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lunedì 26 maggio 2014

ANTONELLO CRESTI: Il popolo italiano consegna le chiavi di casa alla Troika



Mentre ovunque in Europa vincono le ragioni della protesta e della alternativa politica e culturale gli italiani ci dicono, quantomeno coloro che si sono recati a votare, che la crisi è immaginaria, che l’austerity è una manna per le famiglie e che, tanto per guardare allo scenario italiano, la sospensione dei diritti democratici dal Novembre 2011 a oggi (tre governi da allora NON eletti dal popolo) rappresenta l’apoteosi della libertà di una nazione ed anche una ricetta insuperabile per rilanciare lo sviluppo e l'equità sociale.
Si può naturalmente discutere se chi ha votato negli altri stati europei abbia affidato le chiavi dell’alternativa alle persone giuste, ed almeno in alcuni casi è piuttosto evidente che non è  stato così. Ma un segnale, anche se in maniera scomposta, è stato dato.
In Italia no e credo francamente che invece che scomodare le categorie della analisi politologica sia necessario fare riferimento alle tare storiche di un popolo che ama essere assoggettato, lamentarsi senza fare assolutamente nulla perché le cose cambino, un popolo soprattutto privo di slancio e di grandezza secondo cui il massimo principio, come insegnano i genitori borghesi ai propri figli, è “non farsi riconoscere e non dire cose sconvenienti”.
E’ dunque la vittoria di Matteo Renzi (una vittoria da noi pronosticata nel lontano 2012 quando il popolo mutante del PD l’aveva eletto a “male assoluto”), ma soprattutto è il vero trionfo della DC, intesa come mentalità di branco, come partito dell’impiegato Fantozzi che china la testa, magari inveisce con la moglie quando torna a casa, ma poi la nazionale vince una partita, gli si promette qualche cazzata oppure gli si danno 80 euro pre-elettorali (…) e tutto torna ad essere roseo. Vite inutili, prive di valore.
Gli effetti di questa mentalità perniciosa per chiunque voglia provare ad immaginare una vita  migliore saranno disastrosi non tanto sull’elettorato di ordine, la rediviva maggioranza silenziosa che si vergogna del proprio voto tanto da non confessarlo ai sondaggisti, quanto sull’eventuale spazio di alternativa. Per dirsela chiara chiara è facile immaginare che da oggi l’unico movimento che poteva incarnare, per numeri e forza, un nuovo paradigma politico, ossia il Movimento 5 Stelle sarà sottoposto ad un fuoco di fila che ne condannerà “estremismo, violenza, urla etc… etc…” indicando la via per uscire dall’impasse, ossia una normalizzazione, divenire una pacata coscienza critica della politica vecchio stampo, opzione che se fosse seguita dal movimento ne segnerebbe la fine politica immediata. Certo è vero che per un popolo di vigliacchi e servi capaci di consegnare la chiavi di casa in maniera così smaccata alla troika probabilmente sarebbe premiante vedere un M5S fare alleanze col PD, ma politicamente sarebbe la conclusione di un percorso.
Mi ero illuso, in questi giorni, vedendo decine di intellettuali (intellettuali, non pennivendoli di regime…), persone che si astenevano da lunghissimo tempo, impegnarsi per un voto al movimento guidato da Grillo, ma è facile adesso rendersi conto che questa era solo la dimostrazione che una politica portata avanti in maniera giustamente intransigente sia patrimonio solo di una minoranza.
Nanni Moretti nel fatto di trovarsi d’accordo con una minoranza amava crogiolarcisi ai tempi dell’ascesa berlusconiana, adesso cambierà certamente idea (sia pur con l’”odiato” Renzi), noi invece ritenevamo e riteniamo che un movimento di alternativa debba lottare per conquistare una egemonia. Ma questo deve avvenire senza lasciare indietro nulla delle proprie specificità e senza cadere nel trucco di diventare “utile idiota” al servizio del sistema come è capitato negli anni a miriadi di formazioni di sinistra come di destra.

Mentre l’Europa si risveglia ci attendono qui tempi durissimi, nessuno è più autorizzato a lamentarsi poiché ancora una volta gli italiani la testa dentro il cappio l’hanno messa di loro spontanea volontà. Per quelli come noi non resta che l’espatrio, sono troppe le battaglie perdute e gli anni di totale marginalità.

sabato 8 marzo 2014

GIACOMO GABELLINI: U.S.A ed Europa, due entità antitetiche




Un luogo comune generalmente diffuso parte dall’assunto che Europa e Stati Uniti affondino entrambi le radici in un medesimo terreno storico e culturale, laddove si tratta di due entità distinte e profondamente antitetiche.
Gli Stati Uniti nacquero infatti da una volontà di rottura con l’Europa, dall’intento di scrollarsi di dosso l’ingombrante e disprezzata eredità del Vecchio Continente.
Tale volontà di riscatto si riscontra non solo dalla linea filosofica di cui è innervato il principio della “Dottrina Monroe”, enunciata dal Presidente James Monroe nel 1823 – che l’aveva a sua volta ripresa da un concetto, rivisitato e corretto, elaborato da John Quincy Adams - con l’intento di invitare i paesi europei a guardarsi bene dall’intervenire negli affari interni al continente americano, ma anche dagli scritti infuocati di autorevoli filosofi e letterati nordamericani come Ralph Waldo Emerson - che ebbe a sostenere che «Troppo a lungo abbiamo ascoltato le raffinate Muse dell’Europa» - e dalla riluttanza  del popolo statunitense a scavare indietro nel tempo.
Molti osservatori hanno attribuito tale indifferenza nei confronti del passato alla breve durata relativa dell’esistenza degli Stati Uniti, ma degna di maggior credito pare l’ipotesi secondo cui lo sradicamento dalla dimensione temporale sia percepita ovunque negli USA come condizione basilare per la libera espressione delle libertà individuali.
Questo fattore centrale ha portato George Popper ad indicare gli Sati Uniti come il modello magistralmente compiuto di “società aperta”.
Mentre la cultura europea trae origine dal pensiero greco sviluppatosi nei litorali mediterranei più di due millenni e mezzo fa, la “società aperta” statunitense si fonda sul mito della frontiera e sull’oltrepassamento di essa finalizzato alla conquista dello spazio.
Le forme che ha assunto questa ideologia sono ben note, specialmente in relazione al rapporto dei padri fondatori (coloni puritani) e dei loro seguaci con le popolazioni indigene.
Nel 1633, dopo che un’epidemia di vaiolo aveva fatto strage di pellerossa i puritani resero immediatamente omaggio a Dio per aver calato dal cielo questa manna.
Negli anni successivi vennero sfruttate e fomentate le divisioni tribali - divide et impera - nella speranza che gli indigeni si decimassero tra di loro.
Sulle coste del Connecticut, i Pequot furono annientati dai Narragansett, che a loro volta furono sconfitti dagli Uncas.
Contrariamente a quanto si ritenga comunemente, furono gli sceriffi locali, sollecitati dalle autorità politiche, ad ideare e la pratica di esigere, dietro congruo compenso, la consegna dello “scalpo” per ogni indiano ucciso.
Nell’arco del ‘700 i Delawere, gli Shawnee, i Mingos, i Mohawk, gli Uroni e gli Irochesi furono massacrati con l’impiego delle più disparate metodologie di sterminio.
I Delawere, ad esempio, furono falcidiati da un epidemia di vaiolo diffusasi tramite coperte infette consegnate loro appositamente dal reggente di Fort Puitt nel 1763.
Con le tribù indiane vennero firmati accordi i cui termini furono poi regolarmente violati finché queste non si ribellassero.
Quando ciò accadeva, lo sterminio era la prassi comunemente adottata.
Dall’intruglio micidiale di puritanesimo e filosofia dei lumi di cui i padri fondatori degli Stati Uniti erano impregnati scaturì un’ideologia messianica che consentì loro di brandire la spada della divina volontà per perpetrare eccidi, deportazioni e massacri di ogni sorta.
Benjamin Franklin, capostipite di essi, ebbe a scrivere che «Se la Provvidenza ha il disegno di distruggere questi selvaggi per lasciare spazio ai coltivatori della terra, non sembra inverosimile che l’alcool sia il mezzo da impiegare per riuscirci. Grazie ad esso, sono già state distrutte tutte le tribù che, in altri tempi, abitavano la regione costiera».
Espressioni di tale messianesimo si riscontrano tra le righe di tutti gli altri padri fondatori;
George Washington comparò a suo tempo gli Stati Uniti a Gerusalemme, una nazione “concepita dalla Provvidenza per essere il teatro dove l’uomo deve raggiungere la sua vera statura”.
Thomas Jefferson li qualificò come «Una nazione universale che persegue idee universalmente valide».
John Quincy Adams gli fece eco, definendoli «Una Repubblica pura e virtuosa che ha il destino di governare il globo e di introdurvi la perfezione dell’uomo».
Un messianesimo, insomma, consacrato ad anima di una nazione e codificato sul basamento del monumento simbolo degli Stati Uniti, quella Statua della Libertà pronta ad accogliere “I senza casa e le vittime della tempesta” che seguendo la fiaccola illuminata avrebbero inesorabilmente raggiunto la “Soglia delle porte d’oro”.
La solerzia con cui i pionieri allargavano le frontiere nazionali spinse i Miami e i Creek a migrare in massa ad ovest verso la fine del ‘700, ma nemmeno la fuga li salvò.
Nel 1830, per contrastare i Cherokee che avevano tentato con discreto successo di integrarsi nella società dei conquistatori, il Congresso approvò il Removal Act in base al quale l’esercito fu incaricato di deportane i membri dalla Georgia all’Oklahoma.
Svariate migliaia di membri della tribù morirono nel corso dell’operazione, suscitando sdegno in seno all’intera galassia pellerossa.
Ciò spinse il governo ad adottare, nel 1840, un trattato che fissava nel confine del Mississipi la frontiera indiana permanente ma la scoperta di nuovi giacimenti di oro in California ne vanificò i vincoli, portando orde di persone a spingersi verso ovest.
La conquista del “far west” da parte dei migranti fu accelerata dalla costruzione della ferrovia, la cui realizzazione impiegò numerosi operai per sfamare i quali vennero abbattuti milioni di bisonti.
Dal momento che i bisonti costituivano una delle fonti di approvvigionamento principali per i pellerossa, la decimazione di essi provocò un’enorme carestia che spinse numerose tribù ad insorgere contro i coloni.
La repressione delle forze governative fu di inedita brutalità, causando immani massacri come quello di Sand Creek (novembre 1864) e del Washita (novembre 1868) e l’annientamento degli Arapaho, dei Potawatani, dei Nasi Forati, dei Comanche e dei Kiowa.
Il generale George Custer e i suoi uomini caddero invece in un’imboscata dei Sioux comandati da Cavallo Pazzo sulle rive del fiume Little Big Horn nel giugno del 1876, compiuta come rappresaglia rispetto alla strage del Washita di cui Custer si era reso responsabile.
La ritorsione di Little Big Horn inasprì ulteriormente i toni dello scontro, spingendo il generale William Sheridan a lanciare la crociata antipellerossa sullo slogan «Il solo indiano buono è un indiano morto».
La soverchiante potenza dell’esercito governativo schiacciò le ultime resistenze indiane nel 1890, quando Cavallo Pazzo, ultimo capotribù guerriero rimasto, fu ucciso assieme ai suoi trecento compagni, tutti disarmati, sotto i colpi di mitragliatrice sparati dall’esercito statunitense.
La fine di Cavallo Pazzo e dei suoi Sioux coincise con il tramonto di un intero popolo, immolato sull’altare del progressismo messianico elaborato dai gloriosi padri fondatori e portato avanti dai loro eredi, in merito al quale uno dei giganti del liberalismo, quell’Alexis De Tocqueville noto quasi esclusivamente per aver celebrato la “democrazia in America”, ebbe a scrivere che «L’espropriazione degli indiani avviene spesso, ai nostri giorni, in maniera regolare e, per così dire, legale. Gli spagnoli, con mostruosità senza pari e coprendosi di un’onta incancellabile, non sono riusciti a sterminare la razza indiana e neppure a impedirle di condividere i loro diritti.

Gli americani degli Stati Uniti hanno raggiunto questo duplice risultato tranquillamente, legalmente, filantropicamente. Non si potrebbe distruggere gli uomini rispettando meglio le leggi dell’umanità».

domenica 2 marzo 2014

CARLO FORMENTI: Lista Tsipras, l'ennesimo buco nell'acqua


Dire che la Lista per Tsipras, così come viene configurandosi, rischia di essere un’ennesima occasione mancata per rilanciare una sinistra italiana degna di questo nome è un eufemismo. Quello che si sta prospettando è una sorta di Ingroia2, o Arcobaleno3, affiancato da un’area neoliberale rappresentata dal “Partito dei Professori” di ALBA e da alcuni intellettuali (come Barbara Spinelli e Paolo Flores D’Arcais) che fanno capo a testate come Micromega e il Fatto Quotidiano.
Ma non si voleva arrivare appunto a una lista unitaria in grado di proiettarsi al di là delle vecchie coalizioni dei partitini della sinistra radicale? Sì, ma l’idea era che questo progetto unitario conservasse chiari tratti di sinistra e incarnasse una forte scelta politica contro questa Europa, espressione antidemocratica degli interessi del capitale finanziario globale. Di tutto questo non mi pare resti traccia alcuna, a partire dal simbolo, una sorta di tappo di bottiglia, da cui è stata espunta persino la parola sinistra (a scanso di ogni equivoco, caso mai qualcuno ancora nutrisse illusioni in merito) e nel quale l’unica connotazione ideologica è affidata al nome del leader (si sa, siamo in tempi di personalizzazione della politica) e al colore rosso dello sfondo sul quale il nome si staglia.
Ma ad apparire intollerabili sono soprattutto altri due fatti: 1) l’idea di Europa che emerge dal dibattito politico fra i promotori della lista; 2) la discussione sulle modalità di scelta dei candidati. I primi segnali di un “sequestro” del dibattito su quale Europa vorremmo al posto di quella della BCE e della Troika, si sono avuti con la “discesa in campo” di Vendola e Sel, cui si sono affiancati, pur non appoggiando (almeno finora) esplicitamente la candidatura Tsipras, autorevoli esponenti della sinistra Pd, come Fassina e Civati che, in dialogo con la Spinelli e Gianni Alfonso, prospettano l’idea di una “terza via”, né mercatista né euroscettica.
Da qualche decennio (Blair docet) abbiamo sperimentato sulla nostra pelle dove portino le “terze vie”; nel caso in questione credo portino a far smarrire ai cittadini europei la consapevolezza che tanto le attuali istituzioni quanto l’attuale configurazione del sistema produttivo e finanziario europei sono irriformabili, e che, se si vogliono difendere gli interessi delle classi subalterne, questa Europa può solo essere distrutta per costruirne dal basso un’altra sulle sue ceneri. Ma questi, si sa, sono pericolosi discorsi sovversivi, cui nessuno dei Professori che hanno preso saldamente in pugno le redini del progetto desidera lasciare spazio. Quindi, per evitare falle nel dispositivo, occorre stabilire un ferreo controllo anche sulla scelta dei candidati, e qui veniamo al secondo punto.
Il testo (se ho ben capito redatto da Guido Viale per conto di ALBA) che fissa alcuni punti di principio in merito è un vero capolavoro di ipocrisia. Dopo i soliti peana sulla democrazia dal basso e sul ruolo dei movimenti (che però non sono mai convocati a parlare in prima persona) si dice che vanno accuratamente evitate soluzioni assembleari, primarie e quant’altro perché “manipolabili” dai partitini (cioè i professori si arrogano il diritto di vegliare sulla democrazia perché non “divori se stessa?”). Poi vengono fissati criteri rigorosamente antipartitici in onore al sentimento populista diffuso – tanto per far vedere che non si è da meno di 5Stelle – dove non è difficile capire che, quando si parla di non ricadere nel minoritarismo, il vero bersaglio sono le sinistre radicali e antagoniste più che l’idea di partito in sé. Quindi no a chi abbia ricoperto cariche istituzionali o ruoli politici all’interno di questo o quel partito. Unica eccezione i sindaci.
E perché mai?! Non siamo pieni di sindaci sotto inchiesta per collusione con la mafia, corruzione e quant’altro, esiste forse un solo motivo perché i sindaci debbano essere apriori considerati più affidabili degli altri politici (che non sia mera demagogia populista: sono più “vicini” agli elettori e consimili banalità). E i criteri in positivo? Quelli delle macchine elettorali che ormai mettono tutti d’accordo, in onore delle esigenze di spettacolarizzazione/ personalizzazione della politica: scegliere “nomi forti” che possano attrarre il maggior numero di voti possibile. Proviamo a riassumere. Chi c’è dentro questo progetto?
Un’alleanza fra Professori e intellettuali europeisti che è un curioso miscuglio di populismo di sinistra e riformismo socialdemocratico; i resti compressi e messi in un angolo dei partiti della sinistra radicale e un po’ di nouveaux philosophes postoperaisti felicemente avviati ad arruolarsi nel campo degli europeisti liberali di sinistra: Negri e Casarini (che per la verità non è philosophe né nouveau) hanno già dato il loro appoggio, e da poco si è aggiunto il mio vecchio amico Franco Bifo Berardi che, secondo quanto leggo in una mail che mi invita a sostenerne la candidatura, avrebbe accettato di impegnarsi solo dietro insistenze dei compagni e per “spirito di servizio” nei confronti dei movimenti (ho riso per mezz’ora leggendo quella formula da vecchio notabile Dc che sicuramente gli è stata indebitamente attribuita, nel senso che avrebbe potuto usarla solo per provocazione dadaista).
Una bella ammucchiata da far impallidire tutti i vecchi Arcobaleni e che, temo, avrà scarso appeal nei confronti degli elettori delle classi subalterne incazzati con l’Europa i quali, di fronte a questo pasticcio, saranno fortemente tentati di astenersi o di votare per Grillo. A meno che i compagni dei movimenti trovino le energie per entrare con i piedi nel piatto dei professori e imporre candidature che siano riconoscibili non in quanto “nomi eccellenti” ma in quanto bandiere delle lotte.

giovedì 6 febbraio 2014

PIERO VISANI: Cercasi idee forti disperatamente




Una delle caratteristiche più drammaticamente negative dei periodi di decadenza è il venir meno di "idee forti", di quelle idee, cioè, che possono cambiare il destino dei popoli. C'è molta agitazione a livello politico, ma poca o punta a livello metapolitico, perché l'agenda setting dei temi su cui la nostra attenzione viene quotidianamente sollecitata è in mano alle ideologie dominanti e ai "poteri forti" che le diffondono, per cui, nel bel mezzo di una crisi epocale della vecchia Europa, si sentono slogan e parole d'ordine la cui pochezza è addirittura miserevole.
     Dappertutto esistono forze di opposizione, più o meno consistenti, ma disperante e tragica è la loro inconsistenza politica e soprattutto culturale, visto che sono al cento per cento inserite nel mainstream politico-culturale e non paiono non dico avere voglia di distaccarsene, ma neppure rendersi conto che vi sono immerse fino al collo e spesso ben oltre il collo. Le indicazioni di carattere politico che ci vengono in questa fase sono, nella maggior parte dei casi, equiparabili al tentativo di curare una polmonite con un'aspirina, dicendo nel contempo al malato "non ti preoccupare, non è niente, è un semplice rialzo febbrile!".
       Sicuramente è un problema, un problema di statura politica. Il pluridecennale rifiuto di dare un benché minimo rilievo al merito e la costante preoccupazione di selezionare sempre e soltanto degli yesmen hanno prodotto effetti devastanti proprio in quelle forze che alla cultura dominante avrebbero dovuto opporsi e invece l'hanno fatta propria, respirata, sussunta, fino al punto di diventare più realiste del re. Gente che ha imparato ad edulcorare qualsiasi affermazione, qualsiasi concetto; che parla usando i codici comunicativi e le categorie concettuali del nemico, e neppure se ne accorge... Gente che ritiene che fare politica sia ottenere una poltroncina e che, quando ha avuto la fortuna di occupare una poltrona ha avuto una sola preoccupazione: omologarsi alla cultura dominante, non distruggerla o quanto meno minarla alla radice. Non dico che lo abbia fatto apposta, non credo si sia trattato di viltà, ma di semplice, TOTALE insipienza,  da perfetti idioti.
      Qualcuno ritiene che le "selezioni alla rovescia" del personale politico facciano male solo agli altri: no, fanno male a tutti e, se guardate le derive che hanno investito la Destra e la Sinistra italiane, nessuno può certo cantare vittoria. A Destra, nella Destra parlamentare, il Nulla, come sempre, più di sempre. A Sinistra, Matteo Renzi che diventa il segretario di quello che fu il partito comunista... Per non parlare di quello che accade in Europa, dove si attribuiscono virtù “rivoluzionarie” a un soggetto palesemente reazionario come Marine Le Pen, sempiterno concentrato destroide di rabbie, insoddisfazioni e incapacità di guardare positivamente al futuro.
       Molto accentuato, in tutti questi gruppi, è il complesso di inferiorità nei riguardi delle culture dominanti, per cui, invece che decostruirne di continuo i codici comunicativi, i presunti “politici” di opposizione li fanno sistematicamente propri e così diventano perfettamente funzionali al sistema, una sorta di lunatic fringe che del sistema stesso garantisce “democraticità” e disponibilità a far sentire voci “alternative”. In realtà, la prima cosa da fare sarebbe proprio destrutturare linguaggio e contenuti del nemico. Scrivo “nemico” non a caso, ma perché sono da sempre fedele al principio schmittiano per cui “l’essenza del Politico è la contrapposizione Amico/Nemico”. Quello che oggi abbiamo di fronte, infatti, non è un avversario politico, è proprio un “nemico” e per di più nell’accezione schmittiana di inimicus, cioè di “nemico interno” con cui è possibile solo una gigantesca guerra civile, non certo nell’accezione di hostis, il “nemico esterno” cui è possibile riconoscere una sua legittimità e con il quale si possono concludere paci di compromesso e ricercare forme di equilibrio durevole.
             Su questo fondo, si affronta la tragedia di un continente, spazzato dalla Storia nel 1945 e mai più capace di farvi ritorno da protagonista, con i pannicelli caldi proposti da politicanti di infima statura, di quelli che, di fronte a una tragedia epocale, dicono che ci salveranno con qualche riforma che loro affermano essere di struttura, e che non è nemmeno definibile come tale, o con qualche gesto eclatante, forse valido a livello simbolico (come l’uscita dall’euro) ma privo di un vasto respiro strategico.
       "Sprezzanti del ridicolo", ci indicano vie di uscita che non esistono e in cui loro stessi, per primi, non credono. Escono alla ribalta come topolini partoriti da una montagna di dolore, insoddisfazione e sofferenza qual è quella in cui è immersa l'Europa attuale, e ci gettano in un'ulteriore costernazione per la loro totale mancanza di statura politica e culturale, di pensiero, di "idee forti", di volontà di combattimento e di vittoria. Qualcuno sembra addirittura voler contrabbandare la sua personalissima "strategia per la pensione" (quella sì molto ben concepita e articolata) in una "strategia della tensione" di cui conosce a malapena il nome e non certo i significati.
       Uomini piccoli alle prese con una catastrofe continentale, tutti follemente attaccati all'idea che con la miopia, l'ottusità e la cattiva rimasticatura di qualche slogan datato si possa andare da qualche parte. NESSUN SOGNO, NESSUN SLANCIO, NESSUNA MITOPOIESI, e nemmeno – più modestamente – alcun progetto fattibile. Quasi che ci si potesse impegnare in grandi battaglie, in conflitti epocali per la sopravvivenza dell'identità e della cultura europee come un giorno si lottava - che so io - per qualche conquista sociale o per la vittoria in qualche cimento elettorale. Nani che non hanno neppure capito che senza i sogni, i sogni politici e metapolitici, non si destano entusiasmi e non si va da nessuna parte. Eppure, nel momento in cui molti popoli europei stanno perdendo tutto, in termini materiali, i grandi sogni, i grandi progetti sarebbero le uniche proposizioni che potrebbero avere ancora grandi capacità di mobilitazione, specie se accompagnati da comportamenti coerenti. L'Europa muore perché è piccola, vecchia, stanca, in qualche caso ancora ricca ma votata e vocata all’impoverimento, e perché colpevolmente persuasa che le tragedie della Storia possano finire in commedia. Non è mai stato così, non lo sarà neppure questa volta. Occorre, più che mai, UNA RIVOLTA IDEALE. Occorrono “idee per una rivoluzione degli Europei”. Per sperare di poterla fare, tuttavia, serve un’élite dirigente lucida e coerente, animata da saldi propositi, e che sì batta per qualche “sì” e non si limiti ad abbaiare alla luna i suoi troppi “no”.





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domenica 5 gennaio 2014

ALEXIS TSIPRAS: Ecco cosa vuole l'Europa!


Anticipazione della prefazione di Tsipras al volume di Slavoj Žižek e Srećko Horvat, “Cosa vuole l’Europa?” (Edizioni Ombre Corte), in libreria dal 10 Gennaio.
La figura di Alexis Tsipras sta suscitando grande curiosità tra i commentatori italiani, come testimoniato dal noto endorsement di Barbara Spinelli, di Toni Negri, ma anche da questo recente messaggio di Giulietto Chiesa. Vi sono però anche forti dubbi, come quelli manifestati da Leonardo Mazzei. Vedremo quale consenso aggregherà la figura del politico greco, e, soprattutto, con quali risultati, ma intanto leggiamo le sue parole...
La distruzione della Grecia: un modello europeo
Dalla metà degli anni Novanta, e per quasi tutto il decennio del 2000, la Grecia era in piena crescita. Questa espansione economica aveva due caratteristiche principali: un gigantesco aumento dei profitti non tassabili per i ricchi, un sovraindebitamento e un aumento della disoccupazione per i poveri. Il denaro pubblico è stato depredato in molti modi diversi, e il sistema economico si è limitato essenzialmente a favorire il consumo di beni importati dai paesi europei ricchi. Il modello “denaro a buon mercato, manodopera a basso costo” è stato presentato dalle agenzie di rating come un esempio da seguire per ogni economia emergente dinamica.
Ma la crisi del 2008 ha cambiato tutto. Le banche, dopo le loro scommesse speculative, si sono trovate pericolosamente indebitate, e hanno potuto salvarsi solo grazie al denaro pubblico; ma è sulle loro società che gli Stati hanno poi scaricato il peso del salvataggio di queste banche. Il distorto modello di sviluppo della Grecia è crollato e il paese, non potendo più chiedere prestiti sul mercato, si è trovato a dipendere dai prestiti del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea, accompagnati da misure draconiane.
Tale programma, che i governi greci hanno adottato senza battere ciglio, è composto di due parti: quella della “stabilizzazione” e quella delle “riforme”. Termini la cui connotazione positiva è destinata a mascherare la catastrofe sociale che essi producono. Così, la parte della “stabilizzazione” prevede una fiscalità indiretta devastante, tagli alla spesa pubblica senza precedenti, smantellamento dello stato sociale, in particolare nel campo della sanità, dell’istruzione e della sicurezza sociale, così come numerose privatizzazioni, comprese quelle di beni pubblici di base come l’acqua e l’energia. La parte delle “riforme”, invece, invoca la liberalizzazione dei licenziamenti, l’eliminazione dei contratti collettivi, la creazione di “zone economiche speciali” e, in generale, l’istituzione di regolamenti che dovrebbero permettere a potenti interessi economici di investire in Grecia in modo propriamente coloniale, degno del Sud Sudan. Tutto questo è solo una piccola parte di ciò che prevede il “memorandum” greco, vale a dire l’accordo firmato dalla Grecia con il Fondo monetario internazionale, l’Unione europea e la Banca centrale europea.
Queste misure avrebbero dovuto aprire la strada a un’uscita dalla crisi. Il rigoroso programma di “stabilizzazione” doveva condurre a un avanzo di bilancio – consentendo alla Grecia non solo di non aver bisogno di chiedere prestiti, ma anche di ripagare il proprio debito pubblico; mentre le “riforme” dovevano permettere di riconquistare la fiducia dei mercati che, vedendo smantellato lo stato sociale e il mercato del lavoro riempito di lavoratori a basso costo, disperati e senza protezione, si sarebbero precipitati a investire i loro capitali in Grecia. Così si sarebbe determinata una nuova “crescita” – quella che non esiste da nessuna parte, se non nei libri sacri e nelle menti più perverse del neoliberismo globale.
Questo programma doveva essere applicato in modo rapido e immediato, per permettere alla Grecia di ritrovare velocemente la strada della crescita. Ma tre anni dopo la firma del memorandum, la situazione va di male in peggio. L’economia sprofonda nella crisi e, naturalmente, le tasse non vengono pagate – semplicemente perché le persone non hanno i soldi per farlo. I tagli di spesa hanno raggiunto il cuore stesso della coesione sociale, creando le condizioni per una vera e propria crisi umanitaria. Per essere chiari, stiamo parlando di persone che rovistano tra i rifiuti per mangiare e che dormono sui marciapiedi, di pensionati che non possono nemmeno comprare il pane, di famiglie senza elettricità, di pazienti che non hanno accesso né ai farmaci né alle cure. E tutto questo, all’interno dell’eurozona.
Gli investitori, evidentemente, non si sono visti, dal momento che un “default disordinato” del paese rimane ancora possibile. E gli autori di questo memorandum, di fronte a ogni tragico fallimento, tornano a imporre sempre più tasse e tagli alle spese. L’economia greca è entrata in un circolo vizioso di recessione incontrollata, che non porta a nulla se non al completo disastro.
Il piano di “salvataggio” greco (un altro bel termine per descrivere la devastazione in corso) ignora un principio fondamentale: l’economia è come una mucca. Si nutre di erba e produce latte. È impossibile ridurre la sua razione d’erba di tre quarti e pretendere che produca quattro volte più latte. Essa ne morirebbe, semplicemente. E questo è esattamente ciò che accade oggi all’economia greca.
La sinistra in Grecia ha capito fin dall’inizio che l’austerità avrebbe peggiorato la crisi, invece di curarla. Quando qualcuno sta annegando, gli si lancia un salvagente, non dei pesi. Quanto ai talebani del neoliberismo, insistono nel dire, ancora oggi, che tutto andrà bene. Mentono, e lo sanno – tranne i più stupidi di loro, naturalmente. Ma non si tratta di stupidità o di dogmatismo. Alti dirigenti dello stesso fmi hanno parlato di “errore” nel concepimento del programma di rigore greco: non può portare da nessuna parte, dal momento che la recessione che esso genera è semplicemente incontrollabile. Eppure si continua ad applicare quel programma con una tenacia e una caparbietà che non ha precedenti, e si inasprisce sempre di più. È dunque d’altro che si tratta.
La realtà è che la crisi dell’economia greca non è ciò che interessa all’Europa, né al fmi. Il loro obiettivo principale è di fare del programma imposto alla Grecia il modello da seguire per tutte le economie europee in crisi. Questo programma mette definitivamente fine a ciò che, nell’Europa del dopo guerra, era conosciuto come “contratto sociale”. Non importa se la Grecia alla fine fallisce e sprofonda nella miseria. Ciò che conta è che, in un paese della zona euro, ora si discuta apertamente di salari alla cinese, di abolizione del diritto del lavoro, di dissoluzione della sicurezza sociale e dello stato sociale, e di completa privatizzazione dei beni pubblici. Con il pretesto di combattere la crisi, il sogno neoliberista delle menti più perverse – che, dopo gli anni Novanta, ha dovuto affrontare una forte resistenza da parte delle società europee – diventa finalmente realtà.
La Grecia, comunque, è solo il primo passo. Già la crisi del debito si è estesa ad altri paesi dell’Europa meridionale e penetra sempre più in profondità nel cuore dell’Ue. Ecco dunque cosa significa il grande esempio greco: l’unica cosa di cui sono capaci coloro che fanno fronte agli attacchi speculativi dei mercati è di distruggere completamente ogni traccia dello stato sociale, come è oggi il caso della Grecia. In Spagna e in Portogallo, i rispettivi memorandum già stanno promuovendo cambiamenti di questo tipo. Ma è nel “Trattato europeo di stabilità”, che la Germania vorrebbe vedere applicato all’intera Ue, che questa strategia si rivela in tutta la sua portata: gli Stati membri non sono più liberi di scegliere la loro politica economica, le principali istituzioni dell’Unione hanno ora il diritto di intervenire nelle scelte di bilancio e di imporre drastiche misure fiscali per ridurre i deficit pubblici. Tanto peggio per le scuole, gli asili, le università, gli ospedali pubblici, i programmi sociali. E se i popoli usano la democrazia come uno scudo contro l’austerità, come recentemente in Italia, tanto peggio per la stessa democrazia.
Cerchiamo di essere chiari. Questo modello europeo generalizzato non è il salvataggio della Grecia, ma la sua distruzione. Il futuro europeo, fatto di banchieri felici e di società infelici, è già programmato. In questo modello di sviluppo, il capitale è il cavaliere e le società il cavallo. Si tratta di un progetto ambizioso – ma che non andrà molto lontano, perché nessun progetto può essere realizzato senza il consenso della società e le garanzie per i più deboli. Questo, l’attuale classe dirigente europea sembra averlo dimenticato. Essa tuttavia vi si scontrerà prima di quanto non pensi.
La fine del “capitalismo neoliberale reale” – vale a dire del capitalismo più aggressivo che abbia mai conosciuto l’umanità, e che trionfa da due decenni – è già iniziata. Dopo il naufragio di Lehman Brothers, due strategie opposte di uscita dalla crisi offrono due approcci diversi all’economia globale: la strategia dell’espansione finanziaria, dell’aumento della massa monetaria, della nazionalizzazione delle banche e dell’aumento delle tasse ai ricchi; e quella dell’austerità, del trasferimento del peso del debito bancario agli Stati – e sulle spalle delle classi medie e popolari, sovratassate per consentire ai più ricchi di eludere il fisco. I leader europei hanno scelto la seconda strategia, ma sono già di fronte ai vicoli ciechi ai quali essa conduce, e al conflitto storico che essa provoca in Europa. Questo scontro assume una parvenza geografica – Nord contro Sud – ma è fondamentalmente uno scontro di classe, che si riferisce alle due strategie opposte sopra descritte. La seconda strategia, infatti, difende il dominio assoluto, incondizionato, del capitale, senza preoccuparsi della coesione e del benessere sociale; la prima difende l’Europa della democrazia e dei bisogni sociali. Lo scontro è già iniziato.
Di fronte alla crisi, vi è dunque un’alternativa: le società europee devono proteggersi contro la speculazione del capitale finanziario, l’economia reale deve emanciparsi dall’imperativo del profitto, il monetarismo e la politica fiscale autoritaria debbono finire, la crescita deve essere ripensata secondo il criterio dall’interesse sociale, va inventato un nuovo modello di produzione basato su un lavoro dignitoso, sull’espansione dei beni pubblici e sulla protezione dell’ambiente. Questa prospettiva, ovviamente, non è all’ordine del giorno delle discussioni dei leader europei. Spetta ai popoli, ai lavoratori europei, ai movimenti degli “indignati” imprimere il loro marchio al corso della storia, e impedire il saccheggio e la distruzione su larga scala.
L’esperienza degli anni precedenti porta alla seguente conclusione: c’è un’etica della politica, e un’etica dell’economia. Dopo il 1989, l’etica dell’economia ha cominciato a dominare l’etica della politica e della democrazia. Tutto ciò che era nell’interesse di due, cinque, dieci gruppi economici potenti è stato considerato come legittimo, anche se si dimostrava contrario ai più elementari diritti umani. Oggi, il nostro dovere è di ripristinare l’egemonia dei principi etici politici e sociali, contro la logica del profitto.
Come ci arriveremo? Grazie alla dinamica delle lotte sociali. In primo luogo, spezzando una volta per tutte le catene della passività sociale sulle quali si è fondata la costruzione europea dopo il 1989. Il coinvolgimento attivo delle masse in politica è proprio ciò che temono le élite al potere in Europa e nel resto del mondo. Facciamo in modo allora che le loro paure diventino realtà.
La direzione scelta dagli ambienti economici dominanti è chiara; elaboriamo dunque il nostro orientamento politico e sociale. E difendiamolo con tutti i mezzi, sia a livello centrale sia a livello locale. Dai luoghi di lavoro, dalle università, dai quartieri, fino all’azione congiunta e coordinata in tutti i paesi europei. È una lotta di resistenza, che avrà successo solo se porterà a un programma alternativo per l’Europa. Oggi l’opposizione non è tra paesi in deficit e paesi in surplus, né tra popoli disciplinati e popoli ansiosi. L’opposizione è tra gli interessi delle società europee e l’esigenza del capitale di realizzare costantemente profitti.
Dobbiamo difendere l’interesse sociale europeo. In caso contrario, il futuro, per noi e per i nostri figli, si rivelerà infausto, incerto, e supererà tutte le nostre paure dei decenni precedenti. Il modello di sviluppo costruito sulla “libertà dei mercati” è fallito. Ora le forze dominanti attaccano la società, le sue conquiste e la sua coesione. Questo è ciò che sta accadendo in questo momento in Grecia, e questo è il piano voluto per il resto dell’Europa. Cerchiamo quindi di difenderci con tutti i mezzi necessari. E trasformiamo le resistenze sociali che continuano a emergere e a crescere in una occasione di solidarietà e di strategia collettiva per tutti i popoli d’Europa.
Il futuro non appartiene al neoliberismo, né ai banchieri, né a qualche dozzina di potenti multinazionali. Il futuro appartiene ai popoli e alle società. E il momento di aprire la strada a una Europa democratica, sociale e libera. Perché questa è l’unica soluzione sostenibile, realistica e realizzabile per uscire dalla crisi attuale

sabato 21 dicembre 2013

ANDREA FAIS: L'Europa in balia delle onde atlantiche




Nel 1996 fu Samuel Huntington ad avvertire l'umanità che la fine della storia preconizzata da Francis Fukuyama qualche anno prima, sarebbe stata soltanto un'illusione temporanea in un pianeta ovattato dalla retorica clintoniana. Appena due anni dopo il crollo del Muro di Berlino, il Pentagono aveva già lanciato l'operazione Desert Storm in Iraq, inaugurando sul campo una serie di novità tattico-operative come l'offensiva simultanea e le integrazioni ICT. La Rivoluzione negli Affari Militari era nell'aria da tempo. Se ne parlava sin dall'inizio degli anni Ottanta anche in Unione Sovietica, dove il generale Nikolaj Ogarkov sosteneva con insistenza la necessità di modernizzare la dottrina militare puntando sull'alta tecnologia e sulla ricerca della supremazia convenzionale piuttosto che nucleare. La dissoluzione, però, portò via con sé tutti i programmi strategici del Cremlino, lasciando agli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta, uno spettro di manovra di dimensioni globali.
Contrariamente alle promesse ventilate in un primo momento in sede di Consiglio Atlantico, il processo di finlandizzazione del continente europeo non è mai avvenuto. Anzi, tra il 1990 e il 2009 la NATO ha integrato, uno dopo l'altro, tutti i vecchi alleati di Mosca nel Patto di Varsavia (Germania Est, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Albania), oltre alle tre repubbliche baltiche ex sovietiche (Estonia, Lettonia e Lituania).
La disastrosa situazione balcanica all'indomani della dissoluzione jugoslava ha poi consentito a Washington di intervenire nella regione e di determinare nuovi equilibri tutt'ora instabili e precari: equilibri che, sbilanciatissimi in favore degli alleati bosniaco, kosovaro e albanese (grande contraddizione della cosiddetta “linea dura” adottata dalla Casa Bianca contro il terrorismo islamista), non hanno mai seriamente spento alcun focolaio di tensione interetnica e interreligiosa, lasciando aperto il campo al rischio di nuovi drammatici scontri armati.
Nel 2009 la NATO ha raggiunto i 28 membri e mantiene in essere le proposte di integrazione avviate con la Finlandia e la Georgia. Malgrado la pesante crisi economica cui sono sottoposti molti dei suoi Paesi aderenti, l'Alleanza continua ad impegnarsi e ad impegnare gli stati maggiori coinvolti: stando ai dati del SIPRI di Stoccolma, la somma delle spese militati sostenute nel 2012 dai singoli Stati membri supera abbondantemente i 1.000 miliardi di dollari. A questi vanno aggiunti anche i rilevanti dati dei Paesi non-NATO sostenuti e armati dagli Stati Uniti, come il Giappone, l'Arabia Saudita, la Corea del Sud o Taiwan, raggiungendo così circa 1.200 miliardi su una spesa militare mondiale annuale complessiva pari a 1.756 miliardi di dollari. Nel maggio 2012 il vertice di Chicago ha stabilito la linea-guida della Smart Defense che, come ribadito dall'allora segretario alla Difesa Robert Gates, significherà “fare di più con meno soldi”. Dal momento che senza risorse e investimenti non si realizza nulla, è logico supporre che nei prossimi anni una porzione significativa delle spese militari dell'Alleanza dovranno essere sostenute dai Paesi europei nel quadro di un effetto-travaso tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale. L'Europa, dunque, dovrà fare di più, secondo quanto sostenuto sia da Gates che dal suo successore Leon Panetta.
È forse questa la spiegazione della linea di austerità decisa da Bruxelles negli ultimi due anni? Senz'altro l'Unione Europea si presenta oggi come un corpo senz'anima, priva di una precisa impalcatura politico-costituzionale ed ingabbiata nelle decisioni, spesso impopolari ed autolesioniste, di una tecnocrazia non eletta o comunque scarsamente rappresentativa dei bisogni dei cittadini europei. Unire l'Europa non è mai stato un obiettivo semplice nella storia e, malgrado i numerosi tentativi, i nazionalismi particolari da una parte e gli imperialismi nazionali dall'altra hanno sempre impedito la maturazione di un'idea confederativa autonoma e specifica per il Vecchio Continente. Insufficiente, quando non addirittura fuori luogo, l'intuizione liberale dei cosiddetti Stati Uniti d'Europa: uno slogan o, per dirla con Lenin, una “parola d'ordine” per rimediare superficialmente ai disastri del passato e alle contraddizioni interimperialiste del presente più che un serio progetto unitario finalizzato ad una vera trasformazione sociale, economica e strategica del continente europeo. Perfino Romano Prodi, tra i primi artefici dell'integrazione europea in Italia, registra oggi il fallimento del progetto iniziale e la necessità che i Paesi maggiormente in crisi si organizzino autonomamente per dare origine ad un blocco interno mediterraneo con lo sguardo rivolto verso Oriente, in primis Mosca, Pechino e Astana, luoghi dove il professore bolognese gode di grande stima e considerazione da alcuni anni a questa parte. Eppure, anche uno scandalo di vasta portata come quello del Datagate non è bastato a rimettere in discussione i rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti e riporre definitivamente in soffitta l'azzardato progetto dell'Area Transatlantica di Libero Scambio.
Dopo la cocente sconfitta diplomatica subita ad opera di Putin sulla questione siriana, Obama non può rischiare ancora. Per Washington perdere l'Europa significherebbe perdere l'ultima regione del continente eurasiatico su cui è in grado di esercitare un controllo capillare per mezzo della sua massiccia presenza militare e culturale. L'intero arco mediterraneo rappresenta dunque la porzione più esposta di quel territorio costiero (Rimland) che Nicholas Spykman considerava determinante già negli anni Quaranta, nel quadro del potere peninsulare che gli Stati Uniti avrebbero dovuto esercitare per impedire la formazione di vasti blocchi geopolitici concorrenziali in Europa e in Asia. Durante la Guerra Fredda era molto più agevole nascondere questi diktat strategici dietro la bandiera dell'anticomunismo, attorno alla quale fu reclutata la più bieca e fanatica manovalanza neofascista, islamista, panturchista o lamaista senza suscitare eccessivo clamore mediatico. Oggi, invece, l'emersione progressiva di un mondo multipolare e la compresenza di una serie di potenze non accomunate/accomunabili da uguali caratteri politici, religiosi o culturali complica il quadro internazionale. Di fronte all'incedere dei BRICS, il soft-power statunitense è spiazzato e la retorica dei “diritti umani” fa acqua da tutte le parti. Per la prima volta negli ultimi venti anni, il dominio comunicativo di Washington comincia a scricchiolare. Il network internazionale moscovita Russia Today, la prima emittente cinese CCTV coi suoi canali in lingua inglese, l'iraniana Press TV e tanti altri circuiti televisivi satellitari non occidentali vanno diffondendosi di pari passo con le potenzialità di quella rete internet che Washington pretendeva di poter utilizzare a senso unico per innescare, via e-mail o via twitter, mobilitazioni reazionarie contro governi non allineati alla NATO.
La stessa Europa, almeno sul piano economico, da alcuni anni ha inaugurato una fitta rete di scambi commerciali con la Russia e con la Cina. In particolare la Germania sembra poter godere di nuovi mercati di sbocco dove valorizzare la sua competitività industriale altrimenti compromessa o svilita nel contesto del mercato unico europeo. Tuttavia l'integrazione nella NATO costringe Angela Merkel a mantenere un atteggiamento ostile ed indisponente sul piano politico, come evidenziato dalle dichiarazioni provocatorie rilasciate recentemente in relazione alla crisi in Ucraina, dove gli interessi dell'Unione Europea vengono scaraventati direttamente sulle piazze pubbliche dai neonazisti di Svoboda e da altre forze antirusse. Tutto ciò smorza continuamente sul nascere il consolidamento in chiave politica delle reti commerciali alternative offerte dall'Oriente, che hanno fin'ora letteralmente salvato l'export dei Paesi europei più in crisi, Italia compresa, ancora in grado di vantare una bilancia commerciale positiva malgrado la recessione.
La scelta del nostro Parlamento di silurare Romano Prodi e di riconfermare Giorgio Napolitano al Quirinale resta emblematica nella determinazione dell'orientamento internazionale di un'Italia che preferisce arrancare nelle sabbie mobili di posizioni anacronistiche e masochiste, evitando perfino di rendere pubblicamente conto agli italiani del recente disastro libico voluto dalla NATO, che ha pesantemente danneggiato non solo la nostra economia ma anche l'intera stabilità del Mediterraneo.