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giovedì 5 giugno 2014
MARIO COLELLA: Marco Ciriello e il grande dolore
MARCO CIRIELLO "PER FAVORE NON DITE NIENTE" (Ed. Chiarelettere)
« La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi » (Giacomo Leopardi) «Non ho paura del foglio bianco né del numero di righe da tenere, io ho solo paura della morte, sempre. Per questo scrivo: per non morire » (Marco Ciriello) _______ “Tutto passa ma tutto rimane”, scriveva Pavel Florenskij, in una delle sue più belle lettere dal lager delle isole Solovki. Ma non ditelo al protagonista dell’ultimo libro di Marco Ciriello, classe 1975, scrittore e giornalista avellinese (suoi pezzi su Il Mattino, La Repubblica Donne, Il Foglio). Soprattutto non osate profferire queste parole a chi ha perduto la propria amata, nel suo momento più doloroso, quello del congedo. Si è immersi, allora, in una sofferenza disumana, che “non serve a niente” o che comunque in quel momento non può essere capita, elaborata razionalmente, può essere solo vissuta. Quando il dolore di una perdita, di quella fondamentale, del proprio amore, è così fresco, nulla appare sanabile, recuperabile, reversibile, se non sotto la forma del ricordo che chi vive quella perdita cerca di tutelare. Le parole non servono: devi seguire il tuo Calvario. Trovo questo libro appena uscito per Chiarelettere negli scaffali dello sport, accanto alla terribile autobiografia di Walter Mazzarri e al vecchio must giustizialista “Il calcio alla sbarra” della coppia Beha e Di Caro. Ma, sebbene la striscetta che lo accompagna dice sia ispirato alla storia di Cesare Prandelli, col calcio c’entra relativamente. Mentre ha a che fare con la morte (e l’amore). E nel gioco la possibilità di rifarsi c’è, nella vita “si gioca una volta sola e la sua durata non è nota”. Amore e morte, perdita e dolore sono i pozzi dove “Per favore non dite niente” chiede di immergerti, senza farti troppe domande, ascoltando, osservando un percorso, rispettosamente. Di più dei ragionamenti dice lo stupore, quello che accompagna nella sua discesa agli inferi l’allenatore ed ex calciatore che Ciriello ha scelto come maschera e che il romanzo cerca di trasmettere al lettore. Questo libro è stato investito da alcune polemiche, la casa editrice e lo scrittore sono stati diffidati dalla FIGC, per il presunto danno che ne deriverebbe alla figura del c.t. della nazionale alla cui storia sembra ispirarsi – Prandelli perse la moglie, Manuela, nel 2007, sconfitta dal cancro dopo alcuni anni di lotta che videro il tecnico di Orzinuovi lasciare la panchina della Roma per starle accanto. Ma sorvoliamo su questo aspetto e sulle conseguenti riflessioni che ne scaturirebbero (innanzitutto sul potere in Italia). Non so, non credo che Marco, l’allenatore del libro, sia in tutto e per tutto Prandelli. Non credo che l’uomo narrato da Ciriello avrebbe reagito così (cioè: facendo procedere i legali della FIGC) ad un romanzo così delicato e rispettoso dei sentimenti (di quelli che Prandelli deve aver indubbiamente provato). In ogni caso, l’autore ha ben chiarito che l’intento biografico è lontano anni luce dal suo modo di intendere la letteratura, il compito che essa ricopre, richiamando Balzac: «mandare in corto circuito la realtà del lettore, fino a portarlo a quella che potremmo chiamare “soglia Balzac”, da una affermazione dello scrittore: “un romanzo deve essere una cosa inaudita”». In un gioco di feedback che questo romanzo innesca, che ad alcuni ha ricordato i romanzi russi, mi viene in mente un’altra storia di dolore e sacrificio, certo assai diversa, quella dell’apocalittico “La strada” di Cormac McCarthy. Magari all’autore non sarà gradito l’accostamento, oppure no, ma anche qui è percepibile come il percorso dell’uomo sia connotato dal sacrificio nonché dalla necessità di prosecuzione di un cammino nel mondo. “Quale il colore del dolore? E’ davvero il nero come dicono?”, chiede il protagonista di un altro capolavoro di McCarthy, “Sutree”. Il Marco del romanzo di Ciriello risponderebbe probabilmente che il dolore non ha colore, per chi lo vive nella perdita del proprio amore, quanto l’assurdo, l’insensato, il vuoto. Ma se esso è inutile, è pur vero che “il senso dell'utile e dell'inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l'elemento diabolico della vita”, come recita la citazione riportata sotto il titolo (che è di Salvatore Satta). Non resta allora che viverla, questa sofferenza, come fa Marco, sprofondando in essa, da uomo libero. Ché la libertà non è il capriccio dei moderni quanto il pasoliniano “vivere nelle cose”, l’apertura all’ignoto che costringe al nomadismo, al viaggio in spazi non nostri, alla contemplazione del tormento che fa tacere gli idoli, per rendere quell’assenza, infine, presenza.
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