giovedì 29 maggio 2014

CRESTI e FUSARO: Le elezioni europee 2014 (VIDEO)



ANTONELLO CRESTI e DIEGO FUSARO

"RIFLESSIONI SULLE ELEZIONI EUROPEE 2014"

foto, video, montaggio: ANDREA RUFFI

cliccare sul link per il video:

mercoledì 28 maggio 2014

ANTONELLO CRESTI: Gli Area, gioia e rivoluzione di una musica radicale



Valerio D’Onofrio: Gli Area sono stati un gruppo unico negli anni settanta italiani, il loro tentativo di fondere pop, jazz, sperimentazione, musica popolare etnica, folk, per creare una musica che sia totale li rende “altra cosa” rispetto ai classici gruppi progressivi a cui vengono accostati. Ritieni che abbiano centrato l’obiettivo di tenere insieme musica, politica, arte e avanguardia?
Antonello Cresti: Recentemente gli Area sono stati insigniti del titolo “di miglior gruppo indipendente” italiano. In tempi in cui tale vocabolo è associato ad operazioni di pura autoreferenzialità questa scelta potrebbe sembrare persino irriverente; in realtà gli Area hanno perfettamente incarnato l’idea di indipendenza e dissidenza. Liberi da ogni rigido schematismo sonoro, indirizzati verso una idea di musica totale in maniera tanto netta da superare i pur mirabili tentativi di formazioni come i tedeschi Agitation Free o Embryo, che istintivamente mi verrebbe da associare a loro. Inoltre c’è la scelta di essere radicali nell’espressione creativa, come in quella concettuale. Musica estrema per gente estrema, saldando arte e creatività in maniera davvero impensabile nell’epoca in cui l’impegno o è scomparso o è affidato a baracconi circensi tipo “Live Aid”. In definitiva gli anni settanta in Italia hanno prodotto eccellenti gruppi ed artisti, ma direi che gli Area sono davvero il “gioiello nella corona” della nostra scena… La loro musica può sorprendere ascoltatori provenienti da ogni parte del mondo!
Valerio D’Onofrio: I classici gruppi progressivi sono, quasi sempre, politicamente disimpegnati. Come collochi invece gli Area, nel loro tempo, tra politica, protesta, anni di piombo, ecc.
Antonello Cresti: Come dicevo prima, negli anni, soprattutto a partire dal cosiddetto “riflusso”, l’idea di impegno in musica non è sparita, semplicemente ha finito di illustrare, rappresentare, un modo di essere, di vivere la vita. La musica radicale un tempo “impegnava” gli ascoltatori esattamente come poteva farlo l’analisi di un testo di Marcuse, poi è venuta l’epoca delle canzonette, dei bei sentimenti. Materiale talvolta anche ben congegnato, ma incapace di contribuire alla formazione di una gioventù ribelle. Dopo gli Area in Italia sono stati pochi a tentare una operazione simile: i CCCP probabilmente (anche se loro musica era ben più convenzionale di quella degli Area) e confesso, ascoltando l’ultimo album di Eugenio Finardi, di provare un brivido ascoltando testi tanto affilati ed antisistema…
Area
Area
Valerio D’Onofrio: Fondamentale per il successo degli Area è certamente la figura di Demetrio Stratos. Come vuoi ricordarlo e cosa rimane oggi di un personaggio tanto importante?
Antonello Cresti: Più che il primo Demetrio Stratos, dotato di enormi potenzialità vocali, ma ancora acerbo, una sorta di emulo di Tom Jones, direi che senza dubbio dobbiamo inchinarci di fronte al grande sperimentatore della voce, al “suonatore di corde vocali” che ha scoperto le enormi potenzialità del più intimo e insieme più misterioso degli strumenti. Lo Stratos che rimarrà nella storia è quello che rilegge il folklore greco in“Cometa Rossa” o in “Gerontocrazia”, quello di “Metrodora” e, soprattutto di“Cantare la Voce”, suo testamento artistico. Ma non dimentichiamo che il range espressivo di questo cantante era tanto ampio quanto sorprendente. Lo avete sentito interpretare Fats Domino e Jerry Lee Lewis in “Rock and Roll Exibition”?
Demetrio Stratos Area
Demetrio Stratos
Valerio D’Onofrio: Arbeit Macht Frei è considerato il loro album migliore. Cosa vuoi dirci del loro esordio e quali altri album vuoi segnalare?
Antonello Cresti: Forse il loro esordio è il lavoro più noto per la presenza della celeberrima “Luglio, Agosto, Settembre (Nero)”, ma direi che la loro visione è al suo massimo nel radicale “Caution Radiation Area”, nel più accessibile, ma denso di perle“Crac” e anche nel meno conosciuto “Gli Dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”. La gamma espressiva affrontata è, come dicevamo, sorprendente, ed è interessante in ogni brano riuscire a districare ed analizzare le varie componenti presenti, dal jazz all’elettronica, dalla musica etnica al rock.
Gli Area oggi
Gli Area oggi
Valerio D’Onofrio: Oggi gli Area sono tornati in vari concerti dal vivo. E’ solo un revival o pensi abbiano ancora idee da comunicare alle nuove generazioni?
Antonello Cresti: Mi riesce difficile legare band come Area (o King Crimson, tanto per scomodare un nome estero) al concetto di revival. Avendo assistito ad alcuni recenti concerti degli Area ho apprezzato la re-invenzione del loro repertorio storico, godendo soprattutto l’apporto anarchico e tecnologico di Paolo Tofani. Certo, l’auspicio è che questi grandi musicisti si cimentino con nuova musica, fuori dalle pastoie fusion del loro “Tic Tac”. Gli Area hanno ancora tanto da dire…

lunedì 26 maggio 2014

ANTONELLO CRESTI: Il popolo italiano consegna le chiavi di casa alla Troika



Mentre ovunque in Europa vincono le ragioni della protesta e della alternativa politica e culturale gli italiani ci dicono, quantomeno coloro che si sono recati a votare, che la crisi è immaginaria, che l’austerity è una manna per le famiglie e che, tanto per guardare allo scenario italiano, la sospensione dei diritti democratici dal Novembre 2011 a oggi (tre governi da allora NON eletti dal popolo) rappresenta l’apoteosi della libertà di una nazione ed anche una ricetta insuperabile per rilanciare lo sviluppo e l'equità sociale.
Si può naturalmente discutere se chi ha votato negli altri stati europei abbia affidato le chiavi dell’alternativa alle persone giuste, ed almeno in alcuni casi è piuttosto evidente che non è  stato così. Ma un segnale, anche se in maniera scomposta, è stato dato.
In Italia no e credo francamente che invece che scomodare le categorie della analisi politologica sia necessario fare riferimento alle tare storiche di un popolo che ama essere assoggettato, lamentarsi senza fare assolutamente nulla perché le cose cambino, un popolo soprattutto privo di slancio e di grandezza secondo cui il massimo principio, come insegnano i genitori borghesi ai propri figli, è “non farsi riconoscere e non dire cose sconvenienti”.
E’ dunque la vittoria di Matteo Renzi (una vittoria da noi pronosticata nel lontano 2012 quando il popolo mutante del PD l’aveva eletto a “male assoluto”), ma soprattutto è il vero trionfo della DC, intesa come mentalità di branco, come partito dell’impiegato Fantozzi che china la testa, magari inveisce con la moglie quando torna a casa, ma poi la nazionale vince una partita, gli si promette qualche cazzata oppure gli si danno 80 euro pre-elettorali (…) e tutto torna ad essere roseo. Vite inutili, prive di valore.
Gli effetti di questa mentalità perniciosa per chiunque voglia provare ad immaginare una vita  migliore saranno disastrosi non tanto sull’elettorato di ordine, la rediviva maggioranza silenziosa che si vergogna del proprio voto tanto da non confessarlo ai sondaggisti, quanto sull’eventuale spazio di alternativa. Per dirsela chiara chiara è facile immaginare che da oggi l’unico movimento che poteva incarnare, per numeri e forza, un nuovo paradigma politico, ossia il Movimento 5 Stelle sarà sottoposto ad un fuoco di fila che ne condannerà “estremismo, violenza, urla etc… etc…” indicando la via per uscire dall’impasse, ossia una normalizzazione, divenire una pacata coscienza critica della politica vecchio stampo, opzione che se fosse seguita dal movimento ne segnerebbe la fine politica immediata. Certo è vero che per un popolo di vigliacchi e servi capaci di consegnare la chiavi di casa in maniera così smaccata alla troika probabilmente sarebbe premiante vedere un M5S fare alleanze col PD, ma politicamente sarebbe la conclusione di un percorso.
Mi ero illuso, in questi giorni, vedendo decine di intellettuali (intellettuali, non pennivendoli di regime…), persone che si astenevano da lunghissimo tempo, impegnarsi per un voto al movimento guidato da Grillo, ma è facile adesso rendersi conto che questa era solo la dimostrazione che una politica portata avanti in maniera giustamente intransigente sia patrimonio solo di una minoranza.
Nanni Moretti nel fatto di trovarsi d’accordo con una minoranza amava crogiolarcisi ai tempi dell’ascesa berlusconiana, adesso cambierà certamente idea (sia pur con l’”odiato” Renzi), noi invece ritenevamo e riteniamo che un movimento di alternativa debba lottare per conquistare una egemonia. Ma questo deve avvenire senza lasciare indietro nulla delle proprie specificità e senza cadere nel trucco di diventare “utile idiota” al servizio del sistema come è capitato negli anni a miriadi di formazioni di sinistra come di destra.

Mentre l’Europa si risveglia ci attendono qui tempi durissimi, nessuno è più autorizzato a lamentarsi poiché ancora una volta gli italiani la testa dentro il cappio l’hanno messa di loro spontanea volontà. Per quelli come noi non resta che l’espatrio, sono troppe le battaglie perdute e gli anni di totale marginalità.

venerdì 23 maggio 2014

ENRICO GALOPPINI: Cinque Stelle, ecco cosa fare dopo la vittoria.



Se c’è un obiettivo che un movimento politico “alternativo” dovrebbe perseguire sempre e comunque è quello della presa del potere.
In Italia sono decenni che nascono partitini di “estrema sinistra” e di “estrema destra” che a parole spaccano il mondo, ma poi – incapaci di attirare un consenso significativo -  si alleano regolarmente coi carrozzoni dei partiti maggiori della medesima area ideologica.
Non sono poi mancate proposte politiche che sembravano rappresentare “il nuovo che avanza” ma che, dopo un lusinghiero risultato, sono sparite nel giro di qualche anno (penso all’“Italia dei Valori”, letteralmente volatilizzatosi). Oppure movimenti che si sono sempre fatti vanto del fatto di starsene fuori dal “palazzo”, autoconvincendosi così della propria purezza mai messa al vaglio della prova dei fatti.
Ma stavolta non sembra la solita storia, perché il Movimento Cinque Stelle sta dicendo chiaramente di voler governare, e per giunta senza fare alleanze ed “inciuci”. Si ascolti per esempio l’ottavo minuto di quest’intervista di Enrico Mentana ad Alessandro Di Battista:https://www.youtube.com/watch?v=BEShWhuw4mw&
Di Battista ripete due volte: “Ci credo proprio che andiamo al governo!”
L’ha sparata grossa? Gliene si può fare una colpa? Lo si può accusare d’essere un illuso?
Solo chi non ha capito in quale grave situazione siamo può ancora pensare cose del genere.
Ma se un governo pentastellato sta nei destini di questa Nazione, mi permetto di ricordare ai futuri governanti che, al di là delle “tre cose che faremo subito” (reddito di cittadinanza, legge anticorruzione, legge sul conflitto d’interessi), ve ne sono altre, molto più urgenti ed importanti, per rimettere, come si suol dire, “il bamboccio in piedi”.

Ovviamente capisco benissimo che, una volta al governo, non si può partire immediatamente con una terapia d’urto, e che determinate epocali “riforme” hanno bisogno di essere ben preparate per non trovarsi ad affrontare problemi ancor peggiori.
Ma quello che segue è ciò che un governo finalmente italiano deve fare:
1)    Ristabilire la sovranità monetaria dello Stato, unico emettitore di una moneta dei cittadini esente da “debito”. Abolizione, in ogni forma, del prestito ad interesse, fonte d’ogni sciagura economica, sociale e politica. Lo Stato – fermo restando il valore della libera intrapresa quale elemento di elevazione della persona umana – deve essere posto di nuovo al centro dell’attività economica e bancaria.
2)    Ripristinare la completa sovranità sull’intero territorio nazionale, con immediata rescissione delle “alleanze” imposteci dopo la nostra sconfitta militare del 1945. Smantellamento, quindi, di tutte le basi Usa e Nato presenti in Italia. Simultaneo stabilimento di nuove alleanze strategiche con tutti quegli Stati parimenti impegnati nella lotta allo strapotere occidentale e al suo modello di “civiltà” distruttore di ogni identità, ogni differenza ed ogni elemento qualitativo.
Questi sono i primi due essenziali passaggi, che logicamente preparano il riordino degli altri settori che attualmente languono in una crisi spaventosa che non può che peggiorare se non s’interviene al più presto.
Tanto per fare un esempio, con la sovranità monetaria viene finalmente a godere di rinnovata salute sia l’imprenditoria pubblica e privata che la capacità di spesa delle famiglie italiane, le quali oltretutto cesserebbero di essere vessate da una fiscalità senza senso perché l’odierna tassazione è giustificata – si fa per dire – solo dal perverso meccanismo d’indebitamento dello Stato che è costretto a farsi prestare i soldi dai “signori del denaro”!
Una buona idea, capace di produrre un beneficio per la comunità, non andrebbe subito a morire come accade oggi perché “non ci sono i soldi”: lo Stato se ne farebbe garante e sostenitore proprio perché detentore della sovranità monetaria.
Ma facciamo anche un altro esempio facile da capire. Con la sovranità territoriale e la libertà di allearci con chi vogliamo, verrebbe inoltre risolto l’altro atavico problema italiano, ovvero quello del nostro coinvolgimento nella sistematica ed essenziale (per gli occidentali) serie di aggressioni a mano armata in giro per il mondo. Oltre a ciò, la perdita della “colonia-Italia” sia come fornitrice di truppe cammellate, sia come base da cui sferrare attacchi nel Mediterraneo ed oltre, minerebbe alle fondamenta la capacità d’azione militare dei nostri attuali padroni.
Dunque, ripristinati i due classici capisaldi della sovranità, l’Italia sarebbe finalmente libera dall’influenza nefasta di tutte quelle centrali della dissoluzione e dell’essere umano e della nostra comunità, sotto ogni punto di vista, quali sembrano piuttosto chiare nella mente di quelli che ancora qualche ritardatario chiama con aria di sufficienza “i grillini”.
Sotto quest’aspetto, l’intervento in aula della parlamentare del Movimento Cinque Stelle Tiziana Ciprini, di appena sei giorni fa, è letteralmente musica per le orecchie:https://www.youtube.com/watch?v=UVXb5w3cluI [1]
Certo, Lorsignori pensavano di aver definitivamente azzerato – coi loro media e i loro lacché infilati ovunque – ogni capacità di resistenza, anche solo critica, da parte di questa Nazione.
Invece no, ed è bene che se lo ficchino bene in testa.
Ma se il movimento guidato da Beppe Grillo, giunto al governo, continuasse a cincischiare con questioni di secondaria importanza come le “diarie” e i “rimborsi elettorali”, per non parlare dell’assurdo ed inapplicabile pseudo-principio per cui “uno vale uno”, è altrettanto bene porsi sin d’ora il problema di far emergere, da questa medesima Nazione italiana, una forza che al primo posto della sua azione politica ponga i predetti elementi costitutivi di ogni sovranità, libertà ed indipendenza.
Grillo afferma sovente che se non ci fosse stato il Cinque Stelle oggi avremmo “il fascismo”. Ma l’Italia fascista - stabilito che stiamo parlando di una realtà di quasi un secolo fa e che il “fascismo”, più che un’ideologia, è una prassi – non era un Paese succube degli stranieri, né della finanza apolide. Anzi, era all’avanguardia in ogni campo ed erano gli altri a guardare a noi come ad un modello cui ispirarsi.
Per farla breve, ai Cinque Stelle, che per molti aspetti ammiro e riscuotono la mia simpatia, dico questo: chiamate le cose come volete, ma non scambiate la sostanza con la facciata. Se negli anni Venti e Trenta le chiavi di casa le avevamo noi, e pure i nostri soldi non dovevamo implorarli ad una tipografia camuffata da istituto d’emissione; se, insomma, dello “spread” ce ne potevamo tranquillamente fregare e le cose da fare si facevano, alla svelta, e pure con un avanzo di cassa (le famose bonifiche, tanto per dirne una), un motivo ci sarà.
Quindi, prima di esaltarsi per una “questione morale” posta a suo tempo dal PCI berlingueriano (o berlinguer-innegato?), che risuona di continuo nei comizi del Cinque Stelle come se si trattasse della pietra angolare d’ogni buona azione politica, ci s’interroghi se, piuttosto, una Nazione libera, indipendente e sovrana non sia invece il risultato di un sistema che, lungi dal considerare “tutti uguali”, premia le eccellenze e fa in modo che queste si adoperino, oltre che per la loro soddisfazione personale, per il bene comune e l’interesse nazionale.
Altrimenti, esiste il concreto rischio che ad una pagina nera della nostra storia vada ad aggiungersene un’altra: la farsa, dopo la tragedia, di una sorta di “Repubblica giacobina” che, in un’orgia di “processi popolari” di cui quello “in rete” che si profila è solo l’antipasto, darà solo l’illusione di una vera “rivoluzione” ad un’Italia che, forte della sua storia e della sua civiltà millenarie, non meriterebbe l’ennesima presa in giro.






[1] La trascrizione si trova da p. 37 (in fondo) a p. 40 (in cima) di questo documento tratto dal sito della Camera dei Deputati:
http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0229&tipo=stenografico#sed0229.stenografico.tit00060.sub00010.int00250

fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48503

giovedì 22 maggio 2014

ALESSANDRA COLLA: Il M5S porterà a votare una astensionista convinta come me!




Chi mi conosce sa che da molti anni non voto alle elezioni — l’ultima volta che l’ho fatto è stato per un partito di sinistra, quando ancora (forse) la sinistra esisteva. E sa pure che in tutti questi anni ho sempre invitato a non votare, per un unico e semplice motivo: che l’Italia essendo stata deprivata della sovranità nazionale dopo il 1945, tutti i partiti e gli schieramenti politici del paese altro non sono che marionette tirate da fili in mani molto lontane da qui. Come spiegava benissimo Ernst Jünger nel suo magistrale Trattato del Ribelle, stante quella situazione era auspicabile “passare al bosco”: rimando al testo jüngeriano ( e mettendo da parte l’odiosa falsa modestia ricordo che sull’argomento ho molto scritto e molto parlato — invano — a suo tempo).
Poi è arrivato il Movimento Cinque Stelle, portando una ventata d’aria nuova sulla scena politica italiana.
Attenzione, ora, a non ripetere nei confronti del termine “nuovo” lo stesso fatale errore compiuto da molti in un altro campo, attribuendo del tutto erroneamente al termine “evoluzione” il significato di “progresso, miglioramento”: in realtà, sia il termine “nuovo” che il temine “evoluzione” implicano un solo e ben preciso concetto — cambiamento. Laddove  “cambiare” significa rendere una cosa diversa da quel che era prima, conferendole caratteri finora sconosciuti — nuovi, appunto.
E che il greco antico traduca con neoterìzein, “fare cose nuove”, il nostro “fare la rivoluzione” non è un dato trascurabile.
Perché l’Italia unita non ha mai conosciuto una vera rivoluzione. Nel bene e nel male, quella del 28 ottobre 1922 non è stata una rivoluzione in senso proprio: la rivoluzione, ammoniva Mao, non è un pranzo di gala — se la si fa sul serio, è fatale mettere sossopra i salotti buoni , rompere qualche suppellettile e lasciare macchie di sangue in giro. Soprattutto, una rivoluzione seria deve eliminare la classe dirigente preesistente, cioè metterla in condizione di non avere più accesso alle leve del potere, per sostituirvi persone nuove ovvero diverse (il che, fra l’altro, evita o limita esponenzialmente il rischio di guerre civili). L’Italia questo non l’ha fatto. Nata dalle guerre risorgimentali — che notoriamente non miravano ad alcun “bene comune” —, è cresciuta fra sommosse popolari, sanguinose repressioni, guerre mondiali e civili, fino a strutturarsi nella repubblica parlamentare come la conosciamo noi, rovinosamente declinata dopo che il miracoloso boom economico degli anni Sessanta ebbe finito di erodere le fondamenta gettate nei decenni precedenti, col sudore e col sangue, dai nostri nonni e bisnonni.
Ma torniamo alla rivoluzione e alla classe dirigente: perché la crisi del 2008, dalla quale discendono tutti i nostri  mali presenti, ha subdolamente rinfocolato  una brace che si credeva sopita ma che invece ardeva ancora — la lotta di classe, mutata nella forma ma non nella sostanza.
Lo dico convintamente, sulla scorta delle molte conversazioni avute con tante persone nel corso degli ultimi mesi. A sostenere tutti i vecchi partiti — le cui magagne sono state più o meno abilmente camuffate grazie a un sofisticatorestyling — sono immancabilmente tutte quelle persone che hanno ancora qualcosa da perdere e a cui non sono disposte a rinunciare: che si tratti di una pensione decorosa, di un posto (miracolosamente e non si sa per quanto ancora) fisso, di una solidità professionale o accademica, tutti coloro che godono di questi privilegi — davvero incommensurabili , coi tempi che corrono — restano tenacemente attaccati a quella famosa “via vecchia” abbandonando la quale l’incauto “sa quel che lascia ma non sa quel che trova”.
Al contrario, chi non ha più niente da perdere — perché è rimasto senza lavoro, o ha una pensione da fame, o è strangolato da mutui e tasse —guarda con favore alla “via nuova”, consapevole che niente e nessuno potranno peggiorargli la situazione o rendergli la vita più invivibile di quanto già non sia (la media è di un suicidio al giorno, ma sui giornali non lo leggerete).
Così, si scava lentamente ma inesorabilmente un abisso fra chi ostinatamente difende lo status quo per non perdere quel poco (spesso quel pochissimo) che ancora ha e che lo separa orgogliosamente dai nuovi poveri, e chi altrettanto ostinatamente spera e desidera e vuole e si batte perché qualcosa finalmente cambi — ma cambi sul serio e richiuda una volta per tutte la fogna a cielo aperto che è da almeno trent’anni la politica italiana.
Si tratta di un abisso incolmabile, e non lo dico per usare un tòpos retorico: è incolmabile davvero, perché sul suo ciglio, da una parte e dall’altra, stanno due diverse visioni del mondo — con tutti i corollari del caso.
In questo senso Grillo aveva ragione quando diceva che senza il M5S ci sarebbe stata violenza per le strade: perché il nuovo soggetto politico sorto dal (quasi) nulla è riuscito, incanalandolo, a catalizzare il diffuso malcontento popolare in una forma di protesta trasversale e organizzata che è riuscita a entrare nei palazzi del potere per esprimersi conformemente alle leggi vigenti, per dare voce democraticamente agli innumerevoli singoli che, da soli, non avrebbero mai potuto farsi ascoltare. Non è un risultato da poco.
È anche per questo che io, stavolta, andrò a votare. E voterò M5S: per ricostruire bisogna prima abbattere, e sono stanca delle tante ristrutturazioni di facciata che, di fatto, hanno lasciato quei palazzi drammaticamente immutati. Cambiare non è più un’opzione, è un imperativo. Cominciamo a sparigliare le carte — poi, si vedrà.

Napolitano, il capo della banda



Ugo M. Tassinari, “Napolitano il capo della banda”, Edizioni Sì, Cesena.
Recensione a cura di: DAVIDE GONZAGA

“(...) vi è solo biografia. Ogni uomo deve riconoscere l'intero suo compito”.
F. Nietzsche, “Frammenti postumi”.

Il peggiore.
Così doveva intitolarsi l'agile, puntuta e irriverente biografia di Giorgio Napolitano del vulcanico Ugo M. Tassinari.
Per evitare sovrapposizioni, però, con il “peggiore” di recente conio travagliesco per Massimo D'Alema l'editore ha deciso di optare per il comunque efficace “Capo della banda”.
A pagina quattro del libro, pubblicato dalle Edizioni Sì di Cesena, Tassinari scrive:”Se la classe politica italiana è in effetti corrotta e imbelle, Giorgio Napolitano ne è l'esponente più autorevole e rappresentativo”.
Parole forti che aprono squarci interpretativi che si snodano nelle pagine di questa biografia dal forte sapore giornalistico, ma con giudizi che, a mio avviso, non stenteranno a entrare, confermate, nei “veri” libri di storia.
Il libro consta di un centinaio di pagine con un ritmo serrato e cinematografiamente molto dinamico.
Si apre con un ricordo personale dell'autore.
Settembre 1973. Il giovane compagno Tassinari baldanzoso e pieno di belle speranze parte da Napoli per andare alla Festa Nazionale dell'Unità di Milano. Tra peripezie di ogni genere, complice una micro epidemia di colera, il futuro blogger trascorre addirittura alcuni notti in Stazione Centrale prima di riprendere la strada di casa. Dall'altra parte del mondo, intanto, per la precisione in Cile gli aerei di Pinochet bombardano il palazzo della Moncada per destituire Allende.
Dopo qualche giorno alla Chiaia Posillipo, la sezione del Pci più chic di Napoli, arriva Giorgio Napolitano.
Il responsabile culturale del Partito arriva per dettare la linea ufficiale del Partito.
Il gelido, affilato, raffinato ragionare del futuro Presidente. In quella circostanza, chiosa l'autore, Napolitano:”(...) infrange le mie velleità politiche e mi consegna a una lunga pratica ribellistica”.
Napolitano, oggi, ci racconta Tassinari, è lo stesso di quarant'anni fa: l'idea di un potere immobile che trasforma la mummia di sè nel corpo del potere.
Tassinari nei capitoli che seguono ripercorre la vicenda biografica di Napolitano confutando dicerie (la parentela con l'ultimo Re d'Italia), introducendo dubbi (la presunta affiliazione con le logge massoniche) e inserendo la figura del Presidente della Repubblica nel contesto del Nuovo Ordine Mondiale.
Scorrono in queste pagine le figure dei Presidenti che lo hanno preceduto, vengono analizzati i meccanismi elettivi, le diverse circostanze politiche interne e internazionali, come pure le pressioni di lobby e apparati di potere più o meno torbidi.
Ciò che emerge è un quadro complesso che il lettore può cogliere e imprimere nella sua memoria.
Ad accompagnarne le analisi di Tassinari alcuni compagni di viaggio di formazione e collocazione eterogenea: nel capitolo intitolato “Il riformista” troviamo il direttore de Gli Altri Piero Sansonetti; lo studioso Pasquale Chessa compare nei capitoli “Il comunista” e nel capitolo “Monti”; fino allo scomparso Ministro Padoa Schioppa che fa capolino nel capitolo “Prodi”.
Questi sono solo alcuni dei contributi che l'autore ha saputo con acume utilizzare per strutturare l'impalcatura del testo. Va detto che nell'insieme l'estrema eterogeneità non sempre convince, perchè necessariamente ciascuno è portatore di un disegno di mondo che seppur non cozza nella contingenza del ragionamento di fronte a un approfondimento non tarderebbe a risultare contradditorio.
Il giudizio generale del libro è, però, ampiamente positivo in particolare riguardo a tre macroquestioni.
La prima la si ritrova nel capitolo “L'America”.
Tassinari, utilizzando le tesi del professor La Grassa e del blogger Gianni Petrosillo, ricostruisce quello che è stato il “cambio di campo” del Pci degli anni '70 che si sposta sull'Asse Atlantico molto prima, dunque, del crollo del Muro di Berlino e dell'implosione dell' Urss.
Napolitano, leader della corrente migliorista del Pci, nel 1978 vola negli Stati Uniti per una serie di conferenze proprio mentre Moro si trova nel “Tribunale del Popolo” delle Br. Queste conferenze preparate con cura, nella convinzione di molti, sanciscono una vera e propria alleanza tra la sinsitra ormai post comunista e i poteri forti americani fino alla “finta rivoluzione” di Mani Pulite e non solo.
Rimane, a mio avviso, un po' troppo sullo sfondo la figura di Enrico Berlinguer.
Faccio fatica a pensare che il segretario del Pci non avesse un ruolo più decisivo in questo passaggio.
La seconda questione in continuità con la precedente si trova nel capitolo “Monti”.
In questo passaggio forte rimane l'impressione che l'operato, ai limiti del dettato costituzionale, del Presidente della Repubblica risenta del passaggio internazionale della sinistra istituzionale, ormai supina ai voleri e ai desiderata della Ue in prima battuta, ma soprattutto dell'alleato americano tanto da lasciar ipotizzare in molti l'idea che il passaggio dal governo Berlusconi al tecnico Monti rientri nella casistica di un vero e proprio golpe bianco.
Forte dell'opinione dello studioso Chomsky ma in particolare dell'inviato del Sole 24 Ore Augusto Grandi, il nostro ricostruisce con sapienza quei giorni convulsi e le conseguenze che quel Governo ha prodotto nel paese.
La terza questione la si può ritrovare nel capitolo “Antimafia”.
In poche e densissime pagine Tassinari ricostruisce quella che giornalisticamente è passata sotto il nome di “trattativa” tra pezzi dello Stato e la mafia per chiudere la stagione delle stragi di mafia attraverso l'attenuazione dell'articolo 41 bis.
In un susseguirsi di colpi di scena che vedono a un certo punto coinvolto il consigliere giuridico del Presidente Napolitano e suo amico personale D'Ambrosio veniamo introdotti in una selva di imbarazzi, ritrosie e silenzi di personalità di rilievo come l'ex Presidente del Senato ed ex Vicepresidente del Csm Nicola Mancino e l'attuale Presidente del Senato Pietro Grasso.
Il colpo di scena, però, arriva quando si arriva a coinvolgere direttamente Napolitano che viene convocato dal Tribunale di Palermo per spiegare perchè D'Ambrosio poco prima di morire di crepacuore aveva scritto una lettera nella quale si sentiva come: “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Il momento è delicato: tra intercettazioni secretate, battaglie giornalistiche e richieste di chiarimenti politici si arriva alla decisione del Quirinale di sollevare il conflitto di attribuzione ordinando la distruzione delle bobine registrate.
Tassinari conclude, non senza amarezza, che la decisione di estendere alcune guarentigie presidenziali per evitare la deposizione in tribunale va intesa come qualcosa che va ben al di là di quanto previsto dalla Costituzione.
Riemerge, dunque, ancora in questo passaggio quanto raccontato all'inizio da Tassinari a proposito di Napolitano freddo ancorchè lucido dirigente di partito dei lontani anni '70.
Oggi come ieri.








mercoledì 21 maggio 2014

ANDREA A. IANNIELLO: Baudrillard, la "sinistra divina" e il mito



In relazione all’articolo di A. de Benoist, dove quest’ultimo scrive una recensione sull’ultimo libro di Michéa1, ricordo che Michéa ha citato un vecchio libro: J. Baudrillard, La sinistra divina, Feltrinelli, Milano 1986, edizione orig. Francia 1985. Ma è incredibile come rimanga viva ancor oggi la carica polemica di tale agile pamphlet, arte nella quale i francesi eccellono, e Baudrillard in particolare era un maestro2. Quel che, a me, “personalmente”, mi lascia esterrefatto è che son passati (all’anno prossimo) ormai trent’anni, dico trenta lunghi anni, e pare “come se” questo libro non fosse mai stato scritto. Questi lunghi trent’anni caratterizzati dall’“indignazione a giorni alterni”, come qualcuno ha efficacemente scritto, ma sempre per ragioni polemiche ed immediate, come quasi tutto oggi: e sulle polemiche a me interessa non zero, ma sottozero d’entrarci. Dopo che hai vinto in una polemica, cos’è cambiato? Se non è cambiato nulla, se la situazione rimane statica, la polemica è stata inutile. Questo libro è molto utile anche per i tanti “protestatori” dell’ultima ora che, scusatemi, a me ricordano, tantissimo, la “rivolta senza scopo” di cui parlò, in illo tempore, lo stesso Evola.
Ed allora esaminiamo, in breve, questo pamphlet. Vi è una “vis polemica” in senso buono, non le “incazzature” à l’italienne, veri “attacchi d’orso” ciechi e distruttivi, ma la precisa enucleazione, con linguaggio rapido ma sapido, dei punti deboli della sinistra che si pretende “divina” ed entrata nel “Gotha” del “sistema”: e già allora, quasi trent’anni fa! Ma ci rendiamo conto! E poi c’è il passo, detto en passant, che spiega l’“arcano” della vicenda, il perenne fallimento della “sinistra” che, come Poulidor, sta sempre lì lì per vincere, e poi, sotto al traguardo, perde sempre. La sinistra, sostiene Baudrillard, vuole liberarsi nei termini dei valori della borghesia, e dunque inevitabilmente fallisce, per una sua ragione intrinseca. La borghesia sì, al contrario, continua Baudrillard, instaura una cesura sul piano dei valori, quando ha sostituito i valori della casta e della nascita con quelli dello sviluppo e della produzione. Ed allora perché la sinistra ha oggettivamente avuto una sua fase di successo, seguita dal nulla in cui versa da più d’un decennio? Perché la sinistra opponeva al mito dello sviluppo – sì, quello cui oggi tutti rendon omaggio, pur essendo febbraio, lo sviluppo che tutti vogliono “rimettere in moto” ma che il “sistema” stesso ha annullato, ed oggi non è altro se non un simulacro di sviluppo -, la sinistra opponeva, si diceva, al mito dello sviluppo senza fine il mito della fine: ed era la “rivoluzione”, fatto mitico, non storico.
Qui Baudrillard centrò, senza rendersene conto davvero, e portato soltanto dalla sua notevole, ma sapida ed intelligente, “vis polemica”, il nocciolo della situazione, l’essenza del problema. Senza un “mito” non si va da nessuna parte! A ben poco portano le “incazzature”, in nulla si risolvono le critiche della situazione attuale se basate solo su fattori politici ed economici3. No, senza un mito fondante non si va da nessuna parte. E noi viviamo di ed in tali “miti fondanti”, taluni molto aggressivi e per nulla miti. Quello della razionalità tecnico-scientifica, che domina il mondo, è anch’esso un mito. Attenzione: non sto proponendo di abbandonare la razionalità, ma equiparare ogni forma di razionalità a quella tecno-scientifica dominante è un mito, una narrazione fondante. Non è una verità storica. Ma la storia, da sola, non spiega se stessa. La storia implica e necessita di una meta-storia che dia senso ad essa. Né voglio pensare che il mito possa essere la realtà tout court, infatti Jünger sottolineava che il mitico può essere solo come una eruzione temporanea nella struttura del reticolo storico e, per di più, nella forma del “puer aeternus”, piuttosto che in quella dei “padri fondatori”. Accetto, concordo e sottoscrivo: solo una espressione temporanea del mitico e in quelle forme da lui dette (il “puer aeternus”, cioè) può impedire di ricadere nelle aberrazioni del “ritorno pieno e completo al mitico” che il nazionalsocialismo, più di altri, tentò, fallendo4. E tuttavia questa giusta osservazione di Jünger ed il fatto che un ritorno pieno al mitico sarebbe oggi senza dubbio regressivo, non toglie il fatto che noi abbiam bisogno della dimensione mitica per poter operare una opposizione con un senso. Dunque ristretta tale dimensione, indirizzata verso solo certi suoi aspetti, però assolutamente necessaria. Il nostro tempo, schiavizzato dal mito della razionalità tecno-scientifica, è al tempo stesso il tempo delle fughe nell’irrazionale più becero: fra i due fenomeni vi è correlazione diretta. Non è assolutamente un caso che le due cose coesistano.
Oggi sia il mito della “rivoluzione” sia quello della “razza” sono sviliti, chimerico richiamarcisi, nonostante le poche forze che resistono alla “Grande Mutazione” sistemica in atto si richiamino a tali ferrivecchi. Ma di un mito abbiam bisogno. Quale? Taluno ha proposto l’“euroasismo” à la Dugin, che ricordo leggevo una ventina d’anni fa: lo trovo ancora troppo moderno. Non si esce con forme moderna dalla “fine del mondo moderno”5, così come la febbre a trentanove non è una cura della febbre a quaranta ma solo una sua forma più blanda. Solo un mito che tragga le sue origini da qualcosa di non moderno ha oggi una possibilità di realmente incidere sulla e nella situazione. Per “realmente incidere” non intendo strillare o esprimersi o parlare: questo ne abbiamo a iosa, ma nulla cambia nella sostanza. E davvero questa emulsione di parole impotenti è silenzio: non porta che al nulla in cui già viviamo e siamo.
A la recherche du mythe perdu.


1Sul blog idee/inoltre: http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/alain-de-benoist-michea-basta-con-la.html. 
 
2Ricordo, sempre di Baudrillard, Dimenticare Foucault e All’ombra delle maggioranze silenziose. 
 
3Peraltro direi che sono venti o trent’anni di “critiche” che in nulla hanno scalfito il consenso verso un sistema che, come il Saturno del mito (mo’ ce vo’), ormai divora i suoi sottoposti (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Saturno_che_divora_i_suoi_figli). 
 
4Su ciò cfr. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/02/roberto-franco-giorgio-galli-e-il.html. Si tratta di quel genere di cose che i nostri cari amici della “destra rattrappita”, degni compari della “sinistra auto-divinizzatasi” ed entrata nel “Gotha” delle anti-élite al governo del mondo, trovano così difficile ed indigesto da ammettere, forse perché mette in questione certe loro convinzioni. Ma mettere in questione delle convinzioni che, alla prova dei fatti, hanno fallito è la cosa più sana del mondo. Purtroppo viviamo il tempo delle parole che, quali nere arpie svolazzanti, strombazzano ed attraversano il mondo come delle armi e cioè senza quasi più nessun legame con il significato delle parole stesse. E dunque i simulacri della “destra storica” oggi sono usati per sostenere l’esatto contrario di ciò che quelle parole dovrebbero significare e chi, come Haider, ha tentato una qualche attualizzazione di certe tematiche fuori dalle solite retoriche è stato fatto fuori, per lo meno politicamente (qualcuno anche fisicamente, si dice). Ci si è scordati che le parole devono il loro valore al loro senso. Non devono il loro valore all’essere usate strumentalmente, ma noi viviamo in un mondo di simulacri e del “falso radicale”. 
 
5Cfr. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/andrea-ianniello-la-fine-del-mondo.html. 

fonte: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2014/03/la-sinistra-divina-baudrillard-ed-il.html

martedì 20 maggio 2014

ALAIN DE BENOIST: Ribelliamoci alla dittatura del sistema denaro!



INTERVISTA A CURA DI: DAVIDE GONZAGA

E' uscito da poco per Arianna Editrice il volume di Alain De Benoist “La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli”.
Il libro, come argomenta Eduardo Zarelli nella puntuale e rigorosa prefazione, è l'aggiornamento e il completamento di “Sull'orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro”, pubblicato sempre da Arianna Editrice nel 2012.
Il pensatore francese in questo testo concentra la sua attenzione sul completo svuotamento operato in questi anni dei parlamenti nazionali ridotti, ormai, semplicemente a esecutori di ordini della Commissione Europea.
In questo senso vanno pure viste tutte le decisione prese circa il Meccanismo europeo di stabilità, il Trattato sulla stabilità fino alla futura istituzione di un grande mercato transatlantico che di fatto ridurrà l'Europa a vassallo delle decisioni e degli interessi di Washington.

Cominciamo dal titolo del libro. Se un paio di anni fa, professore, Lei sosteneva che eravamo “Sull’orlo del baratro” adesso con “La fine della sovranità” abbiamo oltrepassato quel limite, e dunque lo stato-nazione, con i suoi punti di riferimento stabili, non esiste più?
Viviamo ormai irreversibilmente in un mondo post-moderno?

R- Se consideriamo che lo Stato-nazione è stata la forma politica più tipica dell’epoca moderna, allora si può dire che siamo effettivamente entrati nell’era post-moderna. Lo Stato-nazione era già in crisi negli anni ’30, come aveva sottolineato Carl Schmitt. Nel corso degli ultimi decenni è stato progressivamente privato della sovranità in tutti gli ambiti: la sovranità politica, a causa della sua dipendenza dai mercati finanziari; la sovranità economica, per l’influenza delle multinazionali; la sovranità militare, per la presenza della NATO; la sovranità monetaria, a causa dell’introduzione dell’Euro; la sovranità in termini di budget, per rispondere alle esigenze del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Ciò non sarebbe del tutto grave se la sovranità tolta agli Stati fosse stata trasferita e affermata con maggiore forza a livello sovranazionale. Ma così non è stato: la sovranità è sparita in una sorta di “buco nero”. Ne risulta che le sovranità nazionali non sono altro che un ricordo, mentre la sovranità europea è più che mai introvabile. La sola vera sovranità che esiste oggi è quella del sistema del denaro.

Nel primo capitolo, professore, Lei affronta il tema della mondializzazione.
Ci può spiegare che cosa intende con questo termine e perché è cosi importante tenerne conto per capire oggi le dinamiche del capitalismo e il ruolo che gli Stati hanno in questi anni assunto in relazione a essa?

R-Di solito, distinguiamo la globalizzazione (o mondializzazione) culturale, la globalizzazione tecnologica, quella finanziaria, sociale, ecc. In realtà, tutte queste forme di globalizzazione derivano dalla globalizzazione economica e finanziaria, per la semplice ragione che l’elemento economico è necessariamente l’elemento dominante di una società di mercato, e che, per i liberali, solo l’economia intesa come libero confronto degli interessi di ciascuno è atta a regolare i rapporti tra gli individui. La globalizzazione, dunque, deve essere compresa prima di tutto come una tendenza all’interdipendenza globale e all’interconnessione generalizzata, in primo luogo per quanto riguarda i mercati. La globalizzazione tende a integrare i mercati locali in un grande mercato planetario sopprimendo le misure di protezione di cui godevano in precedenza e sottoponendoli alla concorrenza internazionale. La globalizzazione, in altri termini, non è altro che il processo storico-geografico di progressiva espansione del capitalismo su scala mondiale, l’espansione planetaria del principio del libero mercato.



In questi anni uno dei temi forti che ha messo in ginocchio le economie di alcuni Stati dell’Ue è stato certamente il debito pubblico. Come è stato possibile, a suo avviso, che questi Paesi siano stati costretti ad adottare politiche di rigore con tagli profondi alla sanità, all'istruzione, ai servizi sociali, ai trasporti e, nonostante questo, la voragine del debito pubblico non solo non tende a diminuire ma addirittura aumenta?
Al riguardo ci sono precise responsabilità? E si possono evidenziare delle cause precise per tutto ciò?

R- La politica del debito pubblico è una politica di tipo usuraio, la cui causa prima è l’indipendenza che è stata accordata alle Banche Centrali. A partire dal 1973, allo scopo di combattere l’inflazione, gli Stati hanno impedito a se stessi di chiedere prestiti alle proprie banche centrali (Banque de France, Banca d’Italia, ecc.), che fino a quel momento prestavano denaro agli Stati a tassi molto bassi o nulli. Per finanziare i loro deficit, gli Stati si sono quindi posti alla dipendenza degli istituti bancari e dei mercati finanziari, che concedono prestiti a tassi molto più elevati (mentre tali istituti bancari possono, loro sì, rifornirsi dalle banche centrali a un tasso molto basso). L’indipendenza della Banca Centrale Europea (BCE) ha poi coronato il tutto.
Ben inteso, le banche richiedono un tasso di interesse tanto più elevato rispetto a quanto loro stesse ritengano le economie nazionali più o meno in cattivo stato. Per ottenere tassi di interessi più bassi, gli Stati si sottomettono dunque ai requisiti delle organizzazioni internazionali che, conformemente alla dottrina liberale, pensano che il risanamento delle finanze pubbliche passi per delle “cure di austerità”. In realtà, ciò che si osserva è il risultato contrario. Le politiche di austerità provocano un abbassamento del potere d’acquisto, quindi della domanda, quindi dei consumi, quindi della produzione, e di conseguenza un aumento della disoccupazione, della deindustrializzazione e del numero di delocalizzazioni. In fin dei conti, le entrate fiscali diminuiscono invece di aumentare. Per assolvere i loro debiti, gli Stati devono allora continuare a chiedere prestiti al settore privato, anche solo per finanziare gli interessi su tali debiti. Questi nuovi prestiti appesantiscono di nuovo il debito pubblico, facendone aumentare ancora gli interessi. La Francia, per esempio, deve chiedere in prestito ogni anno 50 miliardi di euro al solo fine di rimborsare gli interessi del suo debito pubblico (è la voce di budget più consistente dopo l’educazione pubblica). Si entra così in un ciclo senza fine.

L'esplosione della bolla finanziaria, provocata dalla crisi dei subprime, ha avuto conseguenze così gravi per l'economia reale da indurre i governi della zona Euro a firmare il trattato di istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) e il TSCG che obbliga gli Stati a conseguire una serie di rapporti molto rigidi tra PIL e debito pubblico. Al di là degli aspetti tecnici di tali provvedimenti qual è la "ratio" che caratterizza queste decisioni, che vengono presentate dalle autorità dell'Ue come necessarie?

R-Le disposizioni del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mirano a imporre a tutti gli Stati le stesse regole in materia di indebitamento e di deficit pubblico, regole che sono praticamente inapplicabili perché, nella maggior parte dei paesi europei, la loro applicazione sfocerebbe in un rafforzamento delle politiche di austerità che sarebbe politicamente e socialmente insostenibile.

In questi anni, dalla Grecia all'Italia si sono avvicendati governi tecnici che hanno fatto dell’austerità il presupposto imprescindibile di ogni decisione. Di fatto però questa politica economica ha creato povertà e disoccupazione (specie giovanile), ha costretto alla chiusura centinaia di migliaia di imprese (con numeri che si registrano di solito dopo una guerra) ha comportato tagli, ha imposto riforme del mercato del lavoro cancellando diritti conquistati dopo anni di durissime lotte sociali. Tutto questo in nome del dogma liberista secondo cui i mercati, in quanto sarebbero "intrinsecamente" efficienti, riporteranno in positivo, prima o poi, la crescita dell'economia dei Paesi che attualmente attraversano una grave crisi economica e sociale. Nel frattempo, però cresce il malcontento verso l'Euro visto come il nemico da abbattere. A Suo avviso l'uscita dall'Euro sarebbe la soluzione per uscire da tale crisi?

R-Sono abbastanza combattuto su questo punto. L’istituzione di una moneta unica non era in sé una cattiva idea, tanto che si poteva sperare che l’Euro si imponesse progressivamente come moneta di riserva internazionale rispetto al dollaro. Il problema è che la Germania ha preteso (e ottenuto) che il valore dell’Euro fosse fissato allo stesso livello del vecchio Marco tedesco, rendendo così l’Euro fin da subito inutilizzabile per i paesi il cui livello economico era nettamente inferiore a quello della Germania. Ora, una moneta unica non può semplicemente essere utilizzata come moneta nazionale da paesi con livelli economici totalmente diversi. Anche in rapporto al Dollaro, si vede oggi come l’Euro sia sopravvalutato. In queste condizioni, l’istituzione dell’Euro non poteva che aggravare gli effetti della crisi finanziaria del 2008 e della crescita vertiginosa dell’indebitamento pubblico che tale crisi ha provocato. Nonostante ciò, bisogna comunque ricordare come i paesi europei che non hanno adottato l’Euro, come la Gran Bretagna, non si trovino oggi in una situazione migliore (per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito e i deficit commerciali hanno aggiunto un livello fenomenale, quando la Federal Reserve americana dispone, in materia di produzione di moneta, di mezzi che la BCE non ha).
Un ritorno alle valute nazionali, accompagnato a una svalutazione di queste monete, potrebbe aiutare a uscire dall’impasse. Ma potrebbe anche provocare una brusca inflazione, di entità difficile da misurare. Con il debito pubblico ancora formulato in Euro, questo verrebbe di nuovo appesantito. Un paese che uscisse unilateralmente dall’Euro si ritroverebbe inoltre piuttosto isolato. La situazione sarebbe diversa se più paesi decidessero di uscire contemporaneamente dall’Euro, ma nell’immediato non si capisce bene quali paesi siano decisi a farlo. Un’altra soluzione sarebbe una svalutazione dell’Euro, ma la BCE non ne vuole sapere. Infine, va da sé che l’abbandono dell’Euro non cambierebbe nulla della natura profonda del sistema capitalista. In ogni caso, se la moneta unica dovesse sparire, ritengo che l’Euro sarebbe da mantenere come moneta comune per gli scambi finanziari con i paesi non europei.

Ruolo subalterno dei parlamenti nazionali nonché del parlamento europeo rispetto alla Commissione Europea e alle lobby della finanza. Depressione economica. Disoccupazione di massa in special modo giovanile.
A fronte di tutto questo da un lato pare manifestarsi una rabbia sorda e si ha l'impressione che prevalga una sorta di rassegnazione cupa. Forse perché manca quel senso di fiducia nel legame comunitario che la società di mercato e l'individualismo imperante hanno contribuito a indebolire se non a spezzare del tutto. Dall'altro, però, crescono partiti e nascono movimenti politici che la stampa ha immediatamente bollato come “populisti”. In Francia il FN di Marine Le Pen, in Inghilterra lo Ukip di Nigel Farage, in Italia il M5S di Beppe Grillo e la stessa Lega di Matteo Salvini.
Che cosa pensa di questi fenomeni?

R-La comparsa e il successo dei movimenti «populisti» in Europa è la conseguenza diretta di una crisi generale della democrazia rappresentativa, le cui cause sono da cercare nella cancellazione della divisione destra-sinistra e nell’ascesa di una “Nuova Classe” politica dalla quale il popolo è tagliato fuori. Nel corso degli ultimi decenni, la gente ha visto succedersi governi “di destra” e “di sinistra” che praticavano la stessa politica e non riuscivano, né gli uni né gli altri, a risolvere i problemi concreti. In parallelo, la globalizzazione ha accelerato i processi di immigrazione, disoccupazione, le delocalizzazioni, innescando così una catena di “terrori morali”. Avendo constatato che i grandi partiti classici non li rappresentano più, che l’alternanza ha sostituito l’alternativa, il popolo si è allontanato dalla “Nuova Classe”. Alcuni hanno trovato rifugio nell’astensionismo, altri si sono rivolti ai movimenti “populisti”, visti come “l’ultima chance”.
Ma bisogna anche sottolineare che, dal punto di vista della scienza politica, il “populismo” è diventato anche una categoria “minestrone” che comprende un po’ tutto, e allo stesso tempo oggetto di repulsione. In realtà, il populismo non è un’ideologia, bensì uno stile. Tale stile si può associare agli orientamenti ideologici più vari. Se si guardano da vicino i diversi movimenti che Lei cita, si vede comunque che, al di là di quanto possano avere in comune, emergono anche profonde differenze. Il Fronte Nazionale in France, per esempio, ha un programma economico e sociale nettamente “orientato a sinistra”, mentre la maggior parte degli altri partiti populisti sono decisamente dalla parte dell’economia capitalista liberale. Allo stesso modo, il FN è accanitamente giacobino e antiregionalista, mentre la Lega Nord e il Vlaams Belang in Belgio hanno opinioni totalmente opposte. E si potrebbero fare molti altri esempi.

In un capitolo molto denso e fondamentale del suo testo Lei ricostruisce, in modo assai efficace, sia sotto l'aspetto storico sia sotto quello economico, le tappe di un processo che dovrebbe portare alla nascita del Mercato Mondiale Transatlantico.
Ci può spiegare perché è così importante e perché è così pericoloso?

R-Il 14 giugno 2013, i Governi degli stati membri dell’UE hanno conferito ufficialmente alla Commissione Europea il mandato per negoziare con il governo americano la creazione di un grande mercato comune transatlantico, con il nome di Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Trasantlantic Trade and Investment Partnership, TTIP). Da allora, il negoziato prosegue senza che il grande pubblico ne sia informato. L’obiettivo è di creare, procedendo a una deregulation generalizzata, una gigantesca zona di libero scambio corrispondente a un mercato di più di 800 milioni di consumatori, alla metà del PIL mondiale e al 40% degli scambi globali. Per gli europei, che si ritroverebbero così definitivamente legati agli USA, questa è un minaccia da temere per almeno due motivi.
Il primo è che il TTIP si dà come obiettivo non solo di eliminare i diritti doganali (cancellando così qualsiasi speranza di istituire un protezionismo europeo), ma anche di abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie” (BNT), cioè l’insieme delle norme destinate a rappresentare delle “barriere” al libero commercio. Più precisamente: le norme costituzionali, legali e regolamentari che, in ciascun paese, potrebbero limitare la libertà commerciale intesa come libertà fondamentale. L’accordo prevede che, in tutti gli ambiti, la regola sarà quella di allinearsi al “livello più alto di liberalizzazione esistente”, che significa che la “convergenza” avverrà con l’allineamento delle norme europee alle norme sociali, salariali, ambientali, sanitarie in vigore negli USA. In ambito agricolo, ciò dovrebbe portare all’arrivo massiccio sui mercati europei dei prodotti a basso costo del business agroalimentare americano: manzo agli ormoni, volatili lavati nella clorina, OGM (Organismi Geneticamente Modificati), animali nutriti con farine animali, ecc. Tutte le norme sanitarie europee potrebbero così essere condannate come “barriere commerciali illegali”.
Seconda minaccia: la creazione di un meccanismo di “arbitrato delle controversie” tra Stati e investitori privati. Questo meccanismo, detto di “protezione degli investimenti”, deve permettere alle compagnie multinazionali e alle società private di portare davanti a un tribunale ad hoc gli Stati o le collettività territoriali in caso di modifiche alle legislazioni che siano ritenuto dannose per i propri interessi o che possano limitarne benefici, allo scopo di ottenere un risarcimento. La controversia sarebbe arbitrata in modo discrezionale da giudici o giuristi privati, al di fuori delle giurisdizioni pubbliche nazionali o regionali, e secondo il diritto americano. L’ammontare del risarcimento sarebbe potenzialmente illimitato (vale a dire che non ci sarebbe limite alle sanzioni che un tribunale potrebbe imporre a uno Stato a beneficio di una multinazionale) e la sentenza non sarebbe soggetta ad appello.

Per chiudere è ormai è un luogo comune affermare la superiorità dell'Economico rispetto al Politico. Tuttavia, il Politico non designa solo l'attività di governi, parlamenti o partiti ma anche e soprattutto la funzione politica e strategica in generale. Del resto, il fatto stesso che si parli di "supremazia" dell'Economico solleva la questione della funzione politica dell'Economico e quindi, oggi, del ruolo strategico dei grandi gruppi finanziari.
In Italia è stato un pensatore di formazione marxista (benché ciò possa apparire paradossale), ossia Gianfranco La Grassa, a elaborare un impianto teorico basato proprio sulla necessità di un superamento di una riduttiva e fuorviante visione economicistica, al fine di comprendere la decisiva funzione politica degli "strateghi del capitale" della potenza predominante.
Sull'importanza della funzione politico-strategica dell'Economico, come una specie di Politico a un tempo mistificato e mistificante, Lei è d'accordo?

R-L’ho già accennato sopra: la sola sovranità che esiste ancora oggi è quella del sistema finanziario, per dire a quale livello l’Economico ha superato il Politico. Ma Lei ha ragione nel sottolineare che l’economia ha anche una funzione strategica, le cui conseguenze sono inevitabilmente politiche. Gianfranco La Grassa è in effetti tra coloro che hanno seriamente studiato la questione, specialmente ne “Gli Strateghi del Capitale” (2006), “L’altra Strada. Per uscire dall’impasse teorica” (2013), ecc., ma non è il solo. Per l’Italia, si può ugualmente citare l’amico Costanzo Preve, filosofo neomarxista venuto recentemente a mancare. In Germania, l’opera di Robert Kurz sulla “critica del valore” (Wertkritik) merita di essere studiata ed esaminata. Questo aspetto “strategico” è tanto più importante che la Forma-Capitale, oggi più che mai di fronte al problema della “svalutazione del valore”, è sempre alla ricerca di modi nuovi che le consentano di andare più lontano nel processo di sovra-accumulazione del capitale finanziario, che è la sua ragion d’essere.


Si ringrazia la professoressa Beatrice Soriani per la preziosa opera di traduzione.