Secondo un recente sondaggio, in Italia sei persone su dieci non leggono
libri; il mondo culturale è così agonizzante che, se potessimo, vorremmo essere
sia artisti che scrittori che filosofi, e come filosofi vorremmo essere sia marxisti
che idealisti o nichilisti – questo per contribuire a rivitalizzare un mondo
annientato, laddove se i più vogliono prostrarsi al conformismo, noi vorremmo
farci carico di tutte le opzioni radicali e veder saltare in aria tutto, in un
grande fuoco d’artificio. Ora, tra tutte le strade che ci si parano innanzi, il
momento della crisi, col disfacimento che porta, ci ripresenta lo spettro delle
difficoltà materiali e della povertà stessa. Non sono tempi di vacche grasse.
Men che meno, lo sono per l’intellettuale; spesso, invero, per mancanza di
radicalità nella comprensione. Le lamentele degli intellettuali su come questa
società non si occupi di loro fanno tristemente sorridere. Come potrebbe andare
diversamente? La nostra è una società ormai integralmente “democratizzata”,
livellata dal denaro, in cui il valore di ogni cosa si misura in termini
monetari, secondo leggi di domanda e offerta. Per sopravvivere è necessario
possedere un certo “potere contrattuale” , in modo che un certo numero di
persone abbia bisogno di ciò che noi offriamo loro; parrebbe una constatazione
di una banalità disarmante, ma non lo è quando si parla di “cultura”, e gli
intellettuali pretendono anzi che gli stessi individui che disprezzano e
scherniscono a causa della loro ignoranza, si occupino di loro. Anche questo è
il segno di una cultura morta, mummificata e ormai del tutto incapace di ogni
slancio di vitalità ed autenticità. Come può comportarsi, dunque,
l’intellettuale al tempo della crisi? Abbiamo già nominato un’opzione: aderire
al codice di pensiero dominante. Fatevi fautori del politicamente corretto, e
con un certo bagaglio di letture in tasca potrete tirare a campare, il più
delle volte dicendo sciocchezze. Va da sé, tuttavia, che questa non è la nostra
strada: non per una diversa adesione ideologica, ma per istinto. Davvero non
possiamo adeguarci al presente: già vediamo la noia assalirci, dilaniarci, la
banalità di pensatori innominabili (per inattuale buon gusto) causarci nausee
mortali. Ma arriviamo al punto: noi crediamo che la crisi possa fornire, in
certi spiriti “ricettivi”, il contraccolpo necessario a rimettere in moto la
macchina del pensiero che parrebbe essersi inceppata. Vent’anni fa si credeva,
con il discusso saggio del 1992 di Francis Fukuyama The end of the history and
the last man, che in seguito al disfacimento dell’Unione Sovietica si potesse
decretare “la fine della storia”, andata a sfociare in una definitiva tendenza
globale al liberalismo ed alla prassi democratica. Non si è fatto in tempo ad
azzardare l’ipotesi, che la vicenda umana (anche attraverso la crisi) in un
sussulto si è riattivata, e risvegliati dal torpore abbiamo scoperto che la
storia non è un passato lontano raccontato nei libri, ma è carne e sangue:
siamo noi nel nostro immediato vivere. Il pensiero sembra tuttavia essere
ancora preso dal torpore. Non è all’altezza del risveglio dalla storia: si
tratta spesso di un pensiero accademico sterile, laddove gli studenti, trattati
alla stregua di dementi con paterna benevolenza dai professori, si rassegnano
(e del resto anche serenamente, constatando la difficoltà dell’altra opzione) a
commentare per l’eternità i classici, certo imprescindibili, ma non meritevoli
del supplizio di tali soporiferi commenti. L’altra opzione a cui abbiamo accennato,
temiamo non possa, al momento, trovare spazio nell’ambiente accademico, se non
marginalmente: è la strada della critica, dell’interpretazione della realtà
presente, nella cui prospettiva certamente è necessario un confronto radicale
sulla base dei classici del pensiero; ma che ci porti, questo sapere, a
squarciare il velo, e che sia il nostro vivere, e anch’esso carne e sangue, e
conflitto. Come diceva Friedrich Hölderlin: “Là dove c’è il pericolo, cresce
anche ciò che salva”.
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