mercoledì 5 marzo 2014

EDUARDO ZARELLI: La crisi strutturale della forma Capitale




Sull’orlo del baratro: così titolata due anni fa l’opera di Alain de Benoist dedicata al «fallimento annunciato del sistema del denaro». Ora il precipizio si è definitivamente spalancato alla cadu
ta a peso morto delle economie liberalcapitaliste; il sistema finanziario internazionale sta divorando l’economia reale e la crisi dell’euro si attorciglia su se stessa, avvinta nel debito che implementa di pari passo i deficit pubblici, nell’impotenza dell’intera classe dirigente politica ed economica. Tutto è instabile, fragile, precario sul crinale dell’irrevocabile e l’incapacità dei “padroni del mondo” – per dirla con Noam Chomsky – di governare il caos planetario è sotto gli occhi di tutti. Siamo alla morta gora dell’economicismo: la speculazione finanziaria come causa e patologica presunta soluzione della crisi. E cosa succederà quando la Federal Reserve Bank statunitense verrà meno nell’abnorme immissione di dollari con cui sorregge il sistema mondo capitalistico e le sue bolle speculative?
Con la globalizzazione, l'Europa è stata destabilizzata, impoverita ed emarginata dagli equilibri internazionali: stagnazione prima e vera recessione economica poi, nel declino inarrestabile di alcuni Paesi in particolare, come l’Italia, ove l’austerità si accoppia paradossalmente alla delocalizzazione produttiva, cioè del profitto del capitale di rendita sul lavoro. Lavoro introvabile, per i più, o dequalificato, quindi da colmare con un «esercito industriale di riserva» – per dirla con Karl Marx – da ricercare nelle masse pauperizzate e affluenti dal Terzo Mondo per contrastare la caduta del saggio di profitto. Nelle società industrializzate occidentali si è entrati in uno stato di debito strutturale almeno dagli anni Settanta; oggi si somma come debito pubblico statuale, debito delle amministrazioni locali, debito degli istituti di previdenza e debito privato. Il trattato di Maastricht vincola dal 1992 gli Stati membri dell’Unione Europea al limite del 3% del prodotto interno lordo (PIL), con una proiezione di salute economica sul 60% circa del reddito nazionale prodotto. Come sappiamo, la situazione è degenerata per le economie di tutte le nazioni europee, di fatto fuori dai parametri di cui sopra, con condizioni drammatiche, in cui si sono accumulate contraddizioni strutturali specifiche, in particolare nella parte centro-meridionale del Continente e nella particolarità del pluridecennale declino italiano. Al momento di questa scrittura, i dati di Bankitalia fissano a 2.085 miliardi di euro il nostro debito pubblico, in continua crescita nonostante la politica di sacrifici e un carico fiscale senza tagli alla spesa improduttiva, in un rapporto con il PIL al 133,3%, secondo solo alla Grecia. Il che sembrerebbe una farsa, se non nascondesse dietro l’angolo la tragedia; a chi dobbiamo, infatti, tutto questo denaro? Al mercato finanziario internazionale, che vi specula profittevolmente. Chi detiene i miliardi di euro di debito pubblico incorporato in Btp e titoli simili? Solo la metà (o poco più) è in mani italiane; per il resto, ci sono banche e gruppi assicurativi stranieri, fondi comuni europei, investitori internazionali. Questi istituti finanziari scambiano a loro volta il debito acquistato in strumenti ad acta, come i derivati e i futures, per creare profitto dalla speculazione borsistica; il parametro obbligante dello spread, quindi, si pone come il lubrificante della corda con cui viene stretto il collo dell’economia reale del Paese, dati l’automatismo sugli interessi del debito pubblico e gli acquisti e investimenti degli operatori finanziari internazionale nel nostro mercato locale.
Le cause dell'accumulo del debito pubblico italiano sono ovviamente molteplici; fra le principali interne – per cui si è avuta un’espansione della spesa – sono da citare le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento precoce nel settore pubblico, l'abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico insieme al mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al tempo stesso clientelari ed elettorali, i privilegi senza pari della professionalizzazione politica della democrazia procedurale, la corruzione, valutata in 60 miliardi di euro l'anno; vi è poi la mancanza di equità fiscale: entrate inferiori a quelle che il sistema avrebbe potuto garantire in presenza della riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, la bassa tassazione dei redditi da capitale, la riduzione (se non l'eliminazione) delle imposte patrimoniali, l'elevato tasso di evasione fiscale, l'espandersi dell'economia in nero. Infine non va dimenticato il ruolo – come indicavamo sopra – degli interessi, accumulatisi nei decenni: nel 2010, la spesa per gli interessi è stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondenti all'8,8% dell'intera spesa pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (imposte dirette e indirette, esclusi gli oneri sociali). In effetti, gli interessi, oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza di tutti, in un’evidente deriva oligarchica e plutocratica della democrazia. Le cause esterne sono legate all’impatto della globalizzazione negli ultimi decenni e all’improvvido entusiasmo da essa suscitato nel provinciale ceto imprenditoriale nazionale. La deindustrializzazione – in parte dovuta alla delocalizzazione – è andata di pari passo con la deregolamentazione e la privatizzazione e – ultimo, ma non ultimo – con gli interventi, senza pari nella storia, di trasferimento finanziario degli Stati per salvare le banche e gli istituti assicurativi oggettivamente falliti sul mercato tra il 2007 e il 2009, all’inizio cioè della crisi strutturale in corso generatasi con la vicenda incidentale dei subprimes.
Tutti oramai sappiamo che, sul finire dello scorso decennio, le famiglie americane, incapaci di risparmiare, sono state sostenute profittevolmente dal sistema bancario nei mutui, per alimentare un tenore di vita tanto consumistico quanto artificioso. Di conseguenza, il debito privato si è accumulato a quello pubblico, con l’esito perverso che oggi le banche salvate si ritrovano creditrici dei propri salvatori. Via gli speculatori, quindi? Certo, ma, lì come da noi, questo non basterebbe, perché anche l'azienda presso cui andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale del posto in cui abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca emettitrice del nostro bancomat e l'agenzia di Stato che versa il sussidio di disoccupazione al nostro vicino cassaintegrato sono da tempo, in un modo o nell'altro, indebitati. Tutti avevano fatto conto ("aspettativa", si dice in economia) sul fatto di riuscire nel futuro a guadagnare – facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il patrimonio pubblico – più di quanto avevano ricevuto in prestito; credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Calcolo, questo, insito nella dinamica titanica e irresponsabile del nichilismo occidentale. Da tempo, le economie industriali sono in crisi di realizzo; il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino, le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici e il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente: nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, la "santa crescita" non arriva, e non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo. Il Pianeta si diversifica, nuove potenze economiche e demografiche competono sul teatro decrescente delle risorse energetiche, delle materie prime e della trasformazione in beni finiti, sovrabbondanti ma mal ripartiti in termini di potere d’acquisto e diritti al lavoro e sul modo di svolgerlo. La scommessa della globalizzazione è a somma zero; hanno illuso le masse per un futuro affluente, che si è trasformato in un incubo eternamente presente.
Il debito, nell’economia moderna, non può essere disgiunto dal denaro. Solo con la trasformazione dell’economia in finanza abbiamo incominciato a pensare che il denaro possa auto-generarsi e rendersi autonomo dal lavoro, di cui altro non è che un simbolo, un metro di misura, non una merce come pensavano tanto Adam Smith quanto Karl Marx, non un valore. A partire dal 1694, in Inghilterra, l’emissione di moneta – in linea di principio, prerogativa della Corona – è stata sempre appannaggio della privata Bank of England. Alle spalle delle banconote anglosassoni c’era, è vero, la prassi delle vecchie lettere di credito, utilizzate da secoli nei traffici di lunga distanza, tuttavia il nuovo “pezzo di carta”, abilmente adoperato dai banchieri privati, sarebbe poi diventato uno strumento di indebitamento permanente. All’oggi, in forma virale endemica, potremmo dire, ogni apertura di credito con una banca è creazione di moneta virtuale. Nel potere d’acquisto che trasferiscono al cliente con il prestito, le banche generano denaro, la maggior parte di quello circolante. Il debito diversificato, pubblico e privato, di cui parlavamo prima, è quindi nei conti correnti bancari. Le banche possono permettersi il diritto di prestare denaro agli Stati, acquistandone i Buoni del tesoro, con soldi ottenuti a tassi irrisori, visto che il potere politico non è più sovrano e quindi detentore dell’emissione di moneta. Nel trattato di Maastricht, e di conseguenza in quello di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, si vieta alla Banca centrale europea di prestare denaro agli Stati membri, che però paradossalmente si indebitano con il sistema bancario. La Bce – presieduta da Mario Draghi – finanzia le banche, di fatto sostenute anche con i soldi dei contribuenti: mille miliardi di euro prestati per tre anni all’1% (260 miliardi alle banche italiane, che sinora non hanno restituito neppure un centesimo) sono infatti serviti a puntellare i bilanci e ad acquistare il debito pubblico (a un tasso dal 3,5% al 7,5%), ma non hanno prodotto alcun beneficio per l’economia reale. Il drastico ridimensionamento dei prestiti a imprese e famiglie, infatti, rappresenta la mossa scelta dalle banche per confrontarsi con la crisi: negli ultimi 21 mesi (a partire dalla fine del 2011) si è verificato un taglio di 85 miliardi di euro.
In tale contesto, dominano le opinioni sul mercato delle agenzie di rating. Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch continuano ad abbassare la valutazione del debito dei Paesi in crisi, mettendo a rischio la stabilità dell’eurozona in maniera direttamente proporzionale ai profitti speculativi del mercato finanziario. Il rating, benché venga presentato come un servizio fornito agli investitori, in realtà è un meccanismo opaco e monopolizzato dalle tre grandi società che attualmente si accaparrano il 95% del mercato. Il settore è oggi uno dei più segreti e sconosciuti al mondo, ma anche uno dei più redditizi, se pensiamo che negli ultimi tempi le agenzie hanno tratto profitti che si sono spinti fino al 50% del loro giro d’affari, con un esplicito conflitto d’interessi, che getta più di un sospetto sull’obiettività dei giudizi formulati, data la loro responsabilità diretta nell’attuale instabilità finanziaria. I ripetuti declassamenti hanno un effetto diretto sugli investitori, che chiedono automaticamente dei tassi di interesse più alti, in ragione del premio di rischio. Queste agenzie dovrebbero rilevare le paure del mercato, ma di fatto le anticipano, creando delle previsioni che si autoavverano. Insomma, il circolo vizioso dell’usura è una spirale perfetta: gli Stati in deficit si indebitano al tasso d’interesse determinato dal giudizio di chi è direttamente o indirettamente contiguo alle banche creditrici e alla speculazione del mercato finanziario; più rimborsano, più si indebitano, meno si sviluppa l’economia; più vengono colpiti i ceti produttivi, la protezione sociale dei meno abbienti, più le diseguaglianze si divaricano a favore delle posizioni di rendita da capitale e di esportazione, mentre il mercato interno involve nella stagnazione e nella recessione.
Sulla drammatica situazione economica del nostro Paese, del resto, i dati ISTAT pubblicati nel dicembre del 2014 sono estremamente chiari – tra il 2008 e il 2012 non solo è stato perso oltre l’80% della crescita realizzata dal 2000 al 2007, ma, rispetto al 2001, si è registrata sia una riduzione del numero di imprese dell’industria in senso stretto (-18,4%, ossia 100.000 imprese in meno) che una flessione occupazionale del 17,5% (cioè circa 900.000 addetti in meno) – e le previsioni per l’anno in corso stimano per l’Italia una diminuzione del PIL dell’1,8%, con una crescita modesta nel 2014 dello 0,7% per l’ISTAT e dello 0,6% per l’OCSE (mentre, secondo Standard & Poor’s, sarebbe solo dello 0, 4%). Tenendo conto della flessione del PIL negli anni scorsi, è palese che un tale modestissimo tasso di crescita (ammesso che vi sia) significa che in realtà non vi è una vera crescita (né un autentico sviluppo), ma semplicemente una fase di “stagnazione”; tant’è vero che la disoccupazione è a livelli altissimi (quella giovanile addirittura oltre il 40%) e non si prevede che possa diminuire nemmeno nel 2014, mentre si deve registrare anche una diffusione della “severa deprivazione” superiore alla media europea (9,9%), essendo aumentate le persone in grave disagio economico: nel 2012, rappresentavano il 14,5% dei residenti in Italia, 3,3 punti in più rispetto al 2011; inoltre è sempre più preoccupante il calo del tasso di risparmio delle famiglie italiane, in passato elevato, nel confronto internazionale: a partire dal 2009, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è divenuta inferiore a quella media dell’area dell’euro, anche se la ricchezza netta delle famiglie italiane, alla fine del 2012, era pari a 8 volte il reddito disponibile lordo.
L’economia è l’aspetto più evidente del degrado sociale, ma il declino italiano è qualcosa di più profondo, che ha intaccato nell’intimo la nostra stessa identità antropologica e il nostro senso di appartenenza. Tutte le istituzioni – dalla Scuola e dall'Università fino alla Magistratura, all’Informazione, alla Pubblica sicurezza, alla Sanità – così come le corporazioni professionali e la burocrazia in ogni grado e funzione pubblica, sono pletoriche, incapaci eticamente di spirito di servizio e operativamente di efficacia funzionale, organizzate per favorire chi vi lavora e non i cittadini, dominate come sono dall'arrivismo manageriale – clientelisticamente legato al potere partitico, al parassitismo impiegatizio e alle lobby sindacali – dal formalismo e da un proceduralismo autoreferenziale, che in realtà copre l’interesse personale, nella rassicurante irresponsabilità collettiva ove ogni desiderio egoistico diviene un diritto individuale da rivendicare giuridicamente senza pudore e dignità alcuna.
Come uscirne? Una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale, giacché il popolo è stato privato, da un lato, della sua prerogativa essenziale, la sovranità, e, dall'altro, della sua principale forza politica, il lavoro. I sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, ma non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai palesemente oligarchiche, di contro alla partecipazione democratica oltre che, strutturalmente, con la sostenibilità ecologica. Le vecchie ricette incentrate sulla domanda non hanno realmente più margini di applicazione finanziaria, in una crisi strutturale di queste dimensioni e profondità. Le caduche rappresentanze sindacali appaiono simulacri non meno dei partiti politici, di cui sono un duttile amalgama, e solo una socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio può essere intesa come reale partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese e al destino della comunità politica d’appartenenza. La crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo”, che si sono sempre più chiaramente manifestati negli ultimi decenni, impone anch’essa che le forze dell'economia reale, invece di rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione, socializzandola nella consapevolezza della sostenibilità ecologica, nel campo dell'energia, della tecnologia, dei servizi, dei beni d’uso e consumo, e orientandola verso prodotti a basso impatto, di elevata qualità culturale e durata; un mutamento di paradigma, questo, in grado di dare un nuovo dinamismo ai sistemi produttivi, in chiave di evoluzione più che di crescita quantitativa. Solo rivedendo in chiave comunitaria le forme della partecipazione popolare, si può pensare di liberare l'economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro, senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un simulacro oclocratico.
È ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi della “forma capitale”, per dirla con Alain de Benoist, dal “capitalismo pneumatico”. La finanziarizzazione economica spinge le società alla crescita facendo leva sulla dipendenza dal denaro fine a sé stesso e sulla disperazione che ci motiva a procurarcelo, quando il benessere, anche materiale, è una conseguenza naturale della compiutezza di se stessi in relazione agli altri: di fare ed essere “comunità”. È da praticare, concettualmente e operativamente, la via della “de-globalizzazione”, per lo smantellamento delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, al fine di ridare autorevolezza alla sovranità politica e dare una nuova sostenibilità all’economia locale, regionale e alle politiche commerciali mondiali. Si dovrebbe pensare a un altro tipo di ricchezza, a un altro tipo di benessere, a un altro modo di lavorare, a un altro modo di relazionarsi tra le persone, in antitesi a quello che passa attraverso l’utile. In tal senso, è una prospettiva realistica, quella di parlare di post-crescita indicando la necessità e l'urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante di una crescita e di uno sviluppo illimitati. La società della “crescita illimitata” non è auspicabile per almeno tre motivi: dispensa un benessere materialistico illusorio, incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e, infine, non offre un tipo di vita filosoficamente e spiritualmente giusto, buono, conviviale e comunitario. È una “anti-società” malata della propria ricchezza, del proprio egoismo, della propria avidità. Il miglioramento del tenore di vita, di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei Paesi "sviluppati", è un'illusione; eppure, in nome della crescita europea, l’Italia ha sacrificato il suo fondamento costituzionale, approvando, senza dibattito e consenso pubblico, il disegno di legge di ratifica del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (il cosiddetto “fiscal compact”). Il Parlamento ha spostato la sovranità dal popolo (come recita l’art. 1 della Costituzione) alla burocrazia europea. In pratica, l’adesione impone all’Italia di tagliare per 20 anni 45 miliardi di debito pubblico all’anno; a questo esborso va aggiunto quello previsto dal Trattato istitutivo del MES (Meccanismo europeo di stabilità), ratificato contestualmente al fiscal compact, che impegna l’Italia a versare 15 miliardi in 5 anni per la realizzazione di un fondo “paracadute” per le banche. Quella che può essere considerata una vera e propria cessione all’Europa della sovranità politica economica e fiscale, è irrigidita da una serie di clausole “di rigore”, tese a sanzionare gli inadempienti con una multa, che può arrivare fino allo 0,1% del PIL. Un Paese, dunque, non può rifiutarsi né di ridurre il debito, né di obbedire alle correzioni richieste; secondo il principio: socializzare le perdite e privatizzare i profitti.
È in tale contesto che va posta la questione dell’Euro. Moneta imposta senza referendum popolare, strumento finanziario controllato non dai popoli europei, ma da banche private che, per loro natura, agiscono mirando a propri interessi particolari e non al benessere comune. Più che discutere superficialmente sull’euro e su un improbabile ritorno al pregresso, bisogna intendersi sulla sostanza dell’emissione di una moneta. La sovranità monetaria non è cedibile, e all’oggi il popolo si ritrova debitore di quella moneta di cui, invece, dovrebbe essere detentore, in quanto essa acquista valore solo perché i cittadini l'accettano come strumento di scambio o mezzo di pagamento, creando così valore monetario. Non è tollerabile che in una comunità politica, la funzione costituzionale della sovranità monetaria sia esercitata da una società per azioni (S.p.A.) con scopo di lucro. Senza la riconquista di una completa e operativa sovranità monetaria e di un ricollocamento del debito pubblico all’interno della potestà delle economie locali dei popoli europei, il tentativo di uscire dalla crisi è illusorio. Senza sovranità monetaria, ci può essere solo la resa incondizionata alla giunta del potere finanziario.
Qui si critica la logica sistemica espressa dall’Unione Europea e dalla Bce, non l’Europa; ma, in assenza di titolarità politica della valuta, è legittimo e conseguente recedere, per ridiscutere le modalità pattizie confederative; siamo infatti di fronte a un meccanismo eterodiretto, oligarchico e tecnocratico, che nella finzione del proceduralismo democratico mostra in tutta evidenza una vera e propria deriva dittatoriale dell’economico. Così, l’intera Europa viene posta sotto la tutela di una nuova autorità, priva di qualsiasi legittimità partecipativa, che assegna il potere alla cosiddetta “governance” dei mercati finanziari, rendendoli completamente liberi di imporre ai popoli il proprio volere. Una dittatura del denaro, al posto della sovranità dei popoli.
L'Islanda, travolta dalla crisi finanziaria, dalla recessione e dalla “austerità”, ha letteralmente cacciato i controllori del Fondo monetario internazionale, com’è ben descritto da Andrea degl’Innocenti in Islanda chiama Italia (Arianna Editrice). Le banche d'affari in difficoltà sono state abbandonate al loro destino e quelle di interesse nazionale sono state nazionalizzate. Al popolo, strozzato dagli istituti di credito, è stato tolto il 40% degli interessi passivi ed è stata cancellata una grossa fetta dei debiti. Geir Hilmar Haarde, il primo ministro islandese del governo che ha gestito la crisi economica ubbidendo alle imposizioni della finanza internazionale – ruolo, in Italia, svolto prima da Mario Monti e ora ricoperto da Enrico Letta – è stato deposto e messo sotto processo. Il tribunale lo ha condannato per «non avere preso le iniziative per assicurare un'analisi completa e professionale del rischio da parte dello Stato a fronte della crisi finanziaria».
In Ungheria, il governo di Viktor Orban ha varato una nuova Costituzione e promosso una graduale statalizzazione della Banca centrale, con la conseguente riappropriazione della proprietà della moneta; ha cacciato i controllori del Fondo monetario internazionale e, con un anno di anticipo sugli impegni assunti, ha saldato il debito di 20 miliardi di euro. Contemporaneamente, ha portato l'economia fuori dalla zona di recessione e ha abbassato il tasso di disoccupazione; ha ridato impulso all'agricoltura, impedendo l'acquisto di terreni da parte degli speculatori esteri e stanziando contributi a fondo perduto a favore delle aziende agricole: esattamente il contrario di ciò che sta avvenendo nella maggior parte delle nazioni europee. Per evitare di incappare negli ingranaggi delle speculazioni finanziarie e monetarie, lo Stato magiaro sta cercando di adottare un metodo di scambi internazionali, basato sul sistema “merci contro merci”, come già fanno il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica. I debiti pubblici di questi Paesi sono tra i più contenuti del mondo: India, 58% del PIL; Brasile, 45%; Sudafrica, 39,9%; Cina, 18%; Russia; 6%. Una combinazione?
Che le democrazie rappresentative siano oggi in crisi e in declino, è ormai evidente agli stessi demagoghi che le praticano. Negli ultimi anni, i costi della spettacolarizzazione mediatica e commerciale della politica sono esplosi: negli Stati Uniti, le lobby economiche decidono chi deve essere il vincitore delle campagne elettorali; in Italia, il degrado della professionalizzazione del potere, tra privilegi, clientelismo e corruzione, non ha pari. La globalizzazione dell'economia e della finanza ha ridotto la sovranità degli Stati nazionali e i politici sono comparse prezzolate per decisioni che sovrastano il loro ruolo e la loro statura, a scapito di un'etica del servizio pubblico. Il discredito della politica ha prodotto un'invasiva presenza della magistratura nella vita pubblica, palesando così l'ipocrisia del dettato liberale che separerebbe il potere giudiziario da quello legislativo ed esecutivo. Vi è una tale mancanza di sostanza e di adesione alle istituzioni che diventa scontato, per le delegittimate classi dirigenti, identificare demagogicamente nel “populismo” l'ennesimo nemico di comodo, capace di puntellare la crisi sistemica, quando invece l'istanza partecipativa e comunitaria è l'unica titolata a esprimere – per dirla con le parole del compianto Costanzo Preve – il «popolo al potere». In tale contesto, sono ovviamente mutati anche i rapporti fra politica interna e politica estera: la propaganda ideologica dei "diritti umani" e la pura menzogna propalata dai mezzi di informazione accomunano gli interventi militari, le cosiddette “guerre umanitarie”, che in realtà impongono l'occidentalizzazione del mondo. Storicamente parlando, la crisi odierna della liberaldemocrazia ricorda quella del primo Novecento, la quale sfociò in una deflagrazione mondiale, che all'oggi avrebbe implicazioni planetarie e ancora più devastanti.
Non sembri, quindi, disgiunto da tutto ciò il TAFTA (Transatlantic Free Trade Area), l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d‘America, solitamente definito dai suoi promotori come una “NATO economica”, approfondito dall’autore nell’ultimo capitolo del presente libro, ma non ultimo per rilevanza critica. Una tale designazione rivela non solo quale sia l’importanza strategica, che gli viene attribuita ben oltre una dimensione strettamente commerciale, ma anche come i paesi della NATO si stiano predisponendo sul campo economico con delle logiche mentali, che ricalcano quelle militari e rimandano a quelle della “guerra fredda”, evidentemente mai abbandonate anche dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e oggi semplicemente aggiornate in un’esplicita vocazione di egemonia planetaria. In realtà, la NATO, sin dalla sua fondazione, ha costantemente rivendicato un ruolo di direzione economica generale dei Paesi membri, ben al di là degli aspetti puramente connessi all'industria militare, visto che, in base all'articolo 2 del trattato istitutivo, si è assunta una funzione esplicita di controllo e indirizzo dell'economia, e non solo rispetto ai Paesi membri, ma anche a livello globale. Per Washington, è di primaria importanza coinvolgere in questa strategia un’Europa subalterna, quale conditio sine qua non del proprio predominio planetario. Le nazioni europee appartenenti alla NATO, se da un punto di vista politico-militare sono già inquadrate e “ingabbiate” all’interno dell’alleanza, da un punto di vista economico avrebbero – sulla carta – la libertà di approfondire dei legami multilaterali e magari eurocentrici o euroasiatici. I rapporti economici, però, se intesi comunitariamente, quindi nell'appropriatezza del mandato all’autorità politica e di relazioni internazionali tra liberi e indipendenti sovranità, non rientrano nel dettato occidentale, quando invece, in controtendenza, l’Europa può rinascere solo attraverso processi di partecipazione e di affermazione di principi decisamente antiliberisti, che pongano al centro del confronto politico il lavoro, la sostenibilità ecologica e il bene comune, ridando quindi al popolo – di contro ai potentati economico-finanziari – la sovranità.
L'usura – ovvero il prestare denaro, a tassi di interesse talmente alti da rendere di fatto il rimborso impossibile – è considerata universalmente un’ignominia etica, oltre che un crimine in materia giuridica. Il comportamento dell’usuraio è stato condannato nei secoli dalle più autorevoli figure filosofiche e letterarie, come Aristotele, Dante, Giordano Bruno, Shakespeare, Dostoevskij e Pound. L’usura è stata sempre concepita come un male irrisolto dell’assetto sociale del presente e del passato, tanto da essere definita da Aristotele un delitto contro natura e bollata da Dante nei versi «usura offende la divina bontade»; Giordano Bruno nel De Immenso scrive «La sapienza e la giustizia cominciarono ad abbandonare la Terra allorquando i dotti, organizzati in sette, cominciarono ad usare la loro dottrina a scopo di lucro. Sia la religione che la filosofia giacciono annullate da simili atteggiamenti, sia gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi, ai principi e ai popoli»; Shakespeare, altro poeta, dedica a questo tema il Mercante di Venezia, in cui l’ebreo Shilock, ricco usuraio, ripudia il generoso mercante veneziano Antonio perché presta denari senza interesse. Con il passare degli anni, l’avidità dell’usuraio si confonde con il personaggio dell’avaro, usato da molti autori – tra cui ricordiamo Molière e Dickens – sino a giungere agli scritti di Dostoevskij, che in Delitto e castigo suffraga il protagonista Raskolnikov nell’atroce assassinio di una vecchia usuraia, che soffoca con i suoi prestiti il quartiere. Qualche secolo dopo, nella stessa maniera, risultava inconcepibile al poeta statunitense Ezra Pound il fatto che le banche creassero denaro dal nulla, con semplici operazioni contabili; per questo, egli fu uno dei primi, nel Novecento, a schierarsi come nemico dell’usura, sostenendo che spettava solo allo Stato la facoltà di prestare la moneta e che quest’ultima, sulla scia delle teorie di Silvio Gesell, non doveva ingenerare inflazione. L’idea economica poundiana è rintracciabile nell’opuscolo Oro e lavoro, in cui nella Repubblica dell’utopia il popolo non adora la moneta come un dio e non lecca le scarpe dei borsisti, non è costretto a fare guerre per il piacere degli usurai e non lavora più di cinque ore al giorno. L’ideale era quello etico di un’umanità libera dall’avidità di moneta e dalla fatica, con più tempo libero e con risorse gestite ed equamente distribuite da uno Stato sociale comunitario.
L’universo mondo è invece oggi intrappolato in un terribile circolo vizioso utilitaristico. Chi ha proprietà sulla moneta, presta intenzionalmente denaro e ne chiede di più al momento del rimborso. Siamo in presenza di una crisi sistemica senza precedenti, prodotta da questa logica perversa, che può perpetuarsi solo nella rassegnazione e nell’abbrutimento della dignità personale e della vita associata. Che sia giunto il punto di non ritorno?
Rispetto a quella odierna, nel cui nome il denaro esercita il suo potere sull’uomo, è possibile un’altra Europa, gelosa del suo patrimonio di biodiversità culturali e profondità spirituali, caposaldo di dignità ed espressione comunitaria delle sue identità locali? 



Questo articolo  è una versione ridotta dell'introduzione al nuovo libro di Alain de Benoist, di imminente pubblicazione per la Arianna Editrice.

Fonte:  “La Voce del Ribelle”

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