Ho
finalmente visto La grande bellezza, a casa sullo schermo 54 pollici e
col surround DTS, dopo un anno dalla sua uscita nelle sale e a circa un mese
dall'onorificenza americana. Soprattutto, dopo le esasperate denigrazioni che
ne sono derivate sul web, dove chiunque si è sentito in dovere di sparare
contro il film e il suo regista, con argomenti che con il cinema e l'arte hanno
raramente a che vedere. Si è detto che il film sarebbe stato girato per
compiacere gli americani, dando dell'Italia e degli italiani un'immagine
degradata o folcloristica; che si tratterebbe di un prodotto radical chic,
espressione di una sinistra intenta a guardarsi il proprio ombelico, lontana
dai “veri problemi degli italiani”, attanagliati dalla crisi e dalle grinfie
dell'Euro.
C'è
anche stato chi ha espresso critiche più tecniche o attinenti alle scelte
registiche di Sorrentino, e bisogna riconoscere che talvolta si è trattato di
critiche fondate. Il film è caratterizzato da un certo autocompiacimento,
tipico di quelle opere in cui l'autore ha parecchio da dire ma si convince che
la propria padronanza espressiva e formale (indubbia in Sorrentino) gli sia
indispensabile per dirlo, insieme a una conoscenza dello strumento
cinematografico e della sua storia, infusi in ogni millimetro di pellicola.
La
grande bellezza gronda cinema e
citazioni, palesa gli autori di riferimento (Fellini su tutti) senza neppure
filtrarli, al limite del plagio, spiattella rallenti e piani sequenza non
sempre necessari e qualche inquadratura storta o capovolta di troppo. Fellini è
inimitabile per la sua stessa, ingombrante, originalità. Appartiene a quegli
autori (come Hugo Pratt nel fumetto), che hanno finito per diventare essi
stessi autoparodistici. Averli come riferimento comporta, inevitabilmente, mettere
in luce i propri limiti, anche quando si è registi d'indubbio talento come
Paolo Sorrentino; anche quando ci si può permettere un attore del calibro di
Toni Servillo. Chi ha scritto che Sorrentino ci tiene a farci notare che sa
girare un film alla maniera di, non ha tutti i torti. Il manierismo
permea La grande bellezza come tutto il cinema contemporaneo. Detto
questo, rimane da capire se dal manierismo ne esca bene o male. Secondo me ne
esce meglio che peggio, almeno dal resto del cinema italiano attuale, che non
ha nemmeno il coraggio di essere cinema.
La
grande bellezza non sarà un
capolavoro, ma è cinema. Cinema come in Italia non se ne fa spesso. Non più,
almeno. Dev'essere per questo che il web non l'ha ben trattato dopo la notizia
dell'Oscar, secondo me meritatissimo: il linguaggio dei social network e dei
forum, spesso riconducibile a un mi piace o un non mi piace, mal
si adatta a un'opera metacinematografica e metaletteraria che richiede un certo
grado di cultura e di capacità interpretativa. Appiattendolo sul presente, il
web ha dato molto risalto alle (pseudo)interpretazioni politiche, che secondo
me non sono che la l'epidermide del film. Un film che invece ci parla di morte
e di spreco della vita. Che osa suggerire come vie di salvezza non l'uscita
dall'Euro o la militanza politica, ma il sacerdozio dell'arte o la trascendenza
attraverso il dolore.
Questo
è cinema, e il cinema non deve per forza parlarci della crisi per essere bello.
E nemmeno la letteratura. Per fortuna, direi! La crisi, finirà, in un modo o
nell'altro. Forse anche il cinema è già finito, nato come intrattenimento scemo
e tornato tale nel giro di un secolo, tutto giochetti ed effetti, dopo che
splendidi artisti (come Fellini, Bergman o Welles...) o splendidi artigiani
(come Ford, Hitchcock o Monicelli...) hanno saputo dirci cose inedite sull'uomo
e sul tempo che gli è toccato vivere. Ma non è finita la sua missione, che è
poi quella dell'arte. Meglio un film imperfetto, a tratti manierista, che
riesce a dire qualcosa su di noi, su cosa siamo diventati, sul vuoto che
viviamo, rispetto a un film magari perfetto ma vuoto.
Di
certo La grande bellezza non è un film radical-chic, già solo per il
modo in cui s'interroga sull'arte, lo scopo della scrittura e il ruolo dello
scrittore. Il modo in cui Jep Gambardella smonta la scrittrice e intellettuale
militante Galatea Ranzi ne è una chiara dimostrazione. Lo scrittore non si
nasconde dietro all'ipocrisia, va dove gli altri non vanno; e se vive una crisi
creativa, preferisce dichiarare pubblicamente la propria dissipazione. La
mondanità se ne frega dei libri veri, del tempo che occorre per scriverli, la
solitudine che comporta. La mondanità si occupa di artisti come la Abramovic,
la De Filippi dell'arte contemporanea, che il film dissacra con un altro nome.
Trascura il pianto di una ragazzina che lancia colori contro una tela per
ordine dei suoi genitori, che si arricchiscono grazie a lei. La mondanità se ne frega anche della fede e
della trascendenza: ai mistici, agli asceti e ai santi, preferisce i cardinali
che parlano di cucina.
La
mondanità non sa che farsene neppure della morte, che con la sua routinaria
sacralità interrompe la frivola routinarietà dei trenini mondani. Jep è un
sessantacinquenne che vede morire le persone attorno a sé, ma passa avanti,
come se gli affetti davvero importanti non dovessero mai lasciare il segno
dentro di lui. Eppure sono questi i veri affetti che potrebbero costituire il
suo secondo romanzo mai scritto, dopo il primo romanzo scritto in un'epoca
lontana. Per scrivere qualcosa d'importante bisogna dare importanza alle cose e
alle persone, metterle in relazione col tempo che ci rimane da vivere. Per poi
scriverne in solitudine e concentrazione. L'arte e la mistica sembrano avere lo
stesso livello di intensità: piacere e sofferenza si uniscono per arrivare a
qualcosa di più intenso e grande. Entrambe fanno quotidianamente i conti con la
morte. Non si fanno trenini mondani, si salgono scalinate in ginocchio e si
mangiano radici. Perché le radici sono importanti.
Non
certo le vibrazioni della Abramovic. Non certo il chiacchiericcio del web.
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