giovedì 12 giugno 2014

GABRIELE REPACI: De Benoist e la mondializzazione



Che cos’è la mondializzazione? E’ un fenomeno ineluttabile oppure si tratta di qualcosa di reversibile? L’unificazione monetaria europea è stata vantaggiosa per i popoli del Vecchio Continente o al contrario li ha immiseriti? A questi quesiti tenta di dare una risposta Alain De Benoist nel suo ultimo libro La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, Arianna Editrice, p. 128. In quest’opera che si pone come completamento del suo precedente volume Sull’orlo del Baratro il pensatore francese analizza le cause della depressione che sta colpendo l’economia europea le quali vanno ricercate in una crisi generale del capitalismo globalizzato affermatosi in tutto il mondo a partire dalla caduta del muro di Berlino e la fine degli ultimi stati socialisti. Quella che sta affrontando l’Europa spiega De Benoist non è una semplice recessione economica ma una vera e propria perdita della sua sovranità. In passato infatti  il potere dei singoli stati nazione poggiava su alcuni principi fondamentali: la sovranità economica, quella militare ed infine quella culturale. La prima è stata eliminata attraverso la liberalizzazione dei mercati finanziari che ha reso impossibile alle autorità politiche di influire sulle decisioni di natura economica. Se esse prendessero misure controcorrente come la nazionalizzazione del sistema creditizio e delle leve fondamentali dell’economia indurrebbero gli investitori stranieri a portare i propri capitali altrove provocando il collasso economico del paese.
Attraverso la NATO e le molteplici basi militari americane sparse per il proprio territorio l’Europa non gode più, almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, di una sovranità politico-militare.
Per ciò che riguarda l’aspetto culturale la globalizzazione non ha fatto altro che accelerare il processo di americanizzazione dell’Europa. La lingua inglese in alcuni paesi, soprattutto in quelli Scandinavi, è parlata più dell’idioma nazionale. Attraverso i film di Hollywood o programmi televisivi come MTV  gli Stati Uniti hanno plasmato il nostro modo di fare erodendo pian piano gli usi e i costumi dei popoli europei.
Che fare allora? Nel suo libro De Benoist abbozza un programma che egli definisce di «demondializzazione» il quale consiste a detta dell’autore nell’applicazione di un protezionismo su scala europea, nel ritorno concordato alle singole monete nazionali, nella statalizzazione delle banche (accompagnata dalla creazione di un credito socializzato), nella tassazione delle transazione finanziarie, nel far scomparire i paradisi fiscali e nell’annullamento del debito. Ma quali forze politiche attualmente potrebbero farsi carico di un tale programma? Non certo le destra che ormai ha interiorizzato a livello ideologico i dettami neoliberisti, ma nemmeno la sinistra neanche quella radicale. Quest’ultima infatti pur opponendosi al liberalismo economico ne difende quello societario che è alla base del primo. Confondendo il protezionismo con l’autarchia essa difende la libera circolazione dei capitali.
Per questo motivo categorie come destra e sinistra secondo De Benoist vanno superate per dare vita a nuove sintesi in grado di comprendere la realtà contemporanea.
L’odierno capitalismo infatti non è né di destra né di sinistra o meglio è sia di destra che di sinistra. E’ di destra nell’economia ma è a sinistra nel costume. Criticarne l’aspetto meramente economico senza mettere in discussione quello sociologico  è un po’ come pensare che la febbre sia la causa della malattia.
Al contrario di quanto sostengono gli odierni riformisti non esiste alcuna possibilità di trasformare l’attuale U.E. in una confederazione solidale di popoli, in quanto essa sta svolgendo benissimo il compito per la quale è stata fondata ovvero eliminare l’«eccezione europea», basata su un modello misto di capitalismo stato-mercato, ed integrare pienamente l’economie dei paesi membri nel modello americano fondato sul liberismo selvaggio.
Privando gli stati dell’arma della svalutazione monetaria per rilanciare l’economia, l’Unione Europea costringe le nazioni facenti parte dell’area euro ad una politica deflazionistica messa in pratica attraverso una pressione al ribasso sui salari la quale non può altro che avere effetti negativi sulla domanda interna.  I teorici dell’austerità hanno spesso controbattuto a tale affermazione argomentando che gli introiti derivanti da una crescita alimentata dall’esportazioni compenserebbe la caduta della domanda aggregata. Tuttavia il proposito di trasformare l’Europa in una «grande Germania», ovvero un enorme macchina produttiva trainata dal commercio estero è destinata a fallire. Storicamente tale strategia ha funzionato solamente attraverso un potente «motore» della domanda effettiva che nel caso di Berlino sono stati paesi della periferia europea. Ma se anche questi ultimi iniziano a portare avanti una politica di moderazione salariale e tagli alla spesa pubblica allora l’intero continente andrà incontro a una recessione dagli effetti potenzialmente devastanti.  
Personalmente lo scrivente non si trova d’accordo con l’affermazione del giornalista Marcello Veneziani secondo il quale  il rischio della proposta di De Benoist «è che, alla fine, alla dittatura della tecno-finanza resti a opporsi solo la rozza demagogia dei populismi che sanno inveire e demolire, ma non saprebbero poi come costruire e selezionare» (cfr. Marcello Veneziani, Idee forti per abbattere la monarchia finanziaria, Il Giornale, 26 maggio 2014).
Al contrario a mio parere la demagogia e il populismo prosperano proprio laddove il potere politico mostra la propria vulnerabilità. Quando le istituzioni si mostrano deboli ed incapaci di affrontare l’influenza dell’economia sulla vita pubblica si creano le condizioni affinché le masse popolari seguano i progetti di leader megalomani e folli. La triste parabola della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo ne sono un esempio. Al contrario di quanto è comunemente pensato infatti a spianare la strada a Hitler non fu l’iperinflazione degli anni venti, bensì la politica monetaria e fiscale iper-restrittiva  del cancelliere Brüning.
Lo stesso discorso lo si potrebbe applicare al Movimento 5 Stelle in Italia. Il successo di Grillo è da addebitare integralmente ad una classe politica corrotta ed incapace di dare risposte ai bisogni del paese.

Si tratta di una frase molto attuale sulla quale i politici del nostro continente dovrebbero riflettere attentamente. 

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