Un
luogo comune generalmente diffuso parte dall’assunto che Europa e Stati Uniti
affondino entrambi le radici in un medesimo terreno storico e culturale,
laddove si tratta di due entità distinte e profondamente antitetiche.
Gli
Stati Uniti nacquero infatti da una volontà di rottura con l’Europa, dall’intento
di scrollarsi di dosso l’ingombrante e disprezzata eredità del Vecchio
Continente.
Tale
volontà di riscatto si riscontra non solo dalla linea filosofica di cui è
innervato il principio della “Dottrina Monroe”, enunciata dal Presidente James
Monroe nel 1823 – che l’aveva a sua volta ripresa da un concetto, rivisitato e
corretto, elaborato da John Quincy Adams - con l’intento di invitare i paesi
europei a guardarsi bene dall’intervenire negli affari interni al continente
americano, ma anche dagli scritti infuocati di autorevoli filosofi e letterati nordamericani
come Ralph Waldo Emerson - che ebbe a sostenere che «Troppo a lungo abbiamo
ascoltato le raffinate Muse dell’Europa» - e dalla riluttanza del popolo statunitense a scavare indietro
nel tempo.
Molti
osservatori hanno attribuito tale indifferenza nei confronti del passato alla
breve durata relativa dell’esistenza degli Stati Uniti, ma degna di maggior
credito pare l’ipotesi secondo cui lo sradicamento dalla dimensione temporale
sia percepita ovunque negli USA come condizione basilare per la libera
espressione delle libertà individuali.
Questo
fattore centrale ha portato George Popper ad indicare gli Sati Uniti come il
modello magistralmente compiuto di “società aperta”.
Mentre
la cultura europea trae origine dal pensiero greco sviluppatosi nei litorali
mediterranei più di due millenni e mezzo fa, la “società aperta” statunitense
si fonda sul mito della frontiera e sull’oltrepassamento di essa finalizzato
alla conquista dello spazio.
Le
forme che ha assunto questa ideologia sono ben note, specialmente in relazione
al rapporto dei padri fondatori (coloni puritani) e dei loro seguaci con le
popolazioni indigene.
Nel
1633, dopo che un’epidemia di vaiolo aveva fatto strage di pellerossa i
puritani resero immediatamente omaggio a Dio per aver calato dal cielo questa
manna.
Negli
anni successivi vennero sfruttate e fomentate le divisioni tribali - divide et
impera - nella speranza che gli indigeni si decimassero tra di loro.
Sulle
coste del Connecticut, i Pequot furono annientati dai Narragansett, che a loro
volta furono sconfitti dagli Uncas.
Contrariamente
a quanto si ritenga comunemente, furono gli sceriffi locali, sollecitati dalle
autorità politiche, ad ideare e la pratica di esigere, dietro congruo compenso,
la consegna dello “scalpo” per ogni indiano ucciso.
Nell’arco
del ‘700 i Delawere, gli Shawnee, i Mingos, i Mohawk, gli Uroni e gli Irochesi
furono massacrati con l’impiego delle più disparate metodologie di sterminio.
I
Delawere, ad esempio, furono falcidiati da un epidemia di vaiolo diffusasi
tramite coperte infette consegnate loro appositamente dal reggente di Fort
Puitt nel 1763.
Con
le tribù indiane vennero firmati accordi i cui termini furono poi regolarmente
violati finché queste non si ribellassero.
Quando
ciò accadeva, lo sterminio era la prassi comunemente adottata.
Dall’intruglio
micidiale di puritanesimo e filosofia dei lumi di cui i padri fondatori degli
Stati Uniti erano impregnati scaturì un’ideologia messianica che consentì loro
di brandire la spada della divina volontà per perpetrare eccidi, deportazioni e
massacri di ogni sorta.
Benjamin
Franklin, capostipite di essi, ebbe a scrivere che «Se la Provvidenza ha il
disegno di distruggere questi selvaggi per lasciare spazio ai coltivatori della
terra, non sembra inverosimile che l’alcool sia il mezzo da impiegare per
riuscirci. Grazie ad esso, sono già state distrutte tutte le tribù che, in
altri tempi, abitavano la regione costiera».
Espressioni
di tale messianesimo si riscontrano tra le righe di tutti gli altri padri
fondatori;
George
Washington comparò a suo tempo gli Stati Uniti a Gerusalemme, una nazione “concepita
dalla Provvidenza per essere il teatro dove l’uomo deve raggiungere la sua vera
statura”.
Thomas
Jefferson li qualificò come «Una nazione universale che persegue idee
universalmente valide».
John
Quincy Adams gli fece eco, definendoli «Una Repubblica pura e virtuosa che ha il
destino di governare il globo e di introdurvi la perfezione dell’uomo».
Un
messianesimo, insomma, consacrato ad anima di una nazione e codificato sul
basamento del monumento simbolo degli Stati Uniti, quella Statua della Libertà
pronta ad accogliere “I senza casa e le vittime della tempesta” che seguendo la
fiaccola illuminata avrebbero inesorabilmente raggiunto la “Soglia delle porte
d’oro”.
La
solerzia con cui i pionieri allargavano le frontiere nazionali spinse i Miami e
i Creek a migrare in massa ad ovest verso la fine del ‘700, ma nemmeno la fuga
li salvò.
Nel
1830, per contrastare i Cherokee che avevano tentato con discreto successo di
integrarsi nella società dei conquistatori, il Congresso approvò il Removal Act
in base al quale l’esercito fu incaricato di deportane i membri dalla Georgia
all’Oklahoma.
Svariate
migliaia di membri della tribù morirono nel corso dell’operazione, suscitando
sdegno in seno all’intera galassia pellerossa.
Ciò
spinse il governo ad adottare, nel 1840, un trattato che fissava nel confine
del Mississipi la frontiera indiana permanente ma la scoperta di nuovi
giacimenti di oro in California ne vanificò i vincoli, portando orde di persone
a spingersi verso ovest.
La
conquista del “far west” da parte dei migranti fu accelerata dalla costruzione
della ferrovia, la cui realizzazione impiegò numerosi operai per sfamare i
quali vennero abbattuti milioni di bisonti.
Dal
momento che i bisonti costituivano una delle fonti di approvvigionamento
principali per i pellerossa, la decimazione di essi provocò un’enorme carestia
che spinse numerose tribù ad insorgere contro i coloni.
La
repressione delle forze governative fu di inedita brutalità, causando immani
massacri come quello di Sand Creek (novembre 1864) e del Washita (novembre
1868) e l’annientamento degli Arapaho, dei Potawatani, dei Nasi Forati, dei
Comanche e dei Kiowa.
Il
generale George Custer e i suoi uomini caddero invece in un’imboscata dei Sioux
comandati da Cavallo Pazzo sulle rive del fiume Little Big Horn nel giugno del
1876, compiuta come rappresaglia rispetto alla strage del Washita di cui Custer
si era reso responsabile.
La
ritorsione di Little Big Horn inasprì ulteriormente i toni dello scontro,
spingendo il generale William Sheridan a lanciare la crociata antipellerossa sullo
slogan «Il solo indiano buono è un indiano morto».
La
soverchiante potenza dell’esercito governativo schiacciò le ultime resistenze
indiane nel 1890, quando Cavallo Pazzo, ultimo capotribù guerriero rimasto, fu
ucciso assieme ai suoi trecento compagni, tutti disarmati, sotto i colpi di
mitragliatrice sparati dall’esercito statunitense.
La
fine di Cavallo Pazzo e dei suoi Sioux coincise con il tramonto di un intero
popolo, immolato sull’altare del progressismo messianico elaborato dai gloriosi
padri fondatori e portato avanti dai loro eredi, in merito al quale uno dei
giganti del liberalismo, quell’Alexis De Tocqueville noto quasi esclusivamente
per aver celebrato la “democrazia in America”, ebbe a scrivere che «L’espropriazione
degli indiani avviene spesso, ai nostri giorni, in maniera regolare e, per così
dire, legale. Gli spagnoli, con mostruosità senza pari e coprendosi di un’onta
incancellabile, non sono riusciti a sterminare la razza indiana e neppure a
impedirle di condividere i loro diritti.
Gli
americani degli Stati Uniti hanno raggiunto questo duplice risultato
tranquillamente, legalmente, filantropicamente. Non si potrebbe distruggere gli
uomini rispettando meglio le leggi dell’umanità».
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