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martedì 11 febbraio 2014

MARIO CECERE: Jean-Claude Michéa e i "misteri" della sinistra


Professore di filosofia nei licei e autore di numerose opere dedicate all'analisi del pensiero liberale e agli esiti politici e culturali totalitari delle sue premesse individualistiche, Jean-Claude Michéa è  tra i piu'  interessanti esponenti di una tendenza controcorrente che,  in Francia e in Italia, (pensiamo a Diego Fusaro e al filosofo Costanzo Preve recentemente venuto a mancare), si stà segnalando  per lo sforzo generoso  di riuscire nell'opera titanica di dissodamento della crosta ideologica che rende attualmente  impensabile l'uscita dall' asfissiante impasse "post-moderna" della fine della storia capitalistica, indicando coraggiosi percorsi alternativi di ricerca, di emancipazione e  di affrancamento, posti sotto il segno di un rinnovato modello politico etico ed economico di esistenza in comune.
Nel testo di cui ci apprestiamo a esporre e a commentare alcune preziose linee guida, Les mystères de la gauche: de l'idéal des Lumières au triomphe du capitalisme absolu, apparso in Francia nel marzo del 2013 e  ancora non tradotto in italiano, Michéa riassume il lavoro di  anni di riflessione storica e filosofica che lo hanno condotto ad affermare, tra l'altro, l'assoluta organicità della "sinistra" al progetto di dominazione capitalista, spiegando che è l'equivocità del termine "sinistra", di cui l'autore ricompone la genesi storica contraddittoria, a generare i numerosi fraintendimenti e la paralisi attuale di molti sinceri anticapitalisti.
 Il capitalismo, che si sviluppa tra l'altro sulle basi dell'antropologia  liberale anti-comunitaria fondata sull'idea hobbesiana di "guerra di tutti contro tutti" e sul paradigma dell' uomo-mercante, "naturalmente" predisposto all'accrescimento smisurato del proprio esclusivo profitto e tornaconto anche  discapito di parenti e amici, sull'idea di Adam Smith del Mercato autoregolamentantesi (Mano Invisibile) e  dello Stato avvertito o come orrendo Leviatano posto a difesa degli interessi mercantili oppure, successivamente, come pachidermico intralcio allo sviluppo di questi ultimi, e al conseguente  libero dispiegarsi automatico delle libertà di un soggetto "autonomo" concepito come ininterrotto flusso di desideri sempre cangianti (Hume) dislocabili a piacere sulla superficia liscia un mondo virtualmente privo di confini ; il capitalismo, dicevamo, si configura idealmente e si determina praticamente come il dominio di un individuo  astrattamente ab-soluto, anonimamente transvalutato nell'impersonalità della società dello Spettacolo e della Tecnica, il quale, apparentemente onnipotente, e invece concretamente impotente, è rigidamente vincolato alle necessità di soddisfare sempre di nuovo i desideri,  per definizione contrastanti e inestinguibili, prodotti continuamente dal Mercato, la cui autoripoduzione si fonda simbolicamente sulla retorica delle libertà individuali formalmente garantite e, materialmente, sulla rimozione di ogni ostacolo, di ogni vincolo, di ogni  limite, fisico o morale, in grado di opporsi, di contenere o di fare da argine  alla sua  volontà di potenza.
 Da qui il configurarsi progressivo  della moderna società  capitalistica  su base prettamente  'negativa', come mobilitazione permanente e bellicosa per la propria legittimazione simbolica e per la propria sopravvivenza materiale, ossia come  necessità variamente articolata,  di contrapporsi sistematicamente a tutto cio' che, ai suoi occhi, costituisce "oscurantismo" e "passato", vale a dire, nel linguaggio della retorica progressista, al  "Male" e all' "ignoranza" prodotto  inevitabilmente dalle società pre-moderne.
  Il capitalismo, infatti, scrive Michéa, che non è affatto conservatore ma "rivoluzionario" (come aveva intuito Preve, che  aveva lucidamente colto nell' evento 'mitico'  del '68 - altro   totem della "sinistra"- il luogo di fondazione simbolica e di trapasso storico del capitalismo su base autoritaria e  borghese otto-novecentesco al capitalismo su base permissiva e anti-borghese contemporaneo), dopo il 1989 divenuto Pensiero Unico, e "fatto sociale totale", riconosce formalmente ogni libertà di espressione e di "stile di vita" a "tutti", ma sempre rigorosamente all'interno del suo esclusivistico circuito di simbolizzazione sociale, presentandosi ormai  "come una totalità dialettica di cui tutti i momenti sono inseparabili (siano essi economici, politici e culturali) e invitano, a loro volta, ad una critica radicale".
Il sistema inedito di legittimazione della società liberale è innanzitutto culturale (postmoderno - da qui il ruolo principe della "sinistra" mediatica e dei guru universitari alla Habermas) e, a differenza di ogni altro sistema politico precedente, soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, esso rifiuta di presentarsi, ed è in cio' risiede  la sua forza, come ontologicamente "buono": non presenta affatto se stesso come il "migliore dei mondi possibili", secondo una stucchevole e insostenibile teodicea, ma piuttosto  come il "meno peggiore" a cui pero' non si darebbero assolutamente alternative, e a cui non resta che adeguarsi ,"virilmente" o "debolmente" dipende dalle opzioni personali, per essere pienamente accettati socialmente.
 Da qui l'impostazione originale del libro di Michéa che si rivolge ottimisticamente a  lettori prevalentemente di sinistra (Michéa, che come Marx o Dàvila, non rivolgerebbe mai a se stesso l'accusa di essere di "sinistra", rivendica la propria appartenenza al campo socialista: ma ad un socialismo radicalmente diverso da quello sedicente "scientifico" della Seconda Internazionale,  a pari distanza, quindi, dal "socialismo storico realmente esistito" dei Gulag e della polizia del pensiero, e che piuttosto è fondato su di una rilettura filosofica su base non economicistica  di Marx e richiama  l'eredità di Proudhon, di Sorel e, soprattutto, di George Orwell, di cui Michéa è grande studioso e ammiratore).
Il "fatto sociale totale" costituito dal capitalismo non è altro che la "gabbia di acciaio" di cui parla Weber, l'orizzonte apparentemente intrascendibile del dominio dell'economico  e del tecnico, del procedurale e dell'"avalutativo", del "fatto", che ha come premessa antropologica  il "calcolo egoista" di un individuo astrattamente ab-soluto; un orizzonte delimitato sonoramente dal mantra  postmoderno del relativismo culturale e  dei valori, socialmente e disciplinarmente dall'estensione illimitata e coercitiva dei "diritti" (la "visione giuridica del mondo" denunciata da Marx e richiamata opportunatamente da Michéa), infine economicamente, dall'ineluttabilità del modo di produzione capitalistico, basato sulla follia , tra l'altro, della crescita illimitata in regime di risorse limitate.
 Nel corso degli ultimi trent'anni, la "sinistra", secondo Michéa, non solo ha integralmente fatto propri i dogmi del pensiero economico liberale, con l'aggravante dell'ingenua quanto rivelativa infatuazione nei riguardi della diffusione delle  "nuove tecnologie", ma oltre ad avere aderito a quella sorta di religione per professori universitari che è il post-moderno, ha fondato la propria identità  sul piano esclusivo della rivendicazione societale della lotta per "i diritti" ( "diritto alla mobilità per tutti, diritto di sistemarsi dove meglio ci pare per tutti, diritto di visitare le pitture rupestri di Lascaux per tutti, diritto alla medaglia della Resistenza per tutti"), senza  avvedersi che di fatto, cosi facendo,essa si iscriveva a pieno titolo nel segmento di quel "fatto sociale totale", che è, appunto, il liberalismo culturale, " il cui metodo consiste a guardare tutti i problemi che una società umana puo' incontrare sotto il solo angolo del Diritto".
 Michéa, che rimprovera alla sinistra di avere abbandonato il piccolo popolo e tradito i lavoratori, oggi costituenti la base elettorale di partiti di "destra" , o populisti, e di avere sacrificato quella che Orwell chiamava la common decency sull'altare dell'infatuazione snobistica e post-sessantottina  della "trasgressione" del costume e della morale tradizionale, del disprezzo dell'"arcaismo" e dell'oscurantismo 'congenito' della gente semplice, ha sicuramente sotto gli occhi sia le recenti polemiche sull'istituzione da parte del governo "socialista" francese   del matrimonio gay (Legge Taubira), sia l'autentica fissazione, o, per meglio dire, il vero e proprio culto celebrato, dall'Iperclasse nomade al potere - e,  per reazione ideologica riflessa, dal ceto medio semi-colto-, nei confronti della "Migrazione" esterna ed interna, pensata come rimedio miracoloso a tutti i mali, passati e a venire: diremmo quasi il corrispettivo, sul piano antropologico e sociale, di quello che, nell'ambito della produzione capitalistica, è l'innovazione tecnologica.
 Obsolescenza programmata delle merci come dei popoli:  nel mondo dell'uomo ridotto a merce anche i popoli sembrano essere sottoposti alla legge della domanda e dell'offerta, e Michéa denuncia nell'autosabatoggio delle merci da parte delle grandi corporazioni, un esempio fulgido  della follia alla base del capitalismo, che  potrebbe trovare il proprio corrispettivo filosofico in quell'idea di "obsolescenza" dell'uomo nei confronti della civiltà della Tecnica suggerita da Gunther Anders sulla scia di Heidegger.
 Follia capitalistica, ad ogni buon conto, perché si pensa nei termini di una continua (auto)distruzione: celebrando il divenire infinito e insensato di merci e uomini, essa fonda se stessa unicamente sulla negazione: della Tradizione, del passato,  di tutti quei vincoli comunitari, culturali, politici, simbolici, geografici, biologici, interpretati, dai guru del capitalismo mondializzato, come altrettante condizioni "limitanti" e "discriminanti": le  volizioni infinite  dell'individuo sradicato, atomizzato e ridotto a puro flusso di coscienza galvanizzato dalla società dello Spettacolo e confortato dai ritrovati della Tecnica,  essendo il "fine universale", e  peraltro dogmaticamente indiscutibile, perseguito inflessibilmente dai gendarmi del libero mercato. Individuo atomizzato e sradicato il cui "doppio" avatarico , portatore sano di solitudine al quadrato e di identità multiple conformi alla bisogna del mercato virtuale,  intreccia, nei social network,  legami soft, multipli, precari e a termine, con  "profili" simili di altrettanti consumatori di desideri.                                                              Le  "passioni tristi" contemporanee, direbbe forse  Spinoza.
Al fondo, ci sembra di poter dire che nel capitalismo assoluto descritto  in questo libro da Michéa  constatiamo  gli esiti ultimi di  idee filosofiche, da Descartes a Hume, basate su di  una antropologia, come dice Marx, alla Robinson Crusoe: congedato e censurato il concetto aristotelico di uomo come" animale politico", guardato con disprezzo dai guru postmoderni come lo scimmione preistorico all'origine di ogni forma di barbarie - dai Totalitarismi al patriarcato, dall'omofobia  al razzismo-  resta, per la "sinistra",  l'individuo finalmente "liberato" e moderno:  " astrattamente onnipotente e  concretamente impotente " secondo la  formula marxiana.
 Ma non basta.  Sfiorando un nervo particolarmente scoperto e doloroso della dinamica politica e sociale contemporanea, Michéa accusa la sinistra di essere la principale  responsabile dello stato di cose presenti, che vede allargarsi le categorie costrette all'indigenza e al precariato, invariabilmente poste sotto l'attacco della barbarie "trasgressiva" della società dello Spettacolo e della Tecnica, vieppiu' espulse dal "mercato" della  rappresentanza  politica - che le disprezza come obsolete e populiste- e quindi da ogni organizzazione partitica che ne tuteli davvero la sopravvivenza.
Dal suo punto di vista poco cambia che questo elettorato e queste fasce sociali si spostino sempre piu' a "destra", considerato che le "destre" che ne intercettano di solito il sentimento e i valori, sono pronte a svenderli, al pari della "sinistra" , per uniformarsi ciecamente al coro del " Ce lo chiedono i Mercati", o al progetto di sradicamento e trasformazione societale prodotto dalla retorica liberale dei "diritti per tutti" e dell' integrazione collettiva dei 'valori' della società dello spettacolo, della trasgressione e della performance tecnica.
Secondo il filosofo francese tutto cio' è pero'  logicamente spiegabile poiché radicalmente iscritto nel codice genetico stesso di una   "sinistra" che  fa la sua comparsa come quel soggetto sociale  universalmente conosciuto, e come tale oggi planetariamente diffuso,  nella Francia dell'affaire Deyfus ("guerra civile borghese" secondo la definizione di Jaurès e altri padri del movimento socialista francese dell'epoca), vale a dire nel drammatico torno di tempo  in cui vide la luce un compromesso storico  tra la sinistra liberale e repubblicana, integralmente dedita alla metafisica del Progresso illimitato e della Scienza (Adam Smith, Turgot, Condorcet, Comte) - e per questo  anti- Ancien Régime, e le organizzazioni socialiste che, al contrario, al loro sorgere, avevano saputo cogliere gli aspetti alienanti distruttori e selvaggi indotti dall'industrializzazione capitalistica e dal cosmopolitismo- cioé dal "Progresso"- e gli impatti drammatici che questa produceva sul "nuovo schiavo salariato" europeo dell'epoca e sulle comunità che da essa venivano investite e travolte.
 A tal proposito Michéa si premura di informare il  lettore di "sinistra" contemporaneo, infarcito di "retorica elettorale progressista"  e abituato a vedere uniformemente in tutto cio' che è "passato" il sigillo del Male, che, in realtà,  "il sistema feudale contribuiva a mantenere  strati di vita comunitaria- e di autonomia locale- in cui " un principio di eguaglianza latente non cessava di irrigarne in profondità le strutture. Tale è il caso di quei diritti consuetudinari di "vaine pâture" e di libero percorso tra i campi che permetteva ai contadini più poveri, di nutrire il proprio bestiame sulle terre comuni e private del villaggio, una volta terminata la stagione dei raccolti.
 Non è dunque, in realtà,  che sotto la pressione ideologica crescente dei primi economisti liberali influenzati dal modello inglese  ( e dei loro intermediari, sempre piu' numerosi, nel seno dell'apparato dello Stato monarchico) che ando' progressivamente apparendo l'idea- ironizza Michéa- che il diritto di chiudere le proprie proprietà personali e di interdirne cosi' l'accesso ai contadini meno abbienti, costituisce una delle esigenze piu' essenziali di una società libera".
 La proprietà appariva ai liberali  come minacciata da due gravissimi ostacoli: "da una parte i diritti signorili dall'altra quelli collettivi" e Michéa richiama l'attenzione del lettore di sinistra ingenuo su una serie di testi a sostegno della tesi che proprio lo zelo mostrato dai liberali del Settecento "verso un dominio assoluto della proprietà era praticamente ignoto al Medioevo, e che a partire dell'esempio storico  della "vaine pâture" è possibile rintracciare le linee guida di quella critica, da parte dell'economia politica illuministica, del "conservatorismo  inerente alle classi popolari e al loro attaccamento  "irrazionale" agli antichi costumi e ai  "vantaggi acquisiti" ( del loro "populismo", diremmo oggi) che avrebbe condotto i fondatori del liberalismo a gettare  il bambino comunitario con l'acqua sporca feudale  e a sostituire alla lotta rivoluzionaria iniziale contro ogni forma di legame sociale fondata sulla dipendenza personale istituita alla nascita,   quella che - sempre nel nome dei "diritti dell'uomo" e della "libertà"-, avrebbe avuto modo, in un secondo tempo, di attaccare senza pietà il fondamento del legame comunitario stesso.
 E non è certamente un caso, se, per Marx, come per la maggior parte dei primi socialisti, i nuovi "diritti dell'uomo" nel cui nome la rivoluzione liberale pretendeva compiersi, non rappresentavano nient'altro che i diritti del membro della società borghese,  vale a dire dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità."
Non basta. Michéa ricorda pure che  "le due repressioni di classe più feroci e omicide che si siano abbattute, nel XIX° secolo, sul movimento operaio francese (con gli applausi -cela va sans dire- della destra monarchica e clericale) sono stati ogni volta opera di un governo liberale o repubblicano ( di sinistra, dunque, nel senso primario del termine). Innannzi tutto quella ordinata da Louis-Eugène Cavagnac, durante le giornate del giugno 1848. In seguito, e di gran lunga più selvaggia, quella diretta da Adolphe Thiers contro la Comune di Parigi del maggio 1871. Inoltre vale la pena di segnalare il ruolo svolto da industrializzazione e ideologia progressista  nella politica coloniale europea, come dimostra il caso  notorio di Jules Ferry, capo della  sinistra repubblicana dell'epoca e frammassone, apostolo della destinazione  "umanitaria e civilizzatice" dei popoli  moderni, eletto presidente del Senato nel 1893, il quale  reclamava esplicitamente il diritto-dovere delle "razze superiori" e industrializzate di farsi carico di una missione pedagogica nei confronti delle "razze inferiori".
Un tale atteggiamento culturale non è certo venuto meno con l'andare del tempo, in Francia come altrove,  se si pensa all'adesione incondizionata  della sinistra europea, governamentale  o di salotto mediatico, alla retorica dei diritti umani- e alle conseguenti esigenze della guerra umanitaria- costantemente  sventolata dall'Impero nordamericano per liberarci infinitamente, come ironizzava Preve, da "barbuti fanatici e baffuti dittatori".
"Tutto il problema, sostiene Michéa, consiste nel sapere se  l'adesione progressiva  della sinistra ufficiale (in Francia come in tutti  gli altri paesi occidentali) al culto del mercato concorrenziale, della "competitività" internazionale delle imprese  e della crescita illimitata  (cosi' come al liberalismo culturale che ne costituisce semplicemente la faccia "morale" e psicologica) puo' ancora essere ragionevolmente interpretato come un puro accidente della storia (...) O se, al contrario, questa conversione accelerata della sinistra degli anni Settanta al liberalismo economico, politico e culturale non è piuttosto il compimento logico di un lungo processo storico di cui la matrice si trovava già iscritta nel compromesso tattico negoziato, ai tempi dell affaire Dreyfus, dai dirigenti del movimento operaio francese (compromesso che, sottolineamo, finirà esso stesso per trovare, nel tempo, i suoi equivalenti politici nel seno di tutti i paesi europei".
Ad un tale interrogativo Michéa, risponde affermativamente, imputando proprio alla metafisica del progresso e alla fede nel "senso della storia" progressivamente orientata, cosi' come alla ritraduzione del pensiero di Marx nei codici scientisti e positivistici della borghesia sette-ottocentesca, l' operatore filosofico maggiore,  che ha permesso di "scivolare, da un compromesso difensivo e tattico iniziale verso una configurazione politica inedita, presto vissuta dai suoi nuovi fedeli come un distintivo identitario dalle proprietà quasi religiose".
Ora, si premura di sottolineare Michéa, la critica della sinistra come instrumentum regni  cultural-mondano del capitalismo assoluto, non si propone certamente la riabilitazione della "destra", assoggettata come essa è ai dogmi insindacabili del libero mercato e contraddistinta dal medesimo -se non forse più cinico  e feroce- ricorso ideologico e  pratico  al relativismo culturale e morale che, oggi è divenuto chiaro, è la cifra ideologica  distintiva dell'  "ultimo uomo" nicciano, il quale, liberato infine da tutti i "pregiudizi" del passato, puo' finalmente dedicarsi tanto alla predazione delle risorse del pianeta quanto alla spoliazione delle ricchezze  dei popoli, presentando mimeticamente le conseguenze nefaste del suo agire immorale come eventi  irrevocabili della Natura, al pari di   tsunami  o eventi tellurici distruttivi, direbbe Fusaro,  flagelli misteriosi e ineluttabili indipendenti dall'uomo, proprio come il ricorrere  distruttivo della peste ne i Promessi sposi di Alessandro Manzoni.
Occorre dunque pensare oltre la dicotomia  destra/sinistra, categorie ormai integralmente svuotate di senso e inservibili, secondo Michéa,  utili solo a legittimare ideologicamente, da parte dell'élite e del clero universitario e mediatico, la presenza inquietante del  "fatto totale", e apparentemente intrascendibile, costituito dal  capitalismo assoluto: il quale è programmaticamente  rivoluzionario e distruttore perché  fondato- è la grande lezione di  Costanzo Preve-  sul concetto di Apeiron, quindi sull'idea radicalmente anti-greca e anti-comunitaria di Illimite ,  il cui portato  è, con la follia del nichilismo, la "mobilitazione totale" di esseri e cose, e da ultimo, la "flessibilità" e la conseguente precarizzazione e virtualizzazione del senso dell' esistenza e dello stare al mondo.
 Michéa che ha manifestamente assimilato concetti cardine della feconda riflessione di Preve, ma anche di de Benoist e di Serge  Latouche, oltre che a Marx rimanda ai fondamentali studi  antropologici di Marcel Mauss ed Alain Caillé sulle civiltà 'antiutilitarie' premoderne (distrutte in Europa con l'avvento della società capitalistica ma che ancora sopravviverebbero in America Latina e in alcuni paesi africani),  fondate sull'etica del dono,  della comunità e dell' onore, oltre che a rinviare  alle opere dell'amato George Orwell, difensore, di fronte all'arroganza 'smisurata' del potere, della dignità della "gente ordinaria"  e di quei legami e scambi simbolici e identitari non oppressivi  in cui si costituisce e si svolge quella che lo scrittore inglese chiama common decency.

P.s.

Giunto al termine di questo articolo ho appreso della morte in un tragico incidente stradale alle porte di Perugia, dell'amico Diego Sozio,  di cui ricordero' sempre la tenace passione per la ricerca delle verità piu' scomode.Ciao Diego, continua il viaggio come sai!

venerdì 24 gennaio 2014

ALAIN DE BENOIST: Michèa, basta con la sinistra. Avanti col socialismo!


Il gennaio 1905, il «regolamento» della Sezione francese dell'Internazionale operaia (SFIO) – il partito socialista dell'epoca – indicava ancora quest'ultima come un «partito della classe operaia che si prefigge di socializzare i mezzi di produzione e scambio, ossia di trasformare la società capitalistica in società collettivista o comunista, attraverso l'organizzazione economica e politica del proletariato». Beninteso, nessun partito «socialista» oserebbe oggi dire una cosa del genere, essendo i socialisti diventati socialdemocratici o social-liberali.
Che oggi la «sinistra», nella sua quasi totalità, sia divenuta riformista, che abbia aderito all'economia di mercato, che si sia progressivamente separata dai lavoratori e dalle classi popolari, non è certo una rivelazione. Lo spettacolo della vita politica ne è una ininterrotta dimostrazione. Per questo, ad esempio, le grida della sinistra sono così deboli nella grande tormenta finanziaria mondiale attuale: semplicemente, essa non è disposta più della destra a prendere le misure che permetterebbero di intraprendere una vera guerra contro l'influenza planetaria della Forma-Capitale. Come osserva Serge Salimi, «la sinistra riformista si distingue dai conservatori per il tempo di una campagna elettorale grazie a un effetto ottico. Poi, quando le è data l'occasione, si adopera a governare come i suoi avversari, a non disturbare l'ordine economico, a proteggere l'argenteria della gente del castello».
La domanda che si pone è: perché? Quali sono le cause di questa deriva? La si può spiegare unicamente con l'opportunismo dei singoli, ex rivoluzionari divenuti notabili? Bisogna vedervi una lontana conseguenza dell'avvento del sistema fordista? Un effetto della congiuntura storica, cioè del crollo del blocco sovietico che ha annientato l'idea di una credibile alternativa al sistema di mercato? 
Ne Le complexe d'Orphée, il suo ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa dà una risposta più originale e anche più profonda: la sinistra si è separata dal popolo perché ha aderito molto presto all'ideologia del progresso, che contraddice nettamente tutti i valori popolari. 
Fondamentalmente orientata verso l'avvenire, la filosofia dei Lumi, come si sa, demonizza le nozioni di «tradizione», «consuetudine», «radicamento», vedendovi solo superstizioni superate e ostacoli alla trionfale marcia in avanti del progresso. Tendendo all'unificazione del genere umano e contemporaneamente all'avvento di un universo «liquido» (Zygmunt Bauman), la teoria del progresso implica il ripudio di ogni forma di appartenenza «arcaica», ossia anteriore, e la distruzione sistematica della base organica e simbolica delle solidarietà tradizionali (come fece in Inghilterra il celebre movimento delle enclosures, che costrinse all'esodo migliaia di contadini privati dei loro diritti consuetudinari, per convertirli in manodopera proletaria sradicata e dunque sfruttabile a volontà nelle manifatture e nelle fabbriche ). In un'ottica «progressista», ogni giudizio positivo sul mondo così com'era una volta rientra dunque necessariamente nell'ambito di un passatismo «nostalgico»: «Tutti coloro i quali – ontologicamente incapaci di ammettere che i tempi cambiano – manifesteranno, in qualunque campo, un qualsiasi attaccamento (o una qualsiasi nostalgia) per ciò che esisteva ancora ieri tradiranno così un inquietante “conservatorismo” o addirittura, per i più empi tra loro, una natura irrimediabilmente “reazionaria”». Il mondo nuovo deve essere necessariamente edificato sulle rovine del mondo di prima. Poiché la liquidazione delle radici forma la base del programma, se ne deduce che «solo gli sradicati possono accedere alla libertà intellettuale e politica» (Christopher Lasch). 
Questa è la rappresentazione del mondo che, nel XVIII secolo, ha accompagnato l'ascesa sociale della borghesia e, con essa, la diffusione dei valori mercantili. Atteggiamento moderno corrispondente a un universalismo astratto nel quale Friedrich Engels vedeva, a giusta ragione, il «regno idealizzato della borghesia». (Anche Sorel, a suo tempo, aveva sottolineato il carattere profondamente borghese dell'ideologia del progresso). Ma anche antico comportamento monoteista che scaglia l'anatema contro le realtà particolari in nome dell'iconoclastia del concetto, vecchio atteggiamento platonico che discredita il mondo sensibile in nome delle idee pure.
La teoria del progresso è direttamente associata all'ideologia liberale. Il progetto liberale nasce, nel XVII secolo, dal desiderio di farla finita con le guerre civili e di religione, rifiutando al contempo l'assolutismo, ritenuto incompatibile con la libertà individuale. Dopo le guerre di religione, i liberali hanno creduto che si potesse evitare la guerra civile solo smettendo di appellarsi a valori morali condivisi. Erano favorevoli a uno Stato che, per quanto riguardava la «vita buona», fosse neutro. 
Poiché la società non poteva più essere fondata sulla virtù, il buon senso o il bene comune, la morale doveva restare un affare privato (principio di neutralità assiologia). L'idea generale era che si poteva fondare la società civile solo sull'esclusione di principio di ogni riferimento a valori comuni – il che equivaleva, in compenso, a legittimare qualunque desiderio o capriccio che fosse oggetto di una scelta «privata». 
Il progetto liberale, spiega Jean-Claude Michéa, ha prodotto due cose: «Da un lato, lo Stato di diritto, ufficialmente neutro sul piano dei valori morali e “ideologici”, e la cui unica funzione è di badare che la libertà degli uni non nuoccia a quella degli altri (una Costituzione liberale ha la stessa struttura metafisica del codice della strada). Dall'altro, il mercato auto-regolatore, che si presume permetta a ciascuno di accordarsi pacificamente con i suoi simili sull'unica base dell'interesse ben compreso delle parti interessate». 
Lo Stato di diritto «assiologicamente neutro» è in effetti una doppia illusione. In primo luogo, la sua neutralità è completamente relativa: nella vita reale, i liberali affermano i loro principi e i loro valori con altrettanta forza degli antiliberali. Inoltre, la neutralità in materia di valori (la teoria secondo la quale lo Stato non deve pronunciarsi sulla questione della «vita buona», perché ciò lo indurrebbe a discriminare tra i cittadini) sfocia in pratica in contraddizioni insolubili, come dimostra la teoria dei diritti dell'uomo, che proclama diritti contraddittori, dato che alcuni di essi possono essere applicati solo a condizione di ignorarne o violarne altri. Queste contraddizioni sono costantemente sottoposte a procedure giudiziarie, ma non possono essere risolte in maniera puramente tecnica o procedurale. 
La dicotomia destra-sinistra viene spesso fatta risalire alla Rivoluzione francese, dimenticando in tal modo che essa è davvero pienamente entrata nel discorso pubblico solo alla fine del XIX secolo. Alla vigilia della Rivoluzione, lo spartiacque principale non oppone la «destra» e la «sinistra», ma un'aristocrazia fondiaria dotata di potere politico e una borghesia mercantile acquisita alle idee liberali. Nessuno, in quell'epoca, difende veramente il popolo. Retrospettivamente, il libro di Michéa spiega d'altronde anche l'ambiguità della Rivoluzione francese: rivoluzione borghese, ma fatta in nome del «terzo stato» (e soprattutto della «nazione»), ispirata al contempo alle idee di Rousseau e del liberalismo dei Lumi, «progressista» con Condorcet, m affascinata dal'Antichità con Robespierre o Saint-Just. 
Durante tutta la prima parte del XIX secolo, sono appunto i liberali a formare il cuore della «sinistra» parlamentare dell'epoca (il che spiega il senso che ha conservato oggi negli Stati Uniti la parola liberal). I liberali riprendono quell'idea fondamentalmente moderna consistente nel vedere nello «sradicamento dalla natura e dalla tradizione il gesto emancipatore per eccellenza e l'unica via d'accesso a una società “universale” e “cosmopolita». Benjamin Constant, per citare solo lui, è il primo a celebrare quella disposizione della «natura umana» che induce a «immolare il presente all'avvenire». 
Mentre la III Repubblica vede la borghesia assumere a poco a poco l'eredità della rivoluzione del 1789, il movimento socialista si struttura in associazioni e partiti. Ricordiamo che la parola «socialismo» appare solo verso il 1830, in particolare in Pierre Leroux e Robert Owen, nel momento in cui il capitalismo si afferma come forza dominante. Il diritto di sciopero è riconosciuto nel 1864, lo stesso anno della fondazione della I Internazionale. Orbene, i primi socialisti, la cui base sociale si torva soprattutto tra gli operai di mestiere, non si presentano affatto come uomini «di sinistra». Michéa ricorda, d'altronde, che «il socialismo non era, in origine, né di sinistra né di destra»  e che non sarebbe mai venuto in mente a Sorel o a Proudhon, a Marx o a Bakunin di definirsi come uomini «di sinistra». A parte i «radicali», la «sinistra», all'epoca, non designa niente. 
In origine, il movimento socialista si pone, in effetti, come forza indipendente, sia nei confronti della borghesia conservatrice e dei «reazionari» che dei «repubblicani» e di altre forze di «sinistra». Ovviamente, si oppone ai privilegi di caste legate alle gerarchie dell'Ancien Régime – privilegi conservati in altra forma dalla borghesia liberale – ma si oppone ugualmente all'individualismo dei Lumi, ereditato dall'economia politica inglese, con la sua apologia dei valori mercantili, già così ben criticati da Rousseau. Esso, dunque, non abbraccia le idee della sinistra «progressista» e comprende bene che i valori di «progresso» esaltati dalla sinistra sono anche quelli cui si richiama la borghesia liberale che sfrutta i lavoratori. In realtà, lotta, al contempo, contro la destra monarchica e clericale, contro il capitalismo borghese, sfruttatore del lavoro vivo, e contro la «sinistra» progressista erede dei Lumi. Si è così in un gioco a tre, molto differente dallo spartiacque destra-sinistra che si imporrà all'indomani della Prima Guerra mondiale. 
È, d'altronde, contro il riformismo e il parlamentarismo della «sinistra» che il socialismo proudhoniano o il sindacalismo rivoluzionario soreliano oppongono allora l'ideale del mutualismo o dell'autonomia dei sindacati e la volontà rivoluzionaria all'opera nell'«azione diretta» – ideale che si cristallizzerà nel 1906 nella celebre Carta di Amiens della CGT. 
I primi socialisti non erano nemmeno avversari del passato. Più esattamente, distinguevano molto bene ciò che, nell'Ancien Régime, rientrava nell'ambito del principio di dominazione gerarchica, da essi rifiutato, e ciò che dipendeva dal principio «comunitario» (la Gemeinwesen di Marx) e dai valori tradizionali, morali e culturali che lo sottendevano. «Per i primi socialisti, era chiaro che una società nella quale gli individui non avessero avuto più niente altro in comune che la loro attitudine razionale a concludere accordi interessati non poteva costituire una comunità degna di questo nome». Proprio per questo, Pierre Leroux, uno dei primissimi teorici socialisti, affermava non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall'essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l'uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società». 
Per il popolo, il passato non era soltanto ciò che gli permetteva di inscriversi in una filiazione e in una continuità storiche particolari, ma ciò che gli permetteva di giudicare il valore delle innovazioni che gli venivano proposte. Da questo punto di vista, la «tradizione» era più una protezione che una costrizione. In passato, molte rivolte popolari avevano già trovato la loro origine in una volontà chiaramente manifestata di difendere le consuetudini e le tradizioni popolari contro la Chiesa, la borghesia o i principi. Il motivo di ciò è che sono le consuetudini, le tradizioni, le forme particolari della vita locale, ossia le comunità radicate, a permettere da sempre l'emersione di un mondo comune e a costituire, ugualmente da sempre, il quadro nel quale «possono dispiegarsi le strutture elementari della reciprocità e dunque, ugualmente, le condizioni antropologiche dei differenti processi etici e politici che permetteranno eventualmente di estenderne il principio fondamentale ad altri gruppi umani, se non addirittura all'intera umanità». 
Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l'internazionalismo o il senso dell'universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è «sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali»  e che «in pratica, l'universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari». Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l'universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d'origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive ancora Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l'amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista». 
Come il patriottismo non deve essere confuso con il nazionalismo (di destra»), così l'internazionalismo non deve essere confuso con il cosmopolitismo (di «sinistra»). Poiché l'abbandono o l'oblio della propria cultura rendono incapaci di comprendere l'attaccamento degli altri alla loro, il risultato dell'universalismo astratto non è il regno del Bene universale, ma la realizzazione di un «universo ipnotico, glaciale e uniformato» il cui soggetto è quell'essere narcisistico pre-edipico, immaturo e capriccioso che è il consumatore contemporaneo. 
In Francia, l'alleanza storica tra il socialismo (influenzato prima dalla socialdemocrazia tedesca e poi dal marxismo) e la «sinistra» progressista si instaura all'epoca dell'affare Dreyfus (1894). Svolta profondamente negativa. Nato dalla preoccupazione di una «difesa repubblicana» contro la destra monarchica, clericale o nazionalista, si delinea un compromesso che partorirà in primo luogo i cosiddetti «repubblicani progressisti». Si crea allora una confusione tra ciò che è emancipatore e ciò che è moderno, i due termini essendo a torto ritenuti sinonimi. 
È in questo momento, scrive Michéa, che il movimento socialista è stato «progressivamente indotto a sostituire alla lotta iniziale dei lavoratori contro il dominio borghese e capitalista quella che avrebbe presto opposto – in nome del “progresso” e della “modernità – un “popolo di sinistra” e un “popolo di destra” (e, in questa nuova ottica, era evidentemente scontato che un operaio di “sinistra” sarebbe stato sempre infinitamente più vicino a un banchiere di sinistra o a un dirigente di sinistra del FMI che a un operaio, a un contadino o a un impiegato che dava i suoi voti alla destra)». Questo compromesso ha assunto due aspetti: «Da un lato, ha portato ad ancorare il liberalismo – motore principale della filosofia del Lumi – nel campo delle “forze di progresso” […] Dall'altro, ha contribuito a rendere in anticipo illeggibile l'originaria critica socialista, poiché quest'ultima sarebbe nata appunto da una rivolta contro la disumanità dell'industrializzazione liberale e l'ingiustizia del suo diritto astratto». 
Allora – e soltanto allora – la causa del popolo ha cominciato a divenire sinonimo di quella di progresso, all'insegna di una «sinistra» che voleva essere anzitutto il «partito dell'avvenire» (contro il passato) e l'annunciatrice dei «domani che cantano», ossia della modernità in marcia. Soltanto allora si è reso necessario, quando ci si voleva situare «a sinistra», ostentare un «disprezzo di principio per tutto ciò che aveva ancora il marchio infamante di “ieri” (il mondo tenebroso del paese d'origine, delle tradizioni, dei “pregiudizi”, del “ripiegamento su se stessi” o degli attaccamenti “irrazionali” a esseri e luoghi)». Il movimento socialista, e poi comunista, riprenderà dunque per proprio conto l'ideale «progressista» del produttivismo ad oltranza, di quel progetto industriale e iperurbano che ha completato lo sradicamento delle classi popolari, rendendole ancora più vulnerabili all'influenza della Forma-Capitale. (Il che spiega anche che quell'ideale abbia ricevuto una migliore accoglienza tra gli operai già sradicati che tra i contadini). 
D'ora innanzi, per difendere il socialismo, bisognava credere alla promessa di una marcia in avanti dell'umanità verso un universo radicalmente nuovo, governato soltanto dalle leggi universali della ragione. Per essere «di sinistra», bisognava classificarsi tra coloro che, per principio, rifiutano di guardare indietro, così come fu intimato a Orfeo. (Di qui il titolo del libro di Jean-Claude Michéa: disceso nel regno dei morti con la speranza di ritrovare Euridice e di riportarla nel mondo dei vivi, Orfeo si vede proibire da Ade di voltarsi indietro, altrimenti perderà per sempre la sua bella. Beninteso, egli violerà all'ultimo momento questa proibizione). A questa deriva, in cui vede a giusta ragione un'impostura, si oppone Michéa con una fermezza pari al suo talento. 
Separato dalle sue radici, il movimento operaio è stato nello stesso tempo privato delle condizioni e dei mezzi della sua autonomia. Come aveva ben visto George Orwell, la religione del progresso priva infatti l'uomo della sua autonomia nel momento stesso in cui pretende di garantirla emancipandolo dal passato. Orbene, sottolinea Michéa, «dal momento in cui un individuo (o una collettività) è stato spossessato dei mezzi della sua autonomia, non può più perseverare nel suo essere se non ricorrendo a protesi artificiali. Ed è appunto questa vita artificiale (o “alienata”) che il consumo, la moda e lo spettacolo hanno il compito di offrire a titolo di compensazione illusoria a tutti coloro la cui esistenza è stata così mutilata». 
Poiché la sinistra si considera innovatrice, il capitalismo sarà nello stesso tempo denunciato come «conservatore». Altra deriva fatale, perché la Forma-Capitale è tutto tranne che conservatrice! Marx aveva già mostrato bene il carattere intrinsecamente «progressista» del capitalismo, cui riconosceva il merito di aver soppresso il feudalesimo e annegato tutti gli antichi valori nelle «gelide acque del calcolo egoistico». A questo tratto fondante se ne aggiunge un altro, tipico delle forme moderne di questo stesso capitalismo. «Una economia di mercato integrale», spiega Michéa, «può funzionare durevolmente solo se la maggior parte degli individui ha interiorizzato una cultura della moda, del consumo e della crescita illimitata, cultura necessariamente fondata sulla perpetua celebrazione della giovinezza, del capriccio individuale e del godimento immediato […] Dunque, è proprio il liberalismo culturale (e non il rigorismo morale o l'austerità religiosa) a costituire il complemento psicologico e morale più efficace di un capitalismo di consumo». Ora, diventando «di sinistra», il socialismo ha fatto suoi anche i principi del liberalismo culturale. La sinistra «permissiva» è così divenuta il naturale humus di espansione della Forma-Capitale. È il capitalismo che permette meglio di «godere senza ostacoli»! 
Per decenni, sotto l'etichetta di «sinistra», si troveranno dunque associate, in una permanente ambiguità, due cose totalmente differenti: da una parte, la giusta protesta morale della classe operaia contro la borghesia capitalista, e, dall'altra, la credenza liberale borghese in una teoria del progresso la quale afferma, in linea di massima, che «prima» non ha potuto che essere peggiore e che «domani» sarà necessariamente migliore. In effetti, il movimento socialista è veramente degenerato dal momento in cui è divenuto «progressista», ossia a partire dal momento in cui ha aderito alla teoria (o alla religione) del progresso – cioè alla metafisica dell'illimitato – che costituisce il cuore della filosofia dei Lumi, e dunque della filosofia liberale. Essendo la teoria del progresso intrinsecamente legata al liberalismo, la «sinistra», diventando «progressista», si condannava a confluire un giorno o l'altro nel campo liberale. Il verme era nel frutto. Il liberalismo culturale annunciava già il capovolgimento nel liberalismo economico. L'ultimo bastione a cedere è stato il partito comunista, che ha progressivamente smesso di svolgere il ruolo che in passato ne aveva decretato il successo: fornire «alla classe operaia e alle altre categorie popolari un linguaggio politico che permettesse loro di vivere la loro condizione con una certa fierezza e di dare un senso al mondo che avevano sotto gli occhi». 
Ciò che Michéa dice della sinistra potrebbe, beninteso, essere detto della destra, con una dimostrazione inversa: la sinistra ha aderito al liberalismo economico perché era già acquisita all'idea di progresso e al liberalismo «societale», mentre la destra ha aderito al liberalismo dei costumi perché ha prima adottato il liberalismo economico. È, infatti, completamente illusorio credere che si possa essere durevolmente liberali sul piano politico o «societale» senza finire col diventarlo anche sul piano economico (come crede la maggioranza delle persone di sinistra) o che si possa essere durevolmente liberali sul piano economico senza finire col diventarlo anche sul piano politico o «societale» (come crede la maggioranza delle persone di destra). In altri termini, c'è un'unità profonda del liberalismo. Il liberalismo forma un tutto. Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del «progresso», corrisponde l'imbecillità delle persone di destra che ritengono possibile difendere al contempo i «valori tradizionali» e un'economia di mercato che non smette di distruggerli: «Il liberalismo economico integrale (ufficialmente difeso dalla destra) reca in sé la rivoluzione permanente dei costumi (ufficialmente difesa dalla sinistra), proprio come quest'ultima esige, a sua volta, la liberazione totale del mercato». Ciò spiega che destra e sinistra confluiscano oggi nell'ideologia dei diritti dell'uomo, il culto della crescita infinita, la venerazione dello scambio mercantile e il desiderio sfrenato di profitti. Il che ha almeno il merito di chiarire le cose. 
La sinistra si è molto presto convinta che la globalizzazione del capitale rappresentava una evoluzione ineluttabile e un avvenire insuperabile, con la politica che, nello stesso tempo, si adattava alla globalizzazione economica e finanziaria. Il grande divorzio tra il popolo e la sinistra ne è stata la conseguenza più clamorosa. 
Il Club Jean Moulin aveva aperto la strada negli anni sessanta. La «seconda sinistra» rocardiana negli anni settanta, la Fondazione Saint-Simon negli anni ottanta hanno approfondito la breccia attraverso la quale la sinistra ha cominciato a puntare sulla «società civile» contro lo Stato e a confluire nel modello del mercato. Nella stessa epoca, il liberalismo culturale trionfa, il che si traduce in uno spostamento dei dibattiti politici verso le poste in gioco della società e verso nuovi gruppi sociali in via di autonomizzazione (donne, immigrati, omosessuali, ecc.). Infine, il denaro si impone come equivalente universale nell'ambito dei valori. «Il vincitore», ha osservato Jacques Julliard, «fu Alain Minc […] il quale aveva compreso che, assumendo le idee della seconda sinistra, si poteva fare un buonissimo deal con il neocapitalismo che si stava imponendo». 
È emersa così una sinistra «i cui dogmi sono l'antirazzismo, l'odio dei limiti, il disprezzo del popolo e l'elogio obbligatorio dello sradicamento». È così che l'immaginario della «sinistra moderna» – simboleggiata in Francia da Le Monde, Libération, Les Inrockuptibles e altri insigni rappresentanti del «circolo della ragione» ideologicamente dominante – è arrivato a confondersi con quelli dei padroni della BCE e del Fondo monetario internazionale. Ed è altresì per questo che «dietro la convinzione un tempo emancipatrice che non si arresta il progresso, [è diventato] sempre più difficile ascoltare qualcosa di diverso dall'idea, attualmente dominante, secondo la quale non si arrestano il capitalismo e la globalizzazione». Ormai, la sinistra celebra la crescita, ossia la produzione di merci all'infinito, negli stessi termini dei liberali. Là dove gli uni parlano di «deterritorializzazione» (alla maniera di Deleuze-Guattari o di Antonio Negri), gli altri parlano di «delocalizzazioni». Per quanto concerne l'immigrazione, esercito di riserva del capitale, la sinistra «moderna» usa lo stesso linguaggio di Laurence Parisot («meticciato» e «nomadismo» trasformati in norme). Influenzata da coloro che hanno «distrutto il socialismo convertendolo nell'individualismo dei diritti universali e del liberalismo integrale» (Hervé Juvin), il nemico non è più il capitalismo che sfrutta il lavoro vivo degli uomini, ma il «reazionario» che ha il torto di rimpiangere il passato. 
«È dunque normale», prosegue Michéa, «che la sinistra “civica” (quella che ha rotto con ogni sensibilità popolare e socialista) appaia oggi come il luogo politico privilegiato dove sono elaborate tutte le trasformazioni giuridiche e di civiltà richieste dal mercato mondiale. Insomma, essa non è altro che il pesce-pilota del capitalismo senza frontiere o, se si preferisce, l'avanguardia culturale militante della destra liberale».
I «valori» della sinistra non sono più valori socialisti, ma valori «progressisti»: immigrazionismo, apertura o soppressione delle frontiere, difesa del matrimonio omosessuale, depenalizzazione di certe droghe, ecc., tutte opzioni con le quali la classe operaia è in completo disaccordo o di cui si disinteressa totalmente. Per la sinistra «moderna», che realizza l'alleanza dei funzionari, delle classi borghesi superiori, degli immigrati e dei radical chic, «rifiutare l'oscura eredità del passato (che, a priori, non può non richiamare atteggiamenti di “pentimento”), combattere tutti i sintomi della febbre “identitaria” (ossia, in altri termini, tutti i segni di una vita collettiva radicata in una cultura particolare) e celebrare all'infinito la trasgressione di tutti i limiti morali e culturali tramandati dalle precedenti generazioni (il regno compiuto dell'universale liberale-paolino dovendo coincidere, per definizione, con quello dell'indifferenziazione e dell'illimitatezza assolute) è tutt'uno». Non si parla più del capitalismo o della lotta di classe, e ovviamente di quella anticaglia della rivoluzione. Persino il partito comunista ha quasi soppresso la parola «socialismo» dal suo vocabolario. Avendo perduto la sua identità ideologica, non è più in grado di influenzare la corrente socialdemocratica da cui dipende elettoralmente. 
Poiché l'obiettivo non è più lottare contro il capitalismo, ma combattere tutte le forme di preoccupazione identitaria, regolarmente descritte come il risorgere di una mentalità reazionaria e arretrata, «ciò spiega», constata Jean_Claude Michéa, «che il “migrante” sia progressivamente divenuto la figura redentrice centrale di tutte le costruzioni ideologiche della nuova sinistra liberale, sostituendo l'arcaico proletario, sempre sospetto di non essere abbastanza indifferente alla sua comunità originaria o, a più forte ragione, il contadino, che il suo legame costitutivo con la terra destinava a diventare la figura più disprezzata – e più derisa – della cultura capitalistica». La sinistra cerca dunque un «popolo di ricambio». La fondazione Terra Nova, fondata nel 2008 da persone vicine a Dominique Strauss-Kahn e presieduta dal socialista Olivier Ferrand, si è resa celebre pubblicando, nel maggio 2011, un rapporto che suggerisce al partito socialista di rifondare la sua base elettorale su un'alleanza tra le classi agiate e le «minoranze» delle periferie, abbandonando operai e impiegati ai loro «valori di destra» (critica dell'immigrazione, protezionismo economico e sociale, promozione di norme forti e di valori morali, lotta contro l'assistenzialismo, ecc.). Il testo del rapporto è molto chiaro: «Contrariamente all'elettorato storico della sinistra, coalizzato dalle poste in gioco socio-economiche, questa Francia di domani è unificata anzitutto dai suoi valori culturali progressisti». «Tra i due perdenti della globalizzazione – gli immigrati ghettizzati e i modesti salariati minacciati – la sinistra in stile Terra Nova sostiene ormai i primi a scapito dei secondi». 
Non è quindi sorprendente che il popolo si distolga da una sinistra affascinata più dal people e dalla «plebaglia» che dai lavoratori, che si dichiara per la globalizzazione, sebbene quest'ultima sia anzitutto quella del capitale, si interessa più alle iniziative «civiche» che alle trasformazioni strutturali, alla società protettiva del care più che alla giustizia sociale, alla vita associativa più che alla politica, allo spettacolo mediatico più che alla sovranità del popolo, al consenso sociale più che alla lotta di classe – e, come i liberali, concepisce l'interesse generale solo come semplice somma degli interessi particolari. Il popolo non si riconosce più in una sinistra che ha sostituito l'anticapitalismo con un simulacro di «antifascismo», il socialismo con l'individualismo radical chic e l'internazionalismo con il cosmopolitismo o l'«immigrazionismo», prova solo disprezzo per i valori autenticamente popolari, cade nel ridicolo celebrando al contempo il «meticciato» e la «diversità» , si sfinisce in pratiche «civiche» e in lotte «contro tutte le discriminazioni» (con la notevole eccezione, beninteso, delle discriminazioni di classe) a solo vantaggio delle banche, del Lumpenproletariat e di tutta una serie di marginali. 
Non è sorprendente nemmeno che il popolo, così deluso, si volga frequentemente verso movimenti descritti con disprezzo come «populisti» (uso peggiorativo che manifesta un evidente odio di classe). Citiamo ancora Michéa: «Tra la rappresentazione colpevolizzante della società ormai imposta dalla sociologia ufficiale (una minoranza di esclusi, relegati nei “ghetti etnici”, sottomessi a tutte le persecuzioni possibili e accerchiati da una Francia “di villette” che si presume appartenere alle classi medie) e l'oscura realtà vissuta da queste categorie popolari, al contempo maggioritarie e dimenticate, la distanza è divenuta assolutamente surreale. Il risultato è che le principali vittime degli aspetti nocivi della globalizzazione non trovano più nel linguaggio politicamente corretto della sinistra moderna la minima possibilità di tradurre la loro esperienza vissuta». «Minando alla base ogni possibilità di legittimare un qualunque giudizio morale (e, di conseguenza, rifiutando simultaneamente di comprendere l'uso popolare delle nozioni di merito e responsabilità individuale), la sinistra progressista si condanna inesorabilmente a consegnare ai suoi nemici di destra interi pezzi di quelle classi popolari che, a modo loro, non domandano altro che di vivere onestamente in una società decente […] In realtà, è proprio la stessa sinistra ad aver scelto, verso la fine degli anni settanta, di abbandonare al loro destino le categorie sociali più modeste e sfruttate, volendo ormai essere “realista” e “moderna”, ossia rinunciando in anticipo a ogni critica radicale del movimento storico che, da oltre trent'anni, seppellisce l'umanità sotto un “immenso accumulo di merci” (Marx) e trasforma la natura in deserto di cemento e acciaio». 
Georges Sorel diceva che «il sublime è morto nella borghesia, che è dunque condannata a non avere più una morale». Anche Michéa parla di morale. Ma qui non si tratta del «sublime», bensì della decenza comune (common decency) tanto spesso celebrata da Orwell. 
«È morale», diceva Emile Durkheim, «tutto ciò che è fonte di solidarietà, tutto ciò che costringe l'uomo a tenere conto dell'altro, a regolare i propri movimenti su qualcosa di diverso dagli impulsi del proprio egoismo». «Ciò spiega», aggiunge Michéa, «che la rivolta dei primi socialisti contro un mondo fondato sul solo calcolo egoistico sia stata così spesso sostenuta da una esperienza morale». Si pensi alla «virtù» celebrata da Jaurès, alla «morale sociale» di cui parlava Benoît Malon. La «decenza comune», che è mille miglia lontana da ogni forma di ordine morale o di puritanesimo moralizzatore, è infatti uno dei tratti principali della «gente normale» ed è nel popolo che la si trova più comunemente diffusa. Essa implica la generosità, il senso dell'onore, la solidarietà ed è all'opera nella triplice obbligazione di «dare, ricevere e restituire» che per Marcel Mauss era il fondamento del dono e del controdono. A partire da essa, si è espressa in passato la protesta contro l'ingiustizia sociale, perché permetteva di percepire l'immoralità di un mondo fondato esclusivamente sul calcolo interessato e la trasgressione permanente di tutti i limiti. Ma è altresì essa che, oggi, protesta con tutta la sua forza contro quella sinistra «moderna» di cui un Dominique Strass-Kahn è il simbolo e nella quale non si riconosce più. «Da questo punto di vista», scrive Michéa, «il progetto socialista (o, se si preferisce l'altro termine utilizzato da Orwell, quello di una società decente) appare proprio come una continuazione della morale con altri mezzi». 
Come si è capito, Michéa non critica la sinistra da un punto di vista di destra – e ce ne rallegriamo – bensì in nome dei valori fondanti del socialismo delle origini e del movimento operaio. Tutta la sua opera si presenta, d'altronde, come uno sforzo per ritrovare lo spirito di questo socialismo delle origini e porre le basi del suo rinnovamento nel mondo di oggi. Assumendo la difesa della «gente normale», egli rifiuta anzitutto che si screditino valori di radicamento e strutture organiche che, in passato, sono stati spesso l'unica protezione di cui disponevano i più poveri e i più sfruttati. 
Non è un punto di vista isolato. Il percorso di Jean-Claude Michéa si inscrive piuttosto in una vasta galassia, dove troviamo, in primo luogo, ovviamente, il grande George Orwell, al quale Michéa ha dedicato un libro notevole (Orwell, anarchiste tory), come pure Christopher Lasch, teorico di un «populismo» socialista e comunitario, grande avversario dell'ideologia del progresso , di cui ha contribuito più di chiunque altro a far conoscere il pensiero in Francia. Vi troviamo anche, per citare solo pochi nomi, il giovane Marx critico dei «diritti dell'uomo», i primi socialisti francesi, William Morris, Charles Péguy e Chesterton, l'Antonio Gramsci che sottolinea l'importanza delle culture popolari, il Pasolini degli Scritti corsari (colui che diceva: «Ciò che ci spinge a tornare indietro è umano e necessario tanto quanto ciò che ci spinge ad andare avanti»), Clouscard e la sua critica dei liberali-libertari, Jean Baudrillard e la sua denuncia della «sinistra divina», i films di Ken Loach e di Guédiguian, la canzoni di Brassens, senza dimenticare Walter Benjamin, Cornelius Castoriadis, Jaime Semprun, Anselm Jappe, Serge Latouche , ecc. 
Michéa paragona il liberalismo a un nastro di Möbius, che presenta una «faccia destra» e una «faccia sinistra», ma senza alcuna soluzione di continuità. Ciò significa che tra borghesia di destra e borghesia di sinistra, entrambe eredi della filosofia liberale dei Lumi, ci saranno sempre più affinità oggettive che tra ciascuna di queste borghesie e gli antiborghesi del loro campo. E viceversa, che esiste una complementarità altrettanto naturale tra coloro che difendono il popolo contro la borghesia sfruttatrice, si situino essi ancora a sinistra o provengano da destra. È ciò che constata Michéa quando scrive: «Poco importa, in verità, sapere da quale tradizione storica ciascuno ha tratto le particolari ragioni che lo inducono a rispettare i principi della decenza comune e a indignarsi per la loro permanente violazione ad opera del sistema capitalistico». In un'epoca in cui la sinistra intende più che mai raccogliere le «forze di progresso», egli non esita a ad aggiungere che è «la patetica incapacità di assumere [la] dimensione conservatrice della critica anticapitalistica a spiegare, in larga parte, il profondo smarrimento ideologico (per non dire il coma intellettuale irreversibile) nel quale l'insieme della sinistra moderna è oggi immersa».
Non avete ancora letto Michéa? Soprattutto, non dite che un giorno lo leggerete. Leggetelo subito. Immediatamente!

Le complexe d'Orphée, ultimo libro pubblicato, Jean-Claude Michéa


fonte: http://www.criticasociale.net/index.php?&lng=ita&function=rivista&pid=page&year=2013&id=0004833&top_nav=titoli_2013