Intervista a cura di: Antonello Cresti
Il tuo testo è,
innanzitutto, frutto di un'evidente passione personale. Come è nato il tuo
innamoramento per la realtà islandese?
Mi piacerebbe
raccontare di una qualche passione infantile per vichinghi e folletti, geysir e
cascate ma la verità è che è nato tutto un po' per caso. Fino a una manciata di
anni fa dell'Islanda sapevo ben poco, non sapevo bene neppure dove si trovasse.
Poi a partire da tre anni a questa parte hanno iniziato a giungermi voci sempre
più insistenti riguardo a ciò che stava accadendo lassù. Mi si diceva degli
anni di neoliberismo sfrenato che avevano condotto il paese prima alla
ricchezza poi sul baratro in seguito all'esplosione della bolla finanziaria, mi
si raccontava della crisi e delle rivolte che avevano costretto il governo alle
dimissioni, assieme alle istituzioni di controllo finanziario. Infine del
rifiuto di socializzare il debito delle banche e di una nuova costituzione
scritta in maniera partecipata. I racconti che mi raggiungevano avevano spesso
contorni fiabeschi ma non mancavano di incuriosirmi. Così ho deciso di
approfondire. E più approfondivo,più mi appassionavo a questa vicenda e a
questo paese del tutto originale, in cui le persone si chiamano solo per nome e
dove gli elfi esistono per davvero. Il resto è venuto da sé: prima una serie di
articoli, poi il viaggio, infine il libro. Adesso sì lo posso dire, ho una vera
e propria passione per l'Islanda.
Il caso islandese
dimostra se non altro che anche nella odierna società globalizzata è possibile
scegliere autonomamente il modo in cui si vuole vivere. D'altra parte è facile
eccepire che certi esperimenti sono difficilmente replicabili in realtà sociali
e politiche più complesse (come la nostra). Come rispondiamo a questi dubbi?
Sicuramente la
realtà islandese è molto distante da quella italiana, sia per le dimensioni
dell'isola, che per la sua popolazione esigua, che per la relativa marginalità
della sua economia rispetto ai circuiti globali. Tuttavia alcuni messaggi che
giungono dalle vicende islandesi sono a mio avviso universali. In primis
proprio l'idea di riappropriarsi del diritto di scelta. Penso che il diritto di
scegliere -quella libertà che viene sdoganata come valore fondante della
democrazia contemporanea- non sia mai stato tanto distante da noi quanto adesso.
È vero che a differenza di quanto accade in regimi non democratici niente ci
viene precluso attraverso un divieto esplicito, ma possiamo parlare di libera
scelta quando non abbiamo gli strumenti per scegliere? Innanzitutto il nostro
ventaglio di scelte è stato ridotto alle sole scelte di consumo: si può
scegliere un prodotto piuttosto che un altro fra le quasi infinite possibilità
messe a nostra disposizione dal mercato ma non si può scegliere di non
consumare, a meno di non accettare un'esclusione eremitica dalla società.
Secondo, neppure nelle scelte di consumo possiamo dichiararci liberi: lo
saremmo se avessimo davanti agli occhi le conseguenze delle nostre scelte, ma
non è così; noi abbiamo a che fare solo ed esclusivamente con prodotti finiti
senza sapere niente del loro passato né avere alcun presagio sul loro futuro.
Non vediamo come è stata fabbricata una certa maglietta, chi ci ha lavorato,
con quali sofferenze; non vediamo le persone ammalarsi e morire a causa del
coltan che serve a fabbricare i nostri smartphone; neppure vediamo la plastica
che gettiamo ammassarsi nelle discariche, il percolato colare nel terreno fino
ad inquinare le falde acquifere. Viviamo nel magico mondo del consumatore,
ovvero quel breve intervallo che sta fra gli scaffali del negozio e il secchio
dell'immondizia. E l'inganno peggiore del regime contemporaneo è che, mancando
dei divieti oggettivi, pensiamo di essere liberi. Dobbiamo ritrovare la
consapevolezza delle nostre azioni. Con questo non voglio dire che in Islanda siano
riusciti a cambiare del tutto paradigma, che sia il paese perfetto (ci sono
anche persone che sono convinte che sia cambiato ben poco a livello di
mentalità e che quello che la gente vorrebbe davvero sarebbe di tornare al
benessere pre-crisi). Piuttosto quello che intendo è che la prima rivoluzione
di cui abbiamo bisogno è una rivoluzione culturale, e quella non dipende dalle
dimensioni né dall'importanza geopolitica di un paese.
Dunque se
dovessimo riassumere, cosa ci insegna la vicenda islandese?
Andando più al sodo, ci sono alcuni punti che emergono dalla
vicenda su cui sarebbe utile riflettere. In primis un ritrovato primato della
politica -intesa non tanto e non solo come politica istituzionale ma
soprattutto come partecipazione attiva della cittadinanza- sulla finanza.
Primato confermato anche dalle ultime decisioni del governo islandese di non
rimborsare i fondi speculativi che avevano scommesso sul fallimento delle
banche durante la crisi economica e di aiutare i cittadini a pagare i mutui con
i soldi così risparmiati (qui un approfondimento:
http://islandachiamaitalia.wordpress.com/2013/12/03/islanda-vs-finanza-internazionale/).
Altro punto fondamentale della vicenda è stato a mio avviso la capacità di
passare da un momento di protesta ad uno di costruzione. Terzo, la sconfessione
di alcuni dogmi della società contemporanea, in particolar modo quello della
socializzazione dei debiti privati, che diventano pubblici se il privato
fallisce.
L'insofferenza
nei confronti delle politiche iperliberiste sembra al suo massimo un po'
ovunque, eppure ancora si faticano a vedere i segni di un movimento di
liberazione individuale e collettiva davvero in grado di mettere in seria
discussione l'esistente. Come mai?
Penso che le cose stiano in parte già cambiando. Ci sono
centinaia di realtà che anche da noi iniziano a mettere in pratica dal basso
sistemi e paradigmi diversi, con risultati sempre più confortanti. Il fatto è
che lo fanno in maniera silenziosa, per cui spesso non ce ne accorgiamo. Il
potere contro cui si ribellano è liquido e sfuggente, non ha castelli né
roccaforti da assaltare. Questa nuova rivoluzione non avviene nelle piazze ma
piuttosto negli individui e nelle loro relazioni sociali; piuttosto che
distruggere tesse. Un limite oggettivo ad oggi è una forse eccessiva
frammentazione di queste realtà, dovuta a tutta una serie di differenze e di
dinamiche umane e sociali. Probabilmente sarà questa la sfida per il vero
cambiamento: trovare una formula perché questo fermento di cambiamento dal basso
riesca ad andare “a sistema” senza stravolgere le differenze e le particolarità
che lo caratterizzano.
Gli ambienti
della cosiddetta "decrescita felice" sono probabilmente tra le
alternative più interessanti tra quelle messe in campo contro la "Megamacchina".
Anche in Italia qualcosa si sta muovendo. Ti andrebbe di fare una panoramica
delle realtà più interessanti che operano in questo senso nel nostro paese?
C'è una enorme varietà di realtà di questo tipo per cui è
difficile essere esaustivi: mi limiterò a citarne alcune delle più diffuse. C'è
il Movimento per la decrescita felice,
che si articola in circoli attivi su tutto il territorio nazionale, in cui si
impara l'autoprodizione e a vivere meglio consumando meno. Ci sono le città in
transizione (transition town), che cercano di ridurre al minimo l'utilizzo di
combustibili fossili. C'è Arcipelago SCEC che è nata attorno ad una moneta
complementare, lo SCEC appunto, e usa questo strumento come volano per
diffondere istanze di cambiamento dal basso e per portare avanti progetti
all'avanguardia come NOInet, una rete mesh wi-fi di basso costo di proprietà
dei cittadini. Poi potrei parlare di tutto l'universo dei Comuni Virtuosi,
associazione cui aderiscono amministrazioni all'avanguardia nelle tematiche della
riduzione dei rifiuti, della sostenibilità ambientale, del consumo di suolo.
Oppure di Etinomia, la rete di imprenditori, commercianti e professionisti
etici della Val di Susa, che stanno implementando nuovi modelli economici
basati sulla cooperazione e sullo sviluppo dei circuiti locali. E al di là
delle associazioni e delle realtà più conosciute, ci sono migliaia di persone
che conducono la loro personale battaglia attraverso scelte di vita differenti:
fenomeni come il downshifting, l'autoproduzione, il ritorno alla campagna sono
sempre più diffusi. La cosa forse più confortante è che c'è una grossa
convergenza dal basso sui contenuti, anche se non sulla forma.
Basta con questa storia che l'Islanda possa essere il modello per l'Italia! Io sono islandese e conosco bene gli Italiani e l'Italia e non vedo come l'Italia possa imparare dall'Islanda. Noi Islandesi siamo un popolo fiero, orgoglioso e unito, con profonde radici nella storia, nella cultura, nella lingua di un'isola che ha il parlamento più antico del mondo. Forse 150 anni fa potevate essere l'Islanda, allora avevate anche voi i vostri parlamenti (peresempio quello siciliano, che risaliva ai tempi della nascita del Regno di Sicilia, ad opera dei Normanni, miei antenati...) ma a quanto mi risulta avete preferito cestinare le vostre antiche istituzione e crearne di nuove imposte dall'alto e scollegate dalla storia dei vari popoli che componevano da millenni l'Italia. Lo so non è colpa vostra: è colpa della Francia e dell'Austria che volevano farla da padrona in casa vostra. Ma oggi con la NATO e l'Unione Europea avreste potuto far qualcosa per salvare il salvabile o restaurare un po' del vostro patrimonio di cultura politico-giuridica che ha prodotto Marsiglio da Padova, Verri e Beccaria, invece avete perseverato, vi siete trasformati in una nazione televisiva adoratrice del Berlusconi di turno. E adesso usare l'Islanda come modello mi sembra impossibile! Spero tanto di sbagliarmi, ma temo di no! In ogni caso buon lavoro e che Dio ve la mandi buona!
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