le norme sanitarie europee potrebbero così
essere condannate come “barriere commerciali illegali”.
Seconda minaccia: la
creazione di un meccanismo di “arbitrato delle controversie” tra
Stati e investitori privati. Questo meccanismo, detto di “protezione
degli investimenti”, deve permettere alle compagnie multinazionali
e alle società private di portare davanti a un tribunale ad hoc gli
Stati o le collettività territoriali in caso di modifiche alle
legislazioni che siano ritenuto dannose per i propri interessi o che
possano limitarne benefici, allo scopo di ottenere un risarcimento.
La controversia sarebbe arbitrata in modo discrezionale da giudici o
giuristi privati, al di fuori delle giurisdizioni pubbliche nazionali
o regionali, e secondo il diritto americano. L’ammontare del
risarcimento sarebbe potenzialmente illimitato (vale a dire che non
ci sarebbe limite alle sanzioni che un tribunale potrebbe imporre a
uno Stato a beneficio di una multinazionale) e la sentenza non
sarebbe soggetta ad appello.
Per
chiudere è ormai è un luogo comune affermare la superiorità
dell'Economico rispetto al Politico. Tuttavia, il Politico non
designa solo l'attività di governi, parlamenti o partiti ma anche e
soprattutto la funzione politica e strategica in generale. Del resto,
il fatto stesso che si parli di "supremazia" dell'Economico
solleva la questione della funzione politica dell'Economico e quindi,
oggi, del ruolo strategico dei grandi gruppi finanziari.
In
Italia è stato un pensatore di formazione marxista (benché ciò
possa apparire paradossale), ossia Gianfranco La Grassa, a elaborare
un impianto teorico basato proprio sulla necessità di un superamento
di una riduttiva e fuorviante visione economicistica, al fine di
comprendere la decisiva funzione politica degli "strateghi del
capitale" della potenza predominante.
Sull'importanza
della funzione politico-strategica dell'Economico, come una specie di
Politico a un tempo mistificato e mistificante, Lei è d'accordo?
R-L’ho
già accennato sopra: la sola sovranità che esiste ancora oggi è
quella del sistema finanziario, per dire a quale livello l’Economico
ha superato il Politico. Ma Lei ha ragione nel sottolineare che
l’economia ha anche una funzione strategica, le cui conseguenze
sono inevitabilmente politiche. Gianfranco La Grassa è in effetti
tra coloro che hanno seriamente studiato la questione, specialmente
ne “Gli Strateghi del Capitale” (2006), “L’altra Strada. Per
uscire dall’impasse teorica” (2013), ecc., ma non è il solo. Per
l’Italia, si può ugualmente citare l’amico Costanzo Preve,
filosofo neomarxista venuto recentemente a mancare. In Germania,
l’opera di Robert Kurz sulla “critica del valore” (Wertkritik)
merita di essere studiata ed esaminata. Questo aspetto “strategico”
è tanto più importante che la Forma-Capitale, oggi più che mai di
fronte al problema della “svalutazione del valore”, è sempre
alla ricerca di modi nuovi che le consentano di andare più lontano
nel processo di sovra-accumulazione del capitale finanziario, che è
la sua ragion d’essere.
Si ringrazia la
professoressa Beatrice Soriani per la preziosa opera di traduzione.
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