giovedì 24 aprile 2014

ALESSANDRA COLLA: Lettera aperta ad Alessia Morani



Da quel che s'intuisce su Twitter, sembra che Alessia Morani, la deputatessa del PD per la quale chi ha reddito zero è uno che non ha combinato niente nella vita, abbia fornito spiegazioni in merito al fraintendimento delle sue parole eccetera. Peccato che il link non sia più disponibile, e quindi mi devo fidare.
Ma non posso fare a meno di sottolineare, ancora un volta, il malvezzo imperante tra le figure e i figuri più o meno istituzionali di questa landa sciagurata che è l'Italia: tutti aprono bocca, tutti pronunciano atrocità logiche ed etiche, tutti suscitano onde anomale di indignazione e/o rabbia — e tutti, puntualmente, il giorno dopo son lì a sbianchettare "non mi sono spiegato... sono stato frainteso... intendevo dire un'altra cosa... forse mi sono espresso male..." e via blaterando.

Eh no, gente mia: è troppo comodo addossare agli altri le proprie colpe ovvero la criminale leggerezza con cui, dall'alto della vostra posizione generalmente immeritata, lasciate cadere parole come macigni con sovrano disprezzo della tragedia in cui sta sprofondando il Paese, trincerandovi dietro scuse di desolante piccineria.

Avvocatessa Morani, non l'ha mai sfiorata il dubbio che forse qualcuno, oggi, si ritrova a reddito zero perché in vita sua non ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta o di conoscere chi potesse dargli la giusta spintarella? O che esista qualcuno che ha privilegiato la difesa di qualche ideale scomodo pagandone il prezzo con l'emarginazione? O, ancora, che qualcuno si sia ridotto a reddito zero perché la turpe gestione della cosa pubblica negli ultimi vent'anni ha gettato sul lastrico milioni di lavoratori?

Mi svesto per un momento dei panni gentili che son solita portare (oggi mi sento più gucciniana del consueto) e Le chiedo — anzi ti chiedo, Morani: ma in che cazzo di mondo vivi?!? Ma li leggi i giornali? La guardi la tv? Te lo fai mai un giro per i supermercati? Ma che ti dice la testa, quando te ne esci con queste imbecillità vittoriane? Ecco, a proposito, nell'Ottocento il sociologo Max Weber ha scritto un bel saggio, dal titolo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo: in rete si trovano dei buoni riassunti, ce la puoi fare a capire quello che dice. Nel frattempo, se ti riesce, medita su quello che hai detto: e vedrai che gli insulti che ti sono piovuti addosso non erano poi così gratuiti.


P.S.: Sono stata un po' brusca? Pazienza: domani, magari, dirò che mi avete fraintesa.

CHIARA DONNINI: Artaud, Castaneda, Eliade e il viaggio iniziatico



All’inizio del suo saggio, Il viaggio iniziatico edito da Laterza, Emanuele Trevi sostiene che esistono narrazioni che producono "questa straordinaria esperienza - la possibilità che le parole di un altro ci tocchino in profondo, fino a quello strato dell'essere nel quale si generano le trasformazioni più profonde e benefiche", tanto che diventa assai difficile distinguere la conoscenza trasmessa dallo scrittore dalle ripercussioni interiori generate nel lettore.Questi appunti sono il risultato di un viaggio iniziatico compiuto attraverso il testo di Trevi e delle corrispondenze e degli echi che esso ha prodotto, rimandato e amplificato.
Il viaggio concettuale che compie l’autoreè un movimento circolare in tre momenti che dalla letteratura etnografica e antropologica sul viaggio dei primi del novecento (Dio d’acqua, nel quale l’etnologo francese Marcel Griaule rivelò le “verità” ricevute da uno sciamano dell’allora Sudan francese; Alce Nero parla di John Neihardt, che raccoglie le memorie del capo nativo americano; Gli insegnamenti di don Juanche Carlos Castaneda dedicò ai miti degli indios dell'Arizona e del Messico; Il grande viaggio in slitta nel quale l’antropologo Knud Rasmussen parlò degli Inuit), arriva alle lezioni  americane, le Haskell Lectures sui riti d’iniziazione di Mircea Eliade, passando attraverso i monologhi erratici di Antonin Artaud sulla sua esperienza d’iniziazione con l’allucinogeno peyotl (Ciguri) nel paese dei Tarahumara sulla Sierra Madre (Messico).
Nel primo capitolo “Il pulcino addormentato sulla scarpa”, Trevi prende in esame quattro testi iniziatici fondamentali nei quali gli autori sono stati prescelti (quindi sono stati accolti nella comunità e dotati di fiducia) per ricevere e conservare la saggezza e le tradizioni di un antico popolo. Partendo dalla domanda dello sciamano Ogotemmeli nel Dio d’acqua di Griaule “Come insegnare a un bianco?”, Trevi pone il primo tassello del suo percorso concettuale: la differenza tra sapere tradizionale e sapere moderno, tra storie, miti, parabole, simboli,archetipi, riti e ragionamenti e contenuti astratti, tra saggezza (che è il sapere congiunto indissolubilmente all’esperienza) ed erudizione. La risposta alla domanda di Ogotemmeli la troviamo in ciò che dice don Juan in Gli insegnamenti di don Juan di Castaneda: “L’uomo si avvia verso il sapere come se andasse in guerra”, il che vuol dire che per trasmettere sapienza è necessario che un autore, nell’acquisire insegnamenti, compia a sua volta un’esperienza e che questa esperienza diventi in qualche modo parte della narrazione, cosicché da semplice testimone si trasformi egli stesso in personaggio della narrazione.“Ma solo superficialmente questo criterio di orientamento individuale può essere interpretato come un limite della credibilità del racconto. In realtà, non esiste nessun altro criterio, nessun’altra forma possibile di conoscenza, che quella che fa capo all’individuo.” Inoltre, è necessario che l’autore si ponga di fronte alla conoscenza che sta per ricevere e all’esperienza che sta per compiere con lo stupore e la meraviglia di un bambino, che fuor di metafora significa con il minor numero di sovrastrutture mentali possibile. Ciò echeggia nelle parole di Rasmussen, il quale, nell’introduzione a Il lungo viaggio in slitta, scrive: “La slitta è stato il mio primo vero giocattolo e con quello ho portato a termine il grande compito della mia vita”. Il libro diventa in questo modo “qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore” (Roberto Bazlen), qualcosa che segna uno spartiacque tra un prima e un dopo, qualcosa di assimilabile a un rito iniziatico.
Rito iniziatico che invece compie realmente Antonin Artaud, nel suo viaggio di ascensione reale e metaforica della Sierra Madre (Messico), viaggio che si conclude alla sommità del monte con il rito del Ciguri. Nel secondo capitolo “…dall’altra parte delle cose” Artaud compie un doppio passaggio attraverso lo specchio che separa il visibile dall’invisibile, la vita dalla morte, la materia dallo spirito. L’ascensione della Sierra per Artaud diventa di fatto una discesa agl’inferi di dantesca memoria, che passo dopo passo lo costringe ad abbandonare per strada tutto quello che concerne la sua precedente identità e a presentarsi nudo al momento finale del passaggio. “Perché quel procedere nella malattia è un viaggio, una discesa, per uscire di nuovo alla luce del giorno”. Dopo aver attraversato lo specchio, essersi sentiti rivoltati e riversati dall’altra parte e aver guardato,dunque, il mondo all’incontrario, come l’Orlando pazzo per amore, come l’Appeso diIl castello dei destini incrociati di Calvino, il rito del peyotldiventa il momento dell’illuminazione in cui, pur non riaggregandosi immediatamente la nuova identità dell’iniziato, si focalizza il centro di gravità intorno al quale essa prenderà forma. Tornato in Europa Artaud subirà anche la reclusione in un ospedale psichiatrico e l’elettroshock, esperienze che in qualche modo lo porteranno a rivedere i suoi scritti sul rito del Cigurie a evidenziare la sostanziale differenza tra la frattura identitaria generata dal rito iniziatico (esperienza di morte e rinascita all’insegna della luce e del senso) e quella generata dall’elettroshock (esperienza di morte e rinascita all’insegna dell’oscurità e del non senso).
Nell’ultimo capitolo del Viaggio, “Un’esistenza fallita”, Trevi prende in esame l’enorme patrimonio di erudizione costituito dalle lezioni americane, le Haskell Lectures, di Mircea Eliade sui simboli e riti d’iniziazione delle società primitive o tradizionali. Questi riti sono quasi sempre praticati su adolescenti che vengono costretti ad abbandonare il recinto (eden) delle loro certezze, delle loro abitudini, ad abbandonare tutte le “madri” e il consesso umano, per addentrarsi nella solitudine della natura e sperimentare il senso del tremendum, del sacro. “L'adolescente iniziato comincia con l'essere terrorizzato da una realtà soprannaturale, di cui sperimenta per la prima volta la potenza, l'autonomia, l'incommensurabilità; in seguito all'incontro con il terrore divino, il neofita muore: muore all'infanzia, cioè all'ignoranza e all'irresponsabilità. Subentra un nuovo modo d'essere, il modo d'essere dell'adulto: caratterizzato dalla rivelazione, quasi simultanea, del sacro, della morte e della sessualità. Al termine del processo rituale, si potrà definire l'iniziato come colui che sa.". Le lezioni di Mircea Eliade rappresentano in pieno il paradosso dell’uomo moderno che ha accumulato un’enorme quantità di conoscenze riguardo a ogni forma di religiosità, ma per il quale “la quantità del sapere appare direttamente proporzionale a un processo (forse irreversibile) di svuotamento”.
Il filo rosso del ragionamento che Trevi ha srotolato ora ritorna al punto di partenza e viene riannodatoisolando il concetto che permea di fatto tutta la sua narrazione: il viaggio iniziatico, con la sua morte e rinascita simboliche, sia esso moto orizzontale nello spazio e nel tempo delle civiltà tradizionali e antiche o moto verticale nella profondità dell'essere, o entrambe le cose, oggi non appartiene più alla dimensione collettiva e rituale del sacro e del divino, ma appartiene invece unicamente alla dimensione individuale e psicologica della ricerca di se stessi attuata e attuabile in special modo attraverso una “certa letteratura”. "La modernità è il tempo storico nel quale la letteratura si carica sulle spalle le esigenze più profonde del vecchio homo religiosus. Sottraendole, però, a quella dimensione collettiva, fondata su valori e credenze condivise, che è la condizione stessa dell'esperienza religiosa, alla quale, in fondo, non sfuggono nemmeno le esplorazioni più ardite dei mistici e le ribellioni degli eretici. Il terreno sul quale si muove lo scrittore moderno, al contrario, è fondato sulla più irrimediabilmente solitudine. (...) nascere un'altra volta, a costo di scuotere tutte le fondamenta dell'identità, di mandare in frantumi le abitudini, i significati, le protezioni che ci sostengono. Perché la vita è un fallimento. E se volessimo formulare una definizione sintetica della letteratura moderna, ebbene dovremmo ammettere che essa, nella strabiliante varietà delle sue forme e delle sue invenzioni, è una grandiosa, enciclopedica, inesauribile scienza del fallimento della vita umana.".
Il concetto di fallimento non è in questo caso da intendersi in senso nichilista. Con esso l’autorevuole evidenziare il fatto che le esperienze della vita umana contengono irrimediabilmente imperfezione, inganno, caduta, errore e di conseguenza dolore che non possono e non devono essere evitati e che vanno accettati e interiorizzati per permettere all’individuo di compiere il proprio cammino in modo consapevole, altrimenti lo condurrebbero solo alla crescente alienazione ed estraniamento da sé e dal mondo.  "Un'esistenza che, prima o poi, si rivela fallita. E, preso atto della mancanza di significato che invade lo spazio aperto da questo fallimento, tenta o immagina periodicamente di rinnovarsi, di accedere alle possibilità offerte da una seconda nascita, da una nascita mistica.".
Prendiamo un uomo e la fiamma viva di un fuoco. Se quest'uomo, per sbaglio o per volontà, mettesse una delle sue mani su quella fiamma, proverebbe un dolore subitaneo e intenso che lo indurrebbe a distogliere la mano per non ridurla in cenere. Quel dolore è l'unica difesa che l'uomo ha per non bruciarsi e il suo ricordo il modo per non commettere di nuovo quell'errore. Lo stesso vale per qualsiasi dolore: risveglia la coscienza e incide nella memoria la cicatrice dell'esperienza fallimentare; ma se quel dolore fosse vissuto come qualcosa di estraneo e non venisse interiorizzato in alcun modo, rimarrebbe vano e quasi certamente verrebbe ripetuto. Allora, forse, è proprio il dolore, anche il dolore totalmente esogeno che non ci procuriamo con i nostri comportamenti, che, una volta interiorizzato, può salvarci dall’autodistruzione innescando anche una rinascita più o meno significativa.
Naturalmente la letteratura del viaggio reale o metaforico (e non solo quella) ha sempre svolto questo ruolo di rottura e illuminazione (si pensi solamente all’Odissea di Omero o alla Divina Commedia di Dante – che però contenevano comunque la dimensione del divino -, ma anche al laico Don Chisciotte di Cervantes). Quel che avviene con l’avvento della modernità, con il progressivo accantonamento della dimensione del sacro, lo svuotamento di significato della sua ritualità e, infine, con la secolarizzazione del sapere, è che una “certa letteratura”rimane pressoché l’ultimo e l’unico strumento alla portata di tutti (almeno di tutti i lettori) per tentare il disvelamento dell’Essere e per compiere la propria medesima iniziazione alla vita, poiché “la persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra dell’uomo, è proprietà della sostanza umana.” (Primo Levi, Se questo è un uomo).
La letteratura moderna però, rispetto alla religione e alla letteratura precedente, non offre affatto una visione d’insieme ordinata, coerente e consolatoria, si limita al massimo a inchiodare un atomo nel caos del cosmo, a far brillare una scheggia di verità nel buio dell’ignoranza, ad alleviare in parte e per un istante il senso di solitudine e smarrimento dell’individuo.Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo.” (Franz Kafka, lettera a Oskar Pollak del 27.I.1904)



mercoledì 23 aprile 2014

ENRICO GALMOZZI: Massimiliano Griner e la zona grigia



Recensendo se stesso, su Il Fatto Quotidiano (19/04/2014), Massimiliano Griner dice che: "La molla principale alla realizzazione di questo libro è un stata l'indignazione verso un ambiente spesso arrogante e protetto" e ancora: "un complesso di complicità, silenzi, falsa coscienza, opportunismo, che fanno di questa storia un momento l'ipocrisia di massa". Messa così sembrerebbe che l'operazione costituisca niente di più di una postuma resa dei conti all'interno determinati ambiti professonali e intellettuali. Quindi nulla di utile, anche perché qui la "zona grigia" viene degradata a "civetteria" da parte di soggetti che non si sono negati "il brivido di un sanpietrino, il crepitio di una molotov o il fragore di una vetrina infranta" prima di rientrare nell'alveo di una esistenza conforme. In realtà, tralasciando la questione, ben più pertinente, della ampiezza dell'adesione di massa da parte di settori operai e proletari, almeno fino al sequestro Moro (usato qui come spartiacque ben sapendo che si tratta di una semplificazione), va detto che la medesima contiguità palesata da ambienti non proletari non era riconducibile ad atteggiamenti "civettuoli" quanto al peso esercitato, in termini di AUTORITÀ SOCIALE, della opzione rivoluzionaria che contemplava al proprio interno anche la pratica della violenza. Se Prima Linea nel 1976 teneva le riunioni del proprio comando nazionale negli uffici di presidenza della Facoltà di Architettura a Milano o se le FCC stampavano i loro volantini di rivendicazione col ciclostile della FILM CISL non era perché qualcuno in quegli ambienti "civettava" ma perché, allora, non c'era alcun ambiente politico impenetrabile, in termini di autorità e influenza politica, per le formazioni combattenti. Quindi l'utilità di riprendere il dibattito su quegli anni, compreso l'affrontamento della zona grigia, per me consiste nel comprendere come proprio la separazione arbitraria effettuata fra i 4200 condannati per reati connessi al terrorismo e la ben più vasta area di riferimento sia stato il macigno posto sulla liquidazione di una storia che non a caso lo stesso Griner definisce "stagione di follia". Molti, anche impensabili, hanno contribuito a questo. Penso al  Manifesto a cui si deve la formulazione della differenza fra "area della sovversione sociale"  e combattenti, proprio loro che discutevano la unificazione con Potere Operaio, il Partito dell'insurrezione, dove la notizia non sta nel fatto che poi l'unificazione non si fece ma nel fatto che se ne discutesse  come possibile. Fino a Rifondazione Comunista che, in silenzio, ha tesserato molti ex terroristi ma che per viltà e opportunismo ha commissariato la sua sezione di Modena che aveva osato organizzare un dibattito sui '70 con la presenza di Gallinari .
Ora, ognuno si prende le proprie responsabilità, ma io chiedo chi di voi negli anni '70 non abbia urlato almeno una volta "morte al fascio" e se poi qualcuno, per esempio io, passava alle vie di fatto, proprio sulla base di questa legittimazione di massa, perché mai solo su questi debba cadere l'ostracismo politico e sociale?
Io non ritengo sia stata una "stagione di follia", per lo meno NON solo questo è in ogni caso NON opera di pochi pazzi. E allora la discussione sulla dimensione di massa del fenomeno deve servire non solo a ridefinire correttamente il dibattito storiografico ma anche a rimuovere la pena accessoria dell'ostracismo politico e sociale che ha confinatobuna parte consistente di una generazione nella zona grigia (questa sì ) della privazione del diritto di parola.



martedì 22 aprile 2014

ALEISTER CROWLEY: LIBER III vel Jugorum



TRADUZIONE DI: ARAK NOID

LIBER III vel Jugorum

0.

0. Osserva il Giogo sul collo del Bue! Non è in tal modo che il campo vienearato? ll Giogo è pesante, ma unisce ciò che è separato --- Gloria a Nuit ea Hadit, ed a Colui che ci diede il simbolo della Rosa Croce!Gloria al signore della parola Abrahadabra, e Gloria a colui che ci diede il simbolo dell'Ankh, e della croce dentro il cerchio!

1. Tre sono le Bestie con le quali devi arare il Campo; I'Unicorno, il Cavallo,ed il Bue. E queste devi aggiogare con un triplo giogo governato da Una Frusta.

2. Ora queste Bestie corrono sfrenate sulla terra e non sono facilmente obbedienti all'Uomo.

3. Nulla si dirà qui di Cerberus, la grande Bestia dell'Inferno che è ciascuna etutte queste, come anche Athanasius ipotizzò. Poiché questo argomento non è al di fuori di Tiphereth, ma al di dentro.


I.

0. L'Unicorno è la parola. Uomo, comanda la tua parola! Come potraialtrimenti comandare il Figlio, e rispondere al Mago sulla porta destra della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare per una settimana o più.
(a) evita di usare qualche parola comune, come 'e' o 'il' o 'ma'; usa unaparafrasi.
(b) Evita di usare qualche lettera dell'alfabeto, come 't', o 's', o 'm'; usa unaparafrasi.
(c) Evita di usare i pronomi e gli aggettivi della prima persona; usa unaparafrasi.
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel pronunciare ciò che avevi giurato di evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme l'Unicorno le fauci e i denti del Leone?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.
Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche, finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche solo una parola ti esce di bocca.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.


II.

0. Il cavallo è I'Azione. Uomo, comanda la tua Azione. Come potrai altrimenti comandare il Padre, e rispondere al matto sulla porta sinistra della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare una settimana o più.
i. Evita di alzare il braccio sinistro al di sopra della vita.
ii. Evita di incrociare le gambe.
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel compiere ciò che avevigiurato di evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme il Cavallo i denti del Cammello?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche un solo gesto sfugge alle tue dita.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.


III.

0. Il Bue è il Pensiero. Uomo, comanda il tuo Pensiero! Come potrai altrimenti comandare lo Spirito Santo, e rispondere alla Sacerdotessa nella porta centrale della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare una settimana o più.
i. Evita di pensare ad un particolare oggetto ed a tutte le cose ad esso connesse, e fa in modo che tale oggetto sia quello che di solito occupa molto del tuo tempo, essendo frequentemente stimolato dalle percezioni dei sensi o dalla conversazione degli altri.
ii. Attraverso qualche stratagemma, come spostare un anello da un ditoall'altro, crea in te stesso due personalità, i pensieri delle quali siano completamente differenti l'una dall'altra, tenendo in comune solo le necessità vitali. (°)
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel pensare ciò che avevi giuratodi evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme il Bue la scudisciata del Contadino?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.
Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche, finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche solo un gesto sfugge alle tue dita.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.

(°) Per esempio, si ponga A come un uomo passionale, abile nella sacra Qabalah, vegetariano, e politicamente reazionario. B come un uomo pernulla sanguigno, pensatore ascetico, occupato dal lavoro e dalla cura perla famiglia, e politicamente progressista. Che nessun pensiero proprio di
'A' nasca quando l'anello è sul dito di 'B' e viceversa.


MARCO LINGUARDO: Thule Italia è l'unica casa editrice libera in Italia!



INTERVISTA A CURA DI: ROBERTO FRANCO

La grottesca (anche perché ineguale e obbediente a regole indecifrabili) censura che l’editoria nazionale ancora attua  nei confronti di opere nate nell’alveo del nazionalsocialismo, o che in qualche modo lo hanno precorso o accompagnato nella sua parabola, crea un vuoto spesso colmato da piccoli editori d’area. La casa editrice Thule Italia, nata dall’omonima associazione culturale pochi anni or sono, è in questo ambito una delle più serie, nonostante la palese partigianeria verso la filosofia politica del Terzo Reich. Filosofia che né la redazione d IDEE IN/OLTRE né io condividiamo nella maniera più assoluta. Abbiamo tuttavia ritenuto, in linea con il carattere libertario del blog, di porre in essere un’intervista a tutto campo ai responsabili delle edizioni, non solo nel merito dei testi, ma anche in quello, controverso e scottante, dell’attualità delle idee.  

1) La vostra casa editrice nasce nel 2007, per pubblicare in italiano opere incentrate su nazionalsocialismo e pensiero völkisch da una prospettiva non ostile. Quali le principali motivazioni di questa scelta?

La sua domanda reca già in sé, parzialmente, la risposta: infatti, definendo la nostra prospettiva “non ostile”, si viene tacitamente ad ammettere l’esistenza del suo esatto contrario. Ciò è per noi intellettualmente inammissibile. La fredda analisi dei documenti ha lasciato troppo a lungo – per una durata pari a circa sei volte quella del Terzo Reich! – il posto alla critica, al livore e all’opinione personale; è giunta l’ora di sostituire all’impulsività della cronaca l’imperturbabilità dello studioso.

 2) Avete incontrato particolari difficoltà durante questo impegnativo percorso editoriale?

Possiamo indicare due ordini di difficoltà: una esterna e una del tutto interna.
La prima è conseguenza dell’“ostilità” di cui alla prima domanda: al famigerato “rogo dei libri” si è semplicemente e democraticamente sostituito il silenzio verso quanto non sia conforme alla parzialità posta a legge d’espressione, complici sia l’idea imperante del supermercato – anche per la cultura –, sia la complessa filiera che dal testo edito conduce alla libreria.
La seconda difficoltà è, invece, completamente interna poiché – grazie tanto a un accurato lavaggio del cervello quanto a una subcultura stranamente tollerata – occorre scardinare oggi un’idea “luciferina” del Nazionalsocialismo anche tra le truppe dei lettori, sulla carta, “non ostili”.

3) Nella sua notevole introduzione ai due volumi dell’opera di Alfred Rosenberg “Il mito del XX secolo”, da voi recentemente terminati di pubblicare, Luca Leonello Rimbotti non sembra prendere minimamente le distanze da quello che fu il pensiero del (probabilmente) più famigerato teorico del razzismo del ‘900. Ritenete che la filosofia razziale del Terzo Reich, che ebbe nell’intellettuale baltico uno dei suoi massimi enunciatori, contenga principi ancora validi per il presente? Se sì, in che veste ed eventuale filiazione?

Se fin qui abbiamo accennato agli ostacoli nella nostra opera, giungiamo con questa domanda a quanto vi è, invece, di positivo. Sicuramente, la libertà. Libertà nel poter pubblicare un libro senza che questo presenti nell’introduzione, nelle note o in qualunque sua parte quei distinguo che sembrano più necessari di un corretto uso della punteggiatura o, persino, del testo stesso. Luca Leonello Rimbotti ha presentato il Mito del XX secolo ai lettori incorniciandone gli aspetti salienti e, nel contempo, preparandoli a incontrare un Platone e uno Schopenhauer, un Meister Eckhart e un Kant, un Wagner e un Goethe. Ricordandone il sottotitolo dell’opera di Rosenberg – «Una valutazione sulle forme della lotta spirituale e anìmica del nostro tempo» –, ha d’un tratto segnato una linea netta: non solo di razza trattasi o, meglio, questa sarebbe soltanto l’esteriore, visibile, risvolto. E anche il più “semplicistico”. Di che cosa, quindi, si tratterebbe se non dei valori dello spirito e dell’anima?! Ecco, perciò, quale potrebbe essere il principio valido per il presente: (ri)scoprire il Mito, ridare Luce al Corpo. Ogni popolo attento al proprio, sia di Mito sia di Corpo! 

4) Tra i regimi, i partiti politici e le derivazioni ideologiche del nostro tempo, quali secondo voi hanno meglio raccolto le eredità delle filosofie völkisch e nazionalsocialista?

Nessuno, perché se da un lato qualsiasi soggetto sarebbe stato perseguitato dalle leggi vigenti raccogliendo tale ingombranti eredità, dall’altro manca una seria conoscenza della stessa da poter considerare valido qualsivoglia accostamento con quanto ha visto il panorama politico dal ’45 a oggi. Per dirla in breve, molto folklore e poco völkisch.

5) Potete parlarmi dei vostri prossimi progetti editoriali?


Di certo proseguire su una doppia rotaia, da una parte procedere con la collana Percorsi della Weltanschauung che ha già visto la divulgazione, oltre che del succitato Mito del XX secolo, di altri importanti volumi documentali. Dall’altra incentivare la pubblicazione per i tipi della neonata collana Alpha, che già conta testi importanti quali, tra gli altri, lo studio scientifico di Thomas Wilson sullo Svastica o la biografia di Houston Stuart Chamberlain su Richard Wagner. Due rotaie per un binario sul quale deve sfrecciare in sicurezza – e conoscenza – il treno della Storia. Questo è il nostro compito, se ci verrà permesso di continuare, cosa che non diamo per scontato.

domenica 13 aprile 2014

CLAUDIO UGHETTO: "La Grande Bellezza": le radici sono importanti!



Ho finalmente visto La grande bellezza, a casa sullo schermo 54 pollici e col surround DTS, dopo un anno dalla sua uscita nelle sale e a circa un mese dall'onorificenza americana. Soprattutto, dopo le esasperate denigrazioni che ne sono derivate sul web, dove chiunque si è sentito in dovere di sparare contro il film e il suo regista, con argomenti che con il cinema e l'arte hanno raramente a che vedere. Si è detto che il film sarebbe stato girato per compiacere gli americani, dando dell'Italia e degli italiani un'immagine degradata o folcloristica; che si tratterebbe di un prodotto radical chic, espressione di una sinistra intenta a guardarsi il proprio ombelico, lontana dai “veri problemi degli italiani”, attanagliati dalla crisi e dalle grinfie dell'Euro.
C'è anche stato chi ha espresso critiche più tecniche o attinenti alle scelte registiche di Sorrentino, e bisogna riconoscere che talvolta si è trattato di critiche fondate. Il film è caratterizzato da un certo autocompiacimento, tipico di quelle opere in cui l'autore ha parecchio da dire ma si convince che la propria padronanza espressiva e formale (indubbia in Sorrentino) gli sia indispensabile per dirlo, insieme a una conoscenza dello strumento cinematografico e della sua storia, infusi in ogni millimetro di pellicola.
La grande bellezza gronda cinema e citazioni, palesa gli autori di riferimento (Fellini su tutti) senza neppure filtrarli, al limite del plagio, spiattella rallenti e piani sequenza non sempre necessari e qualche inquadratura storta o capovolta di troppo. Fellini è inimitabile per la sua stessa, ingombrante, originalità. Appartiene a quegli autori (come Hugo Pratt nel fumetto), che hanno finito per diventare essi stessi autoparodistici. Averli come riferimento comporta, inevitabilmente, mettere in luce i propri limiti, anche quando si è registi d'indubbio talento come Paolo Sorrentino; anche quando ci si può permettere un attore del calibro di Toni Servillo. Chi ha scritto che Sorrentino ci tiene a farci notare che sa girare un film alla maniera di, non ha tutti i torti. Il manierismo permea La grande bellezza come tutto il cinema contemporaneo. Detto questo, rimane da capire se dal manierismo ne esca bene o male. Secondo me ne esce meglio che peggio, almeno dal resto del cinema italiano attuale, che non ha nemmeno il coraggio di essere cinema.
La grande bellezza non sarà un capolavoro, ma è cinema. Cinema come in Italia non se ne fa spesso. Non più, almeno. Dev'essere per questo che il web non l'ha ben trattato dopo la notizia dell'Oscar, secondo me meritatissimo: il linguaggio dei social network e dei forum, spesso riconducibile a un mi piace o un non mi piace, mal si adatta a un'opera metacinematografica e metaletteraria che richiede un certo grado di cultura e di capacità interpretativa. Appiattendolo sul presente, il web ha dato molto risalto alle (pseudo)interpretazioni politiche, che secondo me non sono che la l'epidermide del film. Un film che invece ci parla di morte e di spreco della vita. Che osa suggerire come vie di salvezza non l'uscita dall'Euro o la militanza politica, ma il sacerdozio dell'arte o la trascendenza attraverso il dolore.
Questo è cinema, e il cinema non deve per forza parlarci della crisi per essere bello. E nemmeno la letteratura. Per fortuna, direi! La crisi, finirà, in un modo o nell'altro. Forse anche il cinema è già finito, nato come intrattenimento scemo e tornato tale nel giro di un secolo, tutto giochetti ed effetti, dopo che splendidi artisti (come Fellini, Bergman o Welles...) o splendidi artigiani (come Ford, Hitchcock o Monicelli...) hanno saputo dirci cose inedite sull'uomo e sul tempo che gli è toccato vivere. Ma non è finita la sua missione, che è poi quella dell'arte. Meglio un film imperfetto, a tratti manierista, che riesce a dire qualcosa su di noi, su cosa siamo diventati, sul vuoto che viviamo, rispetto a un film magari perfetto ma vuoto.
Di certo La grande bellezza non è un film radical-chic, già solo per il modo in cui s'interroga sull'arte, lo scopo della scrittura e il ruolo dello scrittore. Il modo in cui Jep Gambardella smonta la scrittrice e intellettuale militante Galatea Ranzi ne è una chiara dimostrazione. Lo scrittore non si nasconde dietro all'ipocrisia, va dove gli altri non vanno; e se vive una crisi creativa, preferisce dichiarare pubblicamente la propria dissipazione. La mondanità se ne frega dei libri veri, del tempo che occorre per scriverli, la solitudine che comporta. La mondanità si occupa di artisti come la Abramovic, la De Filippi dell'arte contemporanea, che il film dissacra con un altro nome. Trascura il pianto di una ragazzina che lancia colori contro una tela per ordine dei suoi genitori, che si arricchiscono grazie a lei.  La mondanità se ne frega anche della fede e della trascendenza: ai mistici, agli asceti e ai santi, preferisce i cardinali che parlano di cucina.
La mondanità non sa che farsene neppure della morte, che con la sua routinaria sacralità interrompe la frivola routinarietà dei trenini mondani. Jep è un sessantacinquenne che vede morire le persone attorno a sé, ma passa avanti, come se gli affetti davvero importanti non dovessero mai lasciare il segno dentro di lui. Eppure sono questi i veri affetti che potrebbero costituire il suo secondo romanzo mai scritto, dopo il primo romanzo scritto in un'epoca lontana. Per scrivere qualcosa d'importante bisogna dare importanza alle cose e alle persone, metterle in relazione col tempo che ci rimane da vivere. Per poi scriverne in solitudine e concentrazione. L'arte e la mistica sembrano avere lo stesso livello di intensità: piacere e sofferenza si uniscono per arrivare a qualcosa di più intenso e grande. Entrambe fanno quotidianamente i conti con la morte. Non si fanno trenini mondani, si salgono scalinate in ginocchio e si mangiano radici. Perché le radici sono importanti.

Non certo le vibrazioni della Abramovic. Non certo il chiacchiericcio del web. 

























































giovedì 10 aprile 2014

ROBERTO FRANCO: "Unisex", il sesso all'epoca della globalizzazione






L'obiettivo che si pone il recente volume di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta – “Unisex”, uscito  per Arianna, è ambizioso: dimostrare che gli agenti della globalizzazione, non escluse multinazionali e grandi istituti bancari, operano in  maniera ora sottile ora sopraffattoria, per l’imposizione di un’agenda pro-gay e transgender tendente non solo ad affiancare, ma alla fine anche a distruggere  la famiglia tradizionale così  come oggi è intesa. Una sorta di “piano” che avrebbe avuto come ideologi sessuologi positivisti del  dopoguerra come Alfred Kinsey e John Money,  e sarebbe ulteriormente maturato nell’ambito del libertarismo di fine anni ’60 per evolversi linearmente fino ad oggi.
Trovo Interessante e non del tutto errato che gli autori pongano tra le motivazioni di fondo di questa corrente ideologica la lotta contro la sovrappopolazione e la necessità di adattare l’umanità alle scoperte della genetica, solo che non riesco sinceramente a vedere cosa vi sia di aprioristicamente negativo in ciò, visto che la sovrappopolazione è un problema drammatico che prima o poi andrà affrontato risolutamente, e le scoperte della genetica non sono certo frutto di un complotto.
Il complotto, (o quantomeno il coerente disegno) I Nostri invece lo danno per scontato, e l’accettazione della sua esistenza, estensione ed efficacia andrebbe assunta a priori per potere condividere le loro tesi. Il suo centro di propagazione sarebbe l’Occidente - e sacche di resistenza ad esso si troverebbero, ad esempio, nella Russia di Putin.
Perucchietti e Marletta, insomma, non paghi di aver intelligentemente delineato l’evoluzione una tendenza culturale sempre più importante negli ultimi decenni quella, dell’ideologia del genere (concetto che tende a sostituire quello di sesso) cercano di dimostrare l’univocità e la coerenza della sua diffusione globale, accumulando però a  dimostrazione elementi troppo parziali e eterogenei  per risultare convincenti. 

Trovo altresì meritorie e condivisibili le molte pagine dedicate all’invadenza lessicale di una neolingua politically correct – sempre più sorretta da leggi agghiaccianti nell’Occidente più evoluto, anche concernenti l’educazione scolastica, che tende a distruggere fin dalla più tenera età i concetti di eterosessualità e di famiglia tradizionale (invece di farli convivere con quelli, legittimi, relativi al transgenderismo, aggiungo io). Ma nei giorni in cui, anche grazie alla pressione di lobby della destra evangelica americana, viene introdotto in Uganda l’ergastolo (e di fatto  il linciaggio) per gli omosessuali, trovo difficile non mettere in dubbio l’univocità ideologica della globalizzazione denunciata dai due autori.

lunedì 7 aprile 2014

ERMAN PETRESCU: Hitler? Il più grande artista del mondo!


Tutto è eccesso. Max Fontana stesso, il protagonista de “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler”, non ha scrupoli a porsi al di là del culturalmente consentito; ma eccedere e dunque provocare non risulta così semplice, quando tutto sembra essere stato fatto, detto, scritto. Allora, anche programmare un suicidio dalla Tour Eiffel non darà fama e originalità a Max, artista fallito, rassegnato all’anonimato e al non-riconoscimento dalla cultura “ufficiale” e da una madre quasi ostile alla sua stessa esistenza. Diventare artista (e famoso) si può, se ti trovi al posto giusto nel momento giusto, e se sai approfittarne. Max Fontana, al Musée d’Orsay, davanti al dipinto di Coubert L’origine del mondosi sbottona i pantaloni e si masturba sino ad eiaculare sulla tela. Il suo gesto clamoroso attira ogni media: Max Fontana, da artista fallito,è ora il più grande artista del mondo. Dopo Adolf Hitler. Max Fontana non è nazista, ma nelle sue riflessioni sull’arte e sull’Artista, si dipana per tutto il romanzo, l’eterno confronto con il Führer, visto come Autore della più estrema installazione di sempre: i campi di concentramento. “In ogni caso, come dittatore Hitler è un criminale dell’umanità, ma come artista è il più grande artista dell’umanità. Nessun artista è riuscito a fare cinquanta milioni di morti. Hermann Nitsch ha ucciso qualche mucca, forse. Damien Hirst ha messo sotto formalina squali e capre e mucche, ma uccisi da altri, non ha avuto neppure il coraggio di uccidersele lui le sue opere d’arte. Hitler, tra guerra e lager, ha mandato a morire cinquanta milioni di persone.
Non so se mi spiego: grazie a Hitler, a causa sua, cinquanta milioni di persone sono morte”, riflette Max Fontana, a poche pagine dalla fine del libro.
Per essere il più grande del mondo, non ci si può conformare alla società nella quale si ha la sfortuna di vivere; per Max Fontana basta vivere la sua vita da normale sociopatico, da provocatore suo malgrado. Il romanzo di Parente, infatti, è una satira precisa del mondo dello spettacolo che coincide troppo pericolosamente col nostro mondo. Le superficialità di Max Fontana sono le superficialità del mondo dello spettacolo, dell’arte, degli intellettuali di professione, dei cittadini/spettatori per cui tutto è giostra di sensazioni preconfezionati. Tutto diventa di facile consumo, e per l’artista Fontana basta giocare come bambino col suo immaginario pop per usare il simbolo della svastica, o la  figura stessa del Führer, immagine e nome stesso ormai tabù nella società massificata. Per Fontana Hitler non è un Mito o un modello da eguagliare, ma solo simbolo pop, appunto, svuotato del suo significato originario. Più che Hitler, il Tabù di Hitler.Dunque ecco che la prima parte del romanzo ci illustra, in prima persona, la nascita e lo sviluppo di una vita artistica particolare più di altre.
Al fine di non togliervi il gusto della lettura, eviterò di rivelare alcuni momenti dell’intreccio. Max Fontana, ad un certo punto, sparisce, ma ritorna nella terza parte del romanzo, più invisibile, etereo ma allo stesso tempo piùpresente più che mai. L’ultima parte del romanzo abbandona la forte ironia iniziale e si inoltra nella malinconia, nella rassegnazione a far parte di un campo di concentramento più grande, terribile e spietato che è l’Universo stesso: "Mi è sembrato tutto chiarissimo, almeno in quell'istante era tutto così lampante, ecco, sì, lampante. Ho pensato alla finzione di una puttana, alla finzione di Doctor House, alla finzione della religione, a tutte le finzioni del mondo per ingannarci, e è pazzesco quanto basti poco perché gli eventi precipitino e la vita diventi simile a un film, come quando Louise spara all'uomo che stava per violentare Thelma e la loro vita cambia così, irreversibilmente, come quando rompi un uovo e non puoi più rimetterlo nel guscio: è l'entropia, è il caos verso cui precipita tutto l'universo, non c'è soluzione. Forse è per questo che Duchamp diceva: "Non ci sono problemi perché non esistono soluzioni". L'universo è già la Soluzione Finale a qualsiasi cosa".
Il nuovo romanzo di Massimiliano di Parente abbandona il linguaggio dal periodare complesso e ricercato de “La macinatrice” (2005) e di quel capolavoro che è “Contronatura” (2008), le due parti di una trilogia conclusasi nel 2012 con “L’inumano”, in cui il periodare ritornava già a semplificarsi – a semplificarsi, non a rendersi superficiale.
Con Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, Parente trova la forma perfetta in uno stile di scrittura di totale leggerezza, capace di tenere desta l’attenzione del lettore per quasi quattrocento pagine.
Lo stile di Parente e a dir la verità anche la psicologia del suo protagonista, sembra richiamare molto il mondo di Bret Easton Ellis, autore non solo di “American Psycho”, ma anche del “Glamorama” da cui questo romanzo sembra dovergli molto.


sabato 5 aprile 2014

PUPI AVATI: Il cinema italiano? Commediole senza senso!



INTERVISTA A CURA DI: JACOPO FANO'

Quando, mesi fa, ho visto per la prima volta “La Casa Delle Finestre Che Ridono” ed il più recente “Il Papà Di Giovanna”, mai avrei pensato, in un’assolata giornata di marzo, di aver accesso alla possibilità, probabilmente unica, di intervistare telefonicamente il regista Giuseppe “Pupi” Avati.
E’ complesso da spiegare, da rendere comprensibile, affidandosi al tecnicismo della sintassi, la tensione spirituale che pulsa nell’ormai anziano autore, la potenza vitale coniugata nei termini di un raffinato amore per l’individualità concepita nella sua accezione olistica, che, nonostante il tono pacato, si riverbera marcatamente in ogni singolo concetto comunicato.
Il rischio è, banalmente, di sminuire la mia fortuna da un lato, e la profondità del pensiero del cineasta dall’altro, il quale, ricorrendo ad una configurazione del pensiero semplice, scorrevole, esprime le linee guida della sua arte.
Un’estetica rivolta all’umano, alla narrazione ariosa, concentrata sull’emotività prima che sulla sterile analisi naturalista, scevra, quest’ultima, di tradurre in immagine vivida le sfaccettature dell’animo.
L’occhio ispirato di Avati tramuta una scelta stilistica in una chiave di lettura adatta a leggere la vicenda esistenziale di protagonisti sovente sconfitti, delusi, mediocri, accomunati, come il loro creatore, da una fiducia, da una speranza, in una ricompensa che plachi il dolore di innumerevoli crinali.

JF: Come  si è avvicinato al mondo del cinema? Ho letto che non è stato un percorso immediatamente disponibile e che, al contrario, ci è arrivato tardi…
PUPI AVATI: No, infatti. Era il 1964, vidi 8 e mezzo di Federico Fellini e rimasi folgorato dalla vigoria espressiva di questo strumento. Mi si è aperto un mondo nuovo.  Quel cinema poneva l’attenzione sull’individuo narratore, in modo totalizzante, evidenziando una potenzialità estrema, andava oltre il mero naturalismo, sottolineando una visione ampia, larga, concentrandosi sulla vicenda umana e sulla relazione tra ciò che vedi e ciò che invece non vedi. Rimasi folgorato.

JF: Lei ha collaborato con Pasolini, in occasione della stesura della sceneggiatura per Le 120 Giornate di Sodoma. Ne possiamo parlare brevemente?
P.A. : Un incontro dovuto al caso, in quanto originariamente la sceneggiatura che avevamo scritto era pensata per il regista Vittorio De Sisti. Successivamente, per le scabrosità all’interno del testo, abbiamo pensato di affidarlo ad un protetto di Pasolini, Sergio Citti (regista di Storie Scellerate, attore in Accattone, ndr). Ci siamo quindi ritrovati in tre a sceneggiare, in quanto la bozza di partenza non aveva incontrato il favore di Pasolini, io, Citti e lo stesso Pierpaolo, nonostante poi fossi io a tornare a casa la sera e ad apportare materialmente i cambiamenti. Non mi è stato semplice partecipare alla stesura di quella pellicola, soprattutto per la difficoltà nel calarmi in un contesto composto prevalentemente da una visione cruda, da una forte disperazione, da una spiccata tragicità, distante dal mio essere. Comunque sono lusingato di aver avuto la possibilità di collaborare con lui.

JF: Ma mi dica, com’era come persona, nel privato? Sovente ci raggiunge una visione alterata della sua figura…
P.A. : Era mite, sensibile, aperto mentalmente, attento a non ferire le persone attorno a lui. Quando doveva propormi dei cambiamenti alla scrittura lo faceva sempre con un garbo notevole, benché potesse permettersi atteggiamenti diversi. Era comprensivo e spiccava la sua affettività. Mi ricordo quando lo mi presentò la famiglia, mi ricordo la quotidianità semplice e borghese, fatta di preoccupazioni altrettanto semplici, come il piatto da preparare per la cena, e proprio lì, accompagnato dalla madre e della sorella, emergeva il suo lato umano, la sua delicatezza.

JF: Cosa ricorda del rapporto tra la cultura di sinistra e Pasolini?
P.A.: Con Pierpaolo non parlavo quasi mai di politica. Io non me ne interesso, preferisco concentrarmi sull’uomo, sulla massa come ente a cui rivolgersi, lui non commentava, se non marginalmente. Era di sinistra, certo, ma aveva una sua personalità, come si evince dagli Scritti Corsari o dai suoi interventi sul Corriere della Sera. In quel contesto, dominato dai due blocchi, democristiano e comunista, era probabilmente una spina nel fianco. Ha, comunque, sempre rispettato la mia cattolicità (Pupi ricorda come PPP lo introdusse alla madre dicendo “mamma, ecco, questo è un cattolico!”).

JF : Invece, qual era la sua relazione con Federico Fellini?
P.A. : Con Fellini ero amico, amico vero (non posso dire lo stesso di Pasolini, la relazione era diversa), abitavamo a cento metri di distanza, le nostre madri andavano a chiesa assieme.  Ho trascorso assieme a Federico gli ultimi cinque anni della sua vita, ero tra quelle dieci persone al massimo a cui concedeva di assistere alle “prime private” dei suoi nuovi film. Ma ho anche vissuto il suo periodo più nero, il suo declino anche fisico, ed è stato complesso osservare come una figura reputata comunemente un grande genio, declinare. Ho condiviso le sue umiliazioni, i momenti in cui le case di produzione non lo badavano più (rammenta di come Fellini telefonasse alle varie sedi, ottenendo solo un “la richiameremo noi”), la sua malattia.

J.F. : Colgo l’occasione per chiederle se l’esperienza di scrivere un’autobiografia, dato che ne parlavamo poc’anzi, sia stata in qualche modo catartica…
P.A. : Lo è sempre. L’ho scritta perché ognuno di noi deve fare lo sforzo di immaginarsi in contesti, situazioni, ipotesi, non rinunciando, non respingendo mai i propri sogni, perché essere amato attraverso la propria espressione è un richiesta legittima. La mia vita è l’emblema di questo atteggiamento non rinunciatario: è stata difficile, tuttavia con fiera ostinazione, un minimo di talento, ho affrontato svariate salite. Con la persistenza da qualche parte, poi dipende da persona a persona, da come vengono fatte le cose, più o meno bene, si arriva. Non bisogna rassegnarsi ai raccomandati…ho ricevuto da numerose persone dei responsi positivi, nel libro hanno trovato una incitazione a non abbandonare, a perseverare (quantunque Avati non l’abbia utilizzata, la parola resilienza riassume il suo concetto in maniera mirabile, ndr). Il segreto è tenersi alla larga dal cupo pessimismo…

J.F. : Mi perdoni l’interruzione, ma accetto che lo sforzo sia al centro dell’esistenza, però come vede il binomio passione-talento?
P.A. : La passione da sola ti porta alla professionalizzazione, mentre il talento permette di affermarsi, infondere qualcosa di veramente tuo in quello che fai…questa a mio avviso è la fondamentale differenza.

J.F.: Il suo essere cattolico esercita un’influenza su questa visione del mondo?
P.A. : Sì, il senso della Provvidenza insegnatomi da mia madre, la sacralità come modo di combattere il pessimismo, mi hanno aiutato a riconoscere una finalità nelle mie azioni. E’ terapeutico sviluppare la consapevolezza che prima o poi si possa essere risarciti dalla vita. Quando telefonavo a mia madre raccontando delle disavventure o dei fallimenti, ricorreva sempre ad un celebre detto contadino: “Si chiude una porta, si apre un portone”, così da non scoraggiarmi. Questa consapevolezza di un qualcuno che si “occupa” di me, le cito un film famoso negli anni Cinquanta “Lassù qualcuno ci ama” per rendere meglio il significato del discorso, la riconosco nella mia parabola professionale, io passato da vendere surgelati a girare 45 pellicole per il cinema.

J.F: Passando ad altro, qual è il suo giudizio sul cinema italiano?
P.A.: E’ ridotto ad un commediola di corto respiro, ricicla le stesse quattro formulette, interpretate dai soliti cast da un lato, e dall’altro al cinema d’autore afflitto da enormi difficoltà. Si punta a blandire il pubblico, che non è in grado di distinguere la qualità né di capire se un attore è bravo oppure è un cane… quando ho cominciato io si facevano 350 film all’anno, si rende conto? 350, e lavoravano tutti, e probabilmente i registi attivi erano ancora in numero maggiore, dato che non la totalità dei cineasti gira un film all’anno. Oggi se ne girano 60 se va bene, sempre con dei nomi di spicco (fa riferimento a Zalone, Bisio, De Luigi) e con uno sguardo rivolto al botteghino. Su 350 pellicole, capisce, 10 potevano essere capolavori, è una percentuale accettabile. Ma su 60? Questa si riduce all’infinitesimale, se pensa, inoltre, che i film prodotti sono supportati proprio in vista della capacità di commercializzazione.

J.F.: E’ vero anche che così facendo si sottrae spazio ad un ricambio generazionale…
P.A. : Esatto, si lascia fuori la sperimentazione, la possibilità per i giovani di inserirsi nel contesto. Lo stesso vale per la televisione: gli autori, non so se ci sia buona o mala fede, non sembrano saper produrre nulla di qualità, nulla che contrasti l’appiattimento culturale dei nostri tempi. Siamo contraddistinti da una pigrizia intellettuale, mentre la critica è frequentemente sterile, non ti dà un indirizzo su quali strade intraprendere per migliorare.

J.F.: Conti che però l’Italia mi sembra un mercato piccolo, ridotto…è normale che una preoccupazione pressante sia il ritorno economico…
P.A.: Non è vero. Anche la Francia è un mercato di dimensioni ridotte, eppure sforna materiale di qualità, di spessore, c’è questa ricerca di una sensibilità diversa.

J.F. : Ma nemmeno il film di genere è percorribile? Una volta, negli anni Ottanta, eravamo maestri…
P.A. : Il film di genere non si fa più ed è un peccato. Era una scuola, una modalità di apprendimento per giovani registi che imparavano attraverso, appunto, i canoni di genere. Oggi che “genere” esiste? Solo la commedia, niente altro. Una commedia sterile, superficiale.

J.F. : Non ci salva nemmeno il trionfo della Grande Bellezza di Sorrentino?
P.A. : Non basta a redimere il cinema italiano dalle sue colpa. Il film di Sorrentino è bellissimo, felliniano, contraddistinto da una visione ampia e da un’ambizione, un cinema sul cinema che, mi sembra, pochi han capito. Mi vengono a dire che non ne si comprende la logica…tuttavia non è sufficiente a sollevare il cinema d’autore, nonostante aiuti un’esposizione massiccia, un pubblico che ti viene a vedere. In generale dello stato attuale del cinema nostrano salvo solo Sorrentino e pochi altri…in Italia non conta più nulla una forma d’espressione, lo ribadisco, qualitativamente apprezzabile. 

J.F.: Un’ultimissima domanda signor Avati…qual è il suo spettatore ideale?

P.A. : Quello che mi somiglia maggiormente, non da un punto di vista anagrafico si badi. Potrebbe pure avere 25 anni. Dev’essere sensibile, abituato a guardare alle cose della vita da vicino, dotato di apertura mentale, senza pregiudizio alcuno, con lo spirito di un fanciullo come me, ostinato, con una tendenza al bello. Alcuni sostengono che giri film rassicuranti, è vero, in primis rassicuro me stesso, ecco, lo spettatore ideale è quello che non si arrende, che cerca il risarcimento rassicurante alla fine, per questo spesso i miei personaggi sono degli uomini normali, medi anche inadeguati.

giovedì 3 aprile 2014

ANDREA DEGL'INNOCENTI: L'epoca della biofobia



Tempo fa mi trovavo a dormire nella mia casa di famiglia nella campagna fiorentina, cosa che mi capita piuttosto di rado. Mi giravo e rigiravo sotto le coperte stentando a prendere sonno, percorso da una leggera inquietudine. Davo la colpa al caffè, poi alla cena troppo abbondante, poi a questa o a quella preoccupazione. D'un tratto mi resi conto della vera ragione per cui restavo sveglio: il silenzio. Quel silenzio buio, interrotto solo a tratti dal canto di un grillo, dallo scricchiolio di una trave, dal gracidare di una rana mi turbava nel profondo. Mi riportava ad una dimensione troppo naturale a cui non ero più abituato.
Eppure, mi dicevo, da piccolo trascorrevo lunghe estati in campagna, giocavo a rotolarmi nei campi e inseguivo cavallette, mantidi e insetti stecco; mi sentivo pienamente parte di quel mondo del quale adesso la sola eco mi incute timore. Cosa è cambiato in me?
Ho riflettuto a lungo su quella sensazione, che ho provato ancora e ancora in altre situazioni, e ne ho tratto alcune conclusioni. Viviamo in un'epoca strana, in cui tutto ciò che dovrebbe essere più familiare e naturale ci risulta estraneo e sinistro. Viceversa l'artificiale è diventato naturale. Temiamo la terra perché è sporca e in essa si annidano germi pronti ad attaccarci. Abbiamo il culto dell'igiene totale: i luoghi che abitiamo devono essere asettici, privi di qualsiasi forma di vita all'infuori di quelle scelte da noi. Alle forme naturali, in cui mai niente è uguale a nient'altro, preferiamo quelle artificiali, standardizzate e indistinguibili. Alla frutta dell'albero, ammaccata e irregolare, preferiamo quella ben più rassicurante contenuta in scatole di plastica, già tagliata e confezionata. Mangiamo carne affettata che non ricorda più in niente l'animale da cui proviene, perché se ne avesse ancora le sembianze probabilmente non riusciremmo a mandarne giù nemmeno un boccone. Il nostro stesso corpo è diventato un estraneo, ne abbiamo quasi paura, lo osserviamo intimoriti di trovarvi qualcosa che non va, lo nutriamo male, non vi prestiamo attenzione per poi bombardarlo di “cure” non appena avvertiamo i sintomi di qualche disagio.
In altre parole, temiamo la vita. Ecco, viviamo nell'era della biofobia.
Ma come siamo arrivati fin qui? Per capirlo basta dare uno sguardo alla storia, o ancora meglio  all'idea stessa di storia. Ad essa nel corso dei secoli sono state associate varie immagini. Nell'antichità la storia aveva un andamento ciclico, conferitogli dai movimenti rotatori caratteristici della natura. Essa altro non era che il continuo ripetersi dei giorni, delle stagioni, delle ere geologiche. All'interno di questi cerchi concentrici si inseriva, unico tratto lineare, la vita umana. «Questo è l’essere mortale – scrive Hannah Arendt nello spiegare il concetto di storia nell'antichità greca –: muoversi in linea retta in un universo dove tutto ciò che si muove segue, semmai, un moto ciclico».
È stato il cristianesimo a conferire per la prima volta alla storia un andamento lineare. Ecco apparire un termine destinato ad accompagnare l'umanità per un lungo periodo: progresso. L'idea di progresso rompe il cerchio naturale della storia. L'umanità – in verità una sua parte – sale su un treno salvifico che muove verso luoghi sempre migliori, di cui si conosce solo la partenza, mentre l'arrivo è situato all'infinito.
Questo concetto di storia lineare può essere letto anche come un progressivo affrancamento dell'uomo dalle leggi naturali. Questo affrancamento, iniziato con la rottura simbolica del legame fra idea di storia e ciclicità naturale, ha trovato compimento secoli dopo nei concetti di sviluppo tecnologico e di crescita economica. Lo sviluppo ha rotto le catene che legavano l'uomo ai ritmi della natura, alle stagioni, ai raccolti; il teorema della crescita economica, assieme col suo principale corollario, il consumismo, ha spezzato il ciclo di rigenerazione della materia e introdotto al suo posto un meccanismo lineare, che inizia con l'estrazione della materia e finisce con la creazione di rifiuto (concetto, quest'ultimo, del tutto inedito).
Oggi però anche questa concezione lineare della storia è entrata in crisi. Dal punto di vista filosofico, la fede nel progresso ha subito un duro colpo nella prima metà del secolo scorso. Le due guerre mondiali hanno svelato d'un tratto al mondo intero il lato oscuro della tecnica. Così se negli anni fra le due guerre ancora Marinetti gridava «Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione, anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza», qualche anno dopo Elias Canetti commentava laconico «Il progresso ha i suoi svantaggi; di tanto in tanto esplode». Ci siamo spinti tanto oltre nel distaccarci dalla natura che oramai siamo al paradosso che dobbiamo noi preoccuparci di essa. Se un tempo la natura era vissuta come una madre presente e oppressiva, che legava l'uomo ai suoi ritmi e ai suoi capricci, oggi può essere al massimo una nonna indifesa, che abbiamo abbandonato e verso la quale proviamo un misto di pietà e senso di colpa. Dominiamo le leggi naturali, viviamo al di sopra di esse. Così ogni volta che abbiamo a che fare con tali leggi più da vicino ci sentiamo turbati, come ci capita a volte nell'osservare una nostra vecchia foto appartenente ad un passato da cui ci sentiamo ormai estranei. L'unico concetto riconducibile alla linearità storica che aveva resistito fino ad oggi, quello di crescita economica, vacilla adesso di fronte ad una crisi che ne mette a nudo tutte le debolezze e le contraddizioni.
Il problema è che ormai  Le linee dritte dei binari sono sempre meno marcate, all'orizzonte si scorgono nubi sempre più nere. L'emergenza climatico-ambientale ci dice che uno stile di vita planetario basato sul consumo è insostenibile. È vero, resiste in noi una vaga idea di progresso, ma ha perso ogni accezione positiva e si associa piuttosto ad uno stato di ansia costante, alla «minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che – scrive Bauman – invece di promettere pace e sollievo non preannuncia altro che crisi e affanni continui, senza un attimo di tregua». Sentiamo che continuiamo a muoverci, e velocemente, ma ci è divenuto ignoto il fine ultimo della folle corsa; il treno si è trasformato in una bestia impazzita che ansima e brancola nel buio, e noi restiamo aggrappati sulla sua groppa irsuta, col timore che possa schiantarsi o precipitare da un momento all'altro.
«Fermiamoci! Torniamo indietro!», verrebbe da gridare. Ma se, impauriti e nudi come il Re della celebre favola, corriamo alla ricerca dei nostri vecchi abiti, della nostra vecchia madre, la natura, troviamo un'estranea nei cui occhi non scorgiamo ormai neppure un briciolo dell'antica familiarità. Una vecchia esausta e maltrattata, a cui vorremmo tornare ad appartenere ma che apparentemente non ci vuole più. Ne siamo estranei, ne abbiamo paura.
Ma allora siamo senza speranza? Potremo mai riaggiustare il meccanismo, piegare la barra della storia facendo combaciare di nuovo le due estremità in un nuovo cerchio? Tornare ad appartenere alla natura e ai suoi meccanismi?

Non ci resta che riacciuffare quei vincoli strappati dal progresso e iniziare a tesserne le cime fra loro, lentamente. Incollare i cocci esplosi finché al loro interno non torneremo a vedere un'immagine coerente. Sarà un processo individuale e collettivo al tempo stesso. E anche piuttosto lungo. Sperando di essere ancora in tempo.