venerdì 23 maggio 2014

ENRICO GALOPPINI: Cinque Stelle, ecco cosa fare dopo la vittoria.



Se c’è un obiettivo che un movimento politico “alternativo” dovrebbe perseguire sempre e comunque è quello della presa del potere.
In Italia sono decenni che nascono partitini di “estrema sinistra” e di “estrema destra” che a parole spaccano il mondo, ma poi – incapaci di attirare un consenso significativo -  si alleano regolarmente coi carrozzoni dei partiti maggiori della medesima area ideologica.
Non sono poi mancate proposte politiche che sembravano rappresentare “il nuovo che avanza” ma che, dopo un lusinghiero risultato, sono sparite nel giro di qualche anno (penso all’“Italia dei Valori”, letteralmente volatilizzatosi). Oppure movimenti che si sono sempre fatti vanto del fatto di starsene fuori dal “palazzo”, autoconvincendosi così della propria purezza mai messa al vaglio della prova dei fatti.
Ma stavolta non sembra la solita storia, perché il Movimento Cinque Stelle sta dicendo chiaramente di voler governare, e per giunta senza fare alleanze ed “inciuci”. Si ascolti per esempio l’ottavo minuto di quest’intervista di Enrico Mentana ad Alessandro Di Battista:https://www.youtube.com/watch?v=BEShWhuw4mw&
Di Battista ripete due volte: “Ci credo proprio che andiamo al governo!”
L’ha sparata grossa? Gliene si può fare una colpa? Lo si può accusare d’essere un illuso?
Solo chi non ha capito in quale grave situazione siamo può ancora pensare cose del genere.
Ma se un governo pentastellato sta nei destini di questa Nazione, mi permetto di ricordare ai futuri governanti che, al di là delle “tre cose che faremo subito” (reddito di cittadinanza, legge anticorruzione, legge sul conflitto d’interessi), ve ne sono altre, molto più urgenti ed importanti, per rimettere, come si suol dire, “il bamboccio in piedi”.

Ovviamente capisco benissimo che, una volta al governo, non si può partire immediatamente con una terapia d’urto, e che determinate epocali “riforme” hanno bisogno di essere ben preparate per non trovarsi ad affrontare problemi ancor peggiori.
Ma quello che segue è ciò che un governo finalmente italiano deve fare:
1)    Ristabilire la sovranità monetaria dello Stato, unico emettitore di una moneta dei cittadini esente da “debito”. Abolizione, in ogni forma, del prestito ad interesse, fonte d’ogni sciagura economica, sociale e politica. Lo Stato – fermo restando il valore della libera intrapresa quale elemento di elevazione della persona umana – deve essere posto di nuovo al centro dell’attività economica e bancaria.
2)    Ripristinare la completa sovranità sull’intero territorio nazionale, con immediata rescissione delle “alleanze” imposteci dopo la nostra sconfitta militare del 1945. Smantellamento, quindi, di tutte le basi Usa e Nato presenti in Italia. Simultaneo stabilimento di nuove alleanze strategiche con tutti quegli Stati parimenti impegnati nella lotta allo strapotere occidentale e al suo modello di “civiltà” distruttore di ogni identità, ogni differenza ed ogni elemento qualitativo.
Questi sono i primi due essenziali passaggi, che logicamente preparano il riordino degli altri settori che attualmente languono in una crisi spaventosa che non può che peggiorare se non s’interviene al più presto.
Tanto per fare un esempio, con la sovranità monetaria viene finalmente a godere di rinnovata salute sia l’imprenditoria pubblica e privata che la capacità di spesa delle famiglie italiane, le quali oltretutto cesserebbero di essere vessate da una fiscalità senza senso perché l’odierna tassazione è giustificata – si fa per dire – solo dal perverso meccanismo d’indebitamento dello Stato che è costretto a farsi prestare i soldi dai “signori del denaro”!
Una buona idea, capace di produrre un beneficio per la comunità, non andrebbe subito a morire come accade oggi perché “non ci sono i soldi”: lo Stato se ne farebbe garante e sostenitore proprio perché detentore della sovranità monetaria.
Ma facciamo anche un altro esempio facile da capire. Con la sovranità territoriale e la libertà di allearci con chi vogliamo, verrebbe inoltre risolto l’altro atavico problema italiano, ovvero quello del nostro coinvolgimento nella sistematica ed essenziale (per gli occidentali) serie di aggressioni a mano armata in giro per il mondo. Oltre a ciò, la perdita della “colonia-Italia” sia come fornitrice di truppe cammellate, sia come base da cui sferrare attacchi nel Mediterraneo ed oltre, minerebbe alle fondamenta la capacità d’azione militare dei nostri attuali padroni.
Dunque, ripristinati i due classici capisaldi della sovranità, l’Italia sarebbe finalmente libera dall’influenza nefasta di tutte quelle centrali della dissoluzione e dell’essere umano e della nostra comunità, sotto ogni punto di vista, quali sembrano piuttosto chiare nella mente di quelli che ancora qualche ritardatario chiama con aria di sufficienza “i grillini”.
Sotto quest’aspetto, l’intervento in aula della parlamentare del Movimento Cinque Stelle Tiziana Ciprini, di appena sei giorni fa, è letteralmente musica per le orecchie:https://www.youtube.com/watch?v=UVXb5w3cluI [1]
Certo, Lorsignori pensavano di aver definitivamente azzerato – coi loro media e i loro lacché infilati ovunque – ogni capacità di resistenza, anche solo critica, da parte di questa Nazione.
Invece no, ed è bene che se lo ficchino bene in testa.
Ma se il movimento guidato da Beppe Grillo, giunto al governo, continuasse a cincischiare con questioni di secondaria importanza come le “diarie” e i “rimborsi elettorali”, per non parlare dell’assurdo ed inapplicabile pseudo-principio per cui “uno vale uno”, è altrettanto bene porsi sin d’ora il problema di far emergere, da questa medesima Nazione italiana, una forza che al primo posto della sua azione politica ponga i predetti elementi costitutivi di ogni sovranità, libertà ed indipendenza.
Grillo afferma sovente che se non ci fosse stato il Cinque Stelle oggi avremmo “il fascismo”. Ma l’Italia fascista - stabilito che stiamo parlando di una realtà di quasi un secolo fa e che il “fascismo”, più che un’ideologia, è una prassi – non era un Paese succube degli stranieri, né della finanza apolide. Anzi, era all’avanguardia in ogni campo ed erano gli altri a guardare a noi come ad un modello cui ispirarsi.
Per farla breve, ai Cinque Stelle, che per molti aspetti ammiro e riscuotono la mia simpatia, dico questo: chiamate le cose come volete, ma non scambiate la sostanza con la facciata. Se negli anni Venti e Trenta le chiavi di casa le avevamo noi, e pure i nostri soldi non dovevamo implorarli ad una tipografia camuffata da istituto d’emissione; se, insomma, dello “spread” ce ne potevamo tranquillamente fregare e le cose da fare si facevano, alla svelta, e pure con un avanzo di cassa (le famose bonifiche, tanto per dirne una), un motivo ci sarà.
Quindi, prima di esaltarsi per una “questione morale” posta a suo tempo dal PCI berlingueriano (o berlinguer-innegato?), che risuona di continuo nei comizi del Cinque Stelle come se si trattasse della pietra angolare d’ogni buona azione politica, ci s’interroghi se, piuttosto, una Nazione libera, indipendente e sovrana non sia invece il risultato di un sistema che, lungi dal considerare “tutti uguali”, premia le eccellenze e fa in modo che queste si adoperino, oltre che per la loro soddisfazione personale, per il bene comune e l’interesse nazionale.
Altrimenti, esiste il concreto rischio che ad una pagina nera della nostra storia vada ad aggiungersene un’altra: la farsa, dopo la tragedia, di una sorta di “Repubblica giacobina” che, in un’orgia di “processi popolari” di cui quello “in rete” che si profila è solo l’antipasto, darà solo l’illusione di una vera “rivoluzione” ad un’Italia che, forte della sua storia e della sua civiltà millenarie, non meriterebbe l’ennesima presa in giro.






[1] La trascrizione si trova da p. 37 (in fondo) a p. 40 (in cima) di questo documento tratto dal sito della Camera dei Deputati:
http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0229&tipo=stenografico#sed0229.stenografico.tit00060.sub00010.int00250

fonte: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=48503

giovedì 22 maggio 2014

ALESSANDRA COLLA: Il M5S porterà a votare una astensionista convinta come me!




Chi mi conosce sa che da molti anni non voto alle elezioni — l’ultima volta che l’ho fatto è stato per un partito di sinistra, quando ancora (forse) la sinistra esisteva. E sa pure che in tutti questi anni ho sempre invitato a non votare, per un unico e semplice motivo: che l’Italia essendo stata deprivata della sovranità nazionale dopo il 1945, tutti i partiti e gli schieramenti politici del paese altro non sono che marionette tirate da fili in mani molto lontane da qui. Come spiegava benissimo Ernst Jünger nel suo magistrale Trattato del Ribelle, stante quella situazione era auspicabile “passare al bosco”: rimando al testo jüngeriano ( e mettendo da parte l’odiosa falsa modestia ricordo che sull’argomento ho molto scritto e molto parlato — invano — a suo tempo).
Poi è arrivato il Movimento Cinque Stelle, portando una ventata d’aria nuova sulla scena politica italiana.
Attenzione, ora, a non ripetere nei confronti del termine “nuovo” lo stesso fatale errore compiuto da molti in un altro campo, attribuendo del tutto erroneamente al termine “evoluzione” il significato di “progresso, miglioramento”: in realtà, sia il termine “nuovo” che il temine “evoluzione” implicano un solo e ben preciso concetto — cambiamento. Laddove  “cambiare” significa rendere una cosa diversa da quel che era prima, conferendole caratteri finora sconosciuti — nuovi, appunto.
E che il greco antico traduca con neoterìzein, “fare cose nuove”, il nostro “fare la rivoluzione” non è un dato trascurabile.
Perché l’Italia unita non ha mai conosciuto una vera rivoluzione. Nel bene e nel male, quella del 28 ottobre 1922 non è stata una rivoluzione in senso proprio: la rivoluzione, ammoniva Mao, non è un pranzo di gala — se la si fa sul serio, è fatale mettere sossopra i salotti buoni , rompere qualche suppellettile e lasciare macchie di sangue in giro. Soprattutto, una rivoluzione seria deve eliminare la classe dirigente preesistente, cioè metterla in condizione di non avere più accesso alle leve del potere, per sostituirvi persone nuove ovvero diverse (il che, fra l’altro, evita o limita esponenzialmente il rischio di guerre civili). L’Italia questo non l’ha fatto. Nata dalle guerre risorgimentali — che notoriamente non miravano ad alcun “bene comune” —, è cresciuta fra sommosse popolari, sanguinose repressioni, guerre mondiali e civili, fino a strutturarsi nella repubblica parlamentare come la conosciamo noi, rovinosamente declinata dopo che il miracoloso boom economico degli anni Sessanta ebbe finito di erodere le fondamenta gettate nei decenni precedenti, col sudore e col sangue, dai nostri nonni e bisnonni.
Ma torniamo alla rivoluzione e alla classe dirigente: perché la crisi del 2008, dalla quale discendono tutti i nostri  mali presenti, ha subdolamente rinfocolato  una brace che si credeva sopita ma che invece ardeva ancora — la lotta di classe, mutata nella forma ma non nella sostanza.
Lo dico convintamente, sulla scorta delle molte conversazioni avute con tante persone nel corso degli ultimi mesi. A sostenere tutti i vecchi partiti — le cui magagne sono state più o meno abilmente camuffate grazie a un sofisticatorestyling — sono immancabilmente tutte quelle persone che hanno ancora qualcosa da perdere e a cui non sono disposte a rinunciare: che si tratti di una pensione decorosa, di un posto (miracolosamente e non si sa per quanto ancora) fisso, di una solidità professionale o accademica, tutti coloro che godono di questi privilegi — davvero incommensurabili , coi tempi che corrono — restano tenacemente attaccati a quella famosa “via vecchia” abbandonando la quale l’incauto “sa quel che lascia ma non sa quel che trova”.
Al contrario, chi non ha più niente da perdere — perché è rimasto senza lavoro, o ha una pensione da fame, o è strangolato da mutui e tasse —guarda con favore alla “via nuova”, consapevole che niente e nessuno potranno peggiorargli la situazione o rendergli la vita più invivibile di quanto già non sia (la media è di un suicidio al giorno, ma sui giornali non lo leggerete).
Così, si scava lentamente ma inesorabilmente un abisso fra chi ostinatamente difende lo status quo per non perdere quel poco (spesso quel pochissimo) che ancora ha e che lo separa orgogliosamente dai nuovi poveri, e chi altrettanto ostinatamente spera e desidera e vuole e si batte perché qualcosa finalmente cambi — ma cambi sul serio e richiuda una volta per tutte la fogna a cielo aperto che è da almeno trent’anni la politica italiana.
Si tratta di un abisso incolmabile, e non lo dico per usare un tòpos retorico: è incolmabile davvero, perché sul suo ciglio, da una parte e dall’altra, stanno due diverse visioni del mondo — con tutti i corollari del caso.
In questo senso Grillo aveva ragione quando diceva che senza il M5S ci sarebbe stata violenza per le strade: perché il nuovo soggetto politico sorto dal (quasi) nulla è riuscito, incanalandolo, a catalizzare il diffuso malcontento popolare in una forma di protesta trasversale e organizzata che è riuscita a entrare nei palazzi del potere per esprimersi conformemente alle leggi vigenti, per dare voce democraticamente agli innumerevoli singoli che, da soli, non avrebbero mai potuto farsi ascoltare. Non è un risultato da poco.
È anche per questo che io, stavolta, andrò a votare. E voterò M5S: per ricostruire bisogna prima abbattere, e sono stanca delle tante ristrutturazioni di facciata che, di fatto, hanno lasciato quei palazzi drammaticamente immutati. Cambiare non è più un’opzione, è un imperativo. Cominciamo a sparigliare le carte — poi, si vedrà.

Napolitano, il capo della banda



Ugo M. Tassinari, “Napolitano il capo della banda”, Edizioni Sì, Cesena.
Recensione a cura di: DAVIDE GONZAGA

“(...) vi è solo biografia. Ogni uomo deve riconoscere l'intero suo compito”.
F. Nietzsche, “Frammenti postumi”.

Il peggiore.
Così doveva intitolarsi l'agile, puntuta e irriverente biografia di Giorgio Napolitano del vulcanico Ugo M. Tassinari.
Per evitare sovrapposizioni, però, con il “peggiore” di recente conio travagliesco per Massimo D'Alema l'editore ha deciso di optare per il comunque efficace “Capo della banda”.
A pagina quattro del libro, pubblicato dalle Edizioni Sì di Cesena, Tassinari scrive:”Se la classe politica italiana è in effetti corrotta e imbelle, Giorgio Napolitano ne è l'esponente più autorevole e rappresentativo”.
Parole forti che aprono squarci interpretativi che si snodano nelle pagine di questa biografia dal forte sapore giornalistico, ma con giudizi che, a mio avviso, non stenteranno a entrare, confermate, nei “veri” libri di storia.
Il libro consta di un centinaio di pagine con un ritmo serrato e cinematografiamente molto dinamico.
Si apre con un ricordo personale dell'autore.
Settembre 1973. Il giovane compagno Tassinari baldanzoso e pieno di belle speranze parte da Napoli per andare alla Festa Nazionale dell'Unità di Milano. Tra peripezie di ogni genere, complice una micro epidemia di colera, il futuro blogger trascorre addirittura alcuni notti in Stazione Centrale prima di riprendere la strada di casa. Dall'altra parte del mondo, intanto, per la precisione in Cile gli aerei di Pinochet bombardano il palazzo della Moncada per destituire Allende.
Dopo qualche giorno alla Chiaia Posillipo, la sezione del Pci più chic di Napoli, arriva Giorgio Napolitano.
Il responsabile culturale del Partito arriva per dettare la linea ufficiale del Partito.
Il gelido, affilato, raffinato ragionare del futuro Presidente. In quella circostanza, chiosa l'autore, Napolitano:”(...) infrange le mie velleità politiche e mi consegna a una lunga pratica ribellistica”.
Napolitano, oggi, ci racconta Tassinari, è lo stesso di quarant'anni fa: l'idea di un potere immobile che trasforma la mummia di sè nel corpo del potere.
Tassinari nei capitoli che seguono ripercorre la vicenda biografica di Napolitano confutando dicerie (la parentela con l'ultimo Re d'Italia), introducendo dubbi (la presunta affiliazione con le logge massoniche) e inserendo la figura del Presidente della Repubblica nel contesto del Nuovo Ordine Mondiale.
Scorrono in queste pagine le figure dei Presidenti che lo hanno preceduto, vengono analizzati i meccanismi elettivi, le diverse circostanze politiche interne e internazionali, come pure le pressioni di lobby e apparati di potere più o meno torbidi.
Ciò che emerge è un quadro complesso che il lettore può cogliere e imprimere nella sua memoria.
Ad accompagnarne le analisi di Tassinari alcuni compagni di viaggio di formazione e collocazione eterogenea: nel capitolo intitolato “Il riformista” troviamo il direttore de Gli Altri Piero Sansonetti; lo studioso Pasquale Chessa compare nei capitoli “Il comunista” e nel capitolo “Monti”; fino allo scomparso Ministro Padoa Schioppa che fa capolino nel capitolo “Prodi”.
Questi sono solo alcuni dei contributi che l'autore ha saputo con acume utilizzare per strutturare l'impalcatura del testo. Va detto che nell'insieme l'estrema eterogeneità non sempre convince, perchè necessariamente ciascuno è portatore di un disegno di mondo che seppur non cozza nella contingenza del ragionamento di fronte a un approfondimento non tarderebbe a risultare contradditorio.
Il giudizio generale del libro è, però, ampiamente positivo in particolare riguardo a tre macroquestioni.
La prima la si ritrova nel capitolo “L'America”.
Tassinari, utilizzando le tesi del professor La Grassa e del blogger Gianni Petrosillo, ricostruisce quello che è stato il “cambio di campo” del Pci degli anni '70 che si sposta sull'Asse Atlantico molto prima, dunque, del crollo del Muro di Berlino e dell'implosione dell' Urss.
Napolitano, leader della corrente migliorista del Pci, nel 1978 vola negli Stati Uniti per una serie di conferenze proprio mentre Moro si trova nel “Tribunale del Popolo” delle Br. Queste conferenze preparate con cura, nella convinzione di molti, sanciscono una vera e propria alleanza tra la sinsitra ormai post comunista e i poteri forti americani fino alla “finta rivoluzione” di Mani Pulite e non solo.
Rimane, a mio avviso, un po' troppo sullo sfondo la figura di Enrico Berlinguer.
Faccio fatica a pensare che il segretario del Pci non avesse un ruolo più decisivo in questo passaggio.
La seconda questione in continuità con la precedente si trova nel capitolo “Monti”.
In questo passaggio forte rimane l'impressione che l'operato, ai limiti del dettato costituzionale, del Presidente della Repubblica risenta del passaggio internazionale della sinistra istituzionale, ormai supina ai voleri e ai desiderata della Ue in prima battuta, ma soprattutto dell'alleato americano tanto da lasciar ipotizzare in molti l'idea che il passaggio dal governo Berlusconi al tecnico Monti rientri nella casistica di un vero e proprio golpe bianco.
Forte dell'opinione dello studioso Chomsky ma in particolare dell'inviato del Sole 24 Ore Augusto Grandi, il nostro ricostruisce con sapienza quei giorni convulsi e le conseguenze che quel Governo ha prodotto nel paese.
La terza questione la si può ritrovare nel capitolo “Antimafia”.
In poche e densissime pagine Tassinari ricostruisce quella che giornalisticamente è passata sotto il nome di “trattativa” tra pezzi dello Stato e la mafia per chiudere la stagione delle stragi di mafia attraverso l'attenuazione dell'articolo 41 bis.
In un susseguirsi di colpi di scena che vedono a un certo punto coinvolto il consigliere giuridico del Presidente Napolitano e suo amico personale D'Ambrosio veniamo introdotti in una selva di imbarazzi, ritrosie e silenzi di personalità di rilievo come l'ex Presidente del Senato ed ex Vicepresidente del Csm Nicola Mancino e l'attuale Presidente del Senato Pietro Grasso.
Il colpo di scena, però, arriva quando si arriva a coinvolgere direttamente Napolitano che viene convocato dal Tribunale di Palermo per spiegare perchè D'Ambrosio poco prima di morire di crepacuore aveva scritto una lettera nella quale si sentiva come: “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Il momento è delicato: tra intercettazioni secretate, battaglie giornalistiche e richieste di chiarimenti politici si arriva alla decisione del Quirinale di sollevare il conflitto di attribuzione ordinando la distruzione delle bobine registrate.
Tassinari conclude, non senza amarezza, che la decisione di estendere alcune guarentigie presidenziali per evitare la deposizione in tribunale va intesa come qualcosa che va ben al di là di quanto previsto dalla Costituzione.
Riemerge, dunque, ancora in questo passaggio quanto raccontato all'inizio da Tassinari a proposito di Napolitano freddo ancorchè lucido dirigente di partito dei lontani anni '70.
Oggi come ieri.








mercoledì 21 maggio 2014

ANDREA A. IANNIELLO: Baudrillard, la "sinistra divina" e il mito



In relazione all’articolo di A. de Benoist, dove quest’ultimo scrive una recensione sull’ultimo libro di Michéa1, ricordo che Michéa ha citato un vecchio libro: J. Baudrillard, La sinistra divina, Feltrinelli, Milano 1986, edizione orig. Francia 1985. Ma è incredibile come rimanga viva ancor oggi la carica polemica di tale agile pamphlet, arte nella quale i francesi eccellono, e Baudrillard in particolare era un maestro2. Quel che, a me, “personalmente”, mi lascia esterrefatto è che son passati (all’anno prossimo) ormai trent’anni, dico trenta lunghi anni, e pare “come se” questo libro non fosse mai stato scritto. Questi lunghi trent’anni caratterizzati dall’“indignazione a giorni alterni”, come qualcuno ha efficacemente scritto, ma sempre per ragioni polemiche ed immediate, come quasi tutto oggi: e sulle polemiche a me interessa non zero, ma sottozero d’entrarci. Dopo che hai vinto in una polemica, cos’è cambiato? Se non è cambiato nulla, se la situazione rimane statica, la polemica è stata inutile. Questo libro è molto utile anche per i tanti “protestatori” dell’ultima ora che, scusatemi, a me ricordano, tantissimo, la “rivolta senza scopo” di cui parlò, in illo tempore, lo stesso Evola.
Ed allora esaminiamo, in breve, questo pamphlet. Vi è una “vis polemica” in senso buono, non le “incazzature” à l’italienne, veri “attacchi d’orso” ciechi e distruttivi, ma la precisa enucleazione, con linguaggio rapido ma sapido, dei punti deboli della sinistra che si pretende “divina” ed entrata nel “Gotha” del “sistema”: e già allora, quasi trent’anni fa! Ma ci rendiamo conto! E poi c’è il passo, detto en passant, che spiega l’“arcano” della vicenda, il perenne fallimento della “sinistra” che, come Poulidor, sta sempre lì lì per vincere, e poi, sotto al traguardo, perde sempre. La sinistra, sostiene Baudrillard, vuole liberarsi nei termini dei valori della borghesia, e dunque inevitabilmente fallisce, per una sua ragione intrinseca. La borghesia sì, al contrario, continua Baudrillard, instaura una cesura sul piano dei valori, quando ha sostituito i valori della casta e della nascita con quelli dello sviluppo e della produzione. Ed allora perché la sinistra ha oggettivamente avuto una sua fase di successo, seguita dal nulla in cui versa da più d’un decennio? Perché la sinistra opponeva al mito dello sviluppo – sì, quello cui oggi tutti rendon omaggio, pur essendo febbraio, lo sviluppo che tutti vogliono “rimettere in moto” ma che il “sistema” stesso ha annullato, ed oggi non è altro se non un simulacro di sviluppo -, la sinistra opponeva, si diceva, al mito dello sviluppo senza fine il mito della fine: ed era la “rivoluzione”, fatto mitico, non storico.
Qui Baudrillard centrò, senza rendersene conto davvero, e portato soltanto dalla sua notevole, ma sapida ed intelligente, “vis polemica”, il nocciolo della situazione, l’essenza del problema. Senza un “mito” non si va da nessuna parte! A ben poco portano le “incazzature”, in nulla si risolvono le critiche della situazione attuale se basate solo su fattori politici ed economici3. No, senza un mito fondante non si va da nessuna parte. E noi viviamo di ed in tali “miti fondanti”, taluni molto aggressivi e per nulla miti. Quello della razionalità tecnico-scientifica, che domina il mondo, è anch’esso un mito. Attenzione: non sto proponendo di abbandonare la razionalità, ma equiparare ogni forma di razionalità a quella tecno-scientifica dominante è un mito, una narrazione fondante. Non è una verità storica. Ma la storia, da sola, non spiega se stessa. La storia implica e necessita di una meta-storia che dia senso ad essa. Né voglio pensare che il mito possa essere la realtà tout court, infatti Jünger sottolineava che il mitico può essere solo come una eruzione temporanea nella struttura del reticolo storico e, per di più, nella forma del “puer aeternus”, piuttosto che in quella dei “padri fondatori”. Accetto, concordo e sottoscrivo: solo una espressione temporanea del mitico e in quelle forme da lui dette (il “puer aeternus”, cioè) può impedire di ricadere nelle aberrazioni del “ritorno pieno e completo al mitico” che il nazionalsocialismo, più di altri, tentò, fallendo4. E tuttavia questa giusta osservazione di Jünger ed il fatto che un ritorno pieno al mitico sarebbe oggi senza dubbio regressivo, non toglie il fatto che noi abbiam bisogno della dimensione mitica per poter operare una opposizione con un senso. Dunque ristretta tale dimensione, indirizzata verso solo certi suoi aspetti, però assolutamente necessaria. Il nostro tempo, schiavizzato dal mito della razionalità tecno-scientifica, è al tempo stesso il tempo delle fughe nell’irrazionale più becero: fra i due fenomeni vi è correlazione diretta. Non è assolutamente un caso che le due cose coesistano.
Oggi sia il mito della “rivoluzione” sia quello della “razza” sono sviliti, chimerico richiamarcisi, nonostante le poche forze che resistono alla “Grande Mutazione” sistemica in atto si richiamino a tali ferrivecchi. Ma di un mito abbiam bisogno. Quale? Taluno ha proposto l’“euroasismo” à la Dugin, che ricordo leggevo una ventina d’anni fa: lo trovo ancora troppo moderno. Non si esce con forme moderna dalla “fine del mondo moderno”5, così come la febbre a trentanove non è una cura della febbre a quaranta ma solo una sua forma più blanda. Solo un mito che tragga le sue origini da qualcosa di non moderno ha oggi una possibilità di realmente incidere sulla e nella situazione. Per “realmente incidere” non intendo strillare o esprimersi o parlare: questo ne abbiamo a iosa, ma nulla cambia nella sostanza. E davvero questa emulsione di parole impotenti è silenzio: non porta che al nulla in cui già viviamo e siamo.
A la recherche du mythe perdu.


1Sul blog idee/inoltre: http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/alain-de-benoist-michea-basta-con-la.html. 
 
2Ricordo, sempre di Baudrillard, Dimenticare Foucault e All’ombra delle maggioranze silenziose. 
 
3Peraltro direi che sono venti o trent’anni di “critiche” che in nulla hanno scalfito il consenso verso un sistema che, come il Saturno del mito (mo’ ce vo’), ormai divora i suoi sottoposti (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Saturno_che_divora_i_suoi_figli). 
 
4Su ciò cfr. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/02/roberto-franco-giorgio-galli-e-il.html. Si tratta di quel genere di cose che i nostri cari amici della “destra rattrappita”, degni compari della “sinistra auto-divinizzatasi” ed entrata nel “Gotha” delle anti-élite al governo del mondo, trovano così difficile ed indigesto da ammettere, forse perché mette in questione certe loro convinzioni. Ma mettere in questione delle convinzioni che, alla prova dei fatti, hanno fallito è la cosa più sana del mondo. Purtroppo viviamo il tempo delle parole che, quali nere arpie svolazzanti, strombazzano ed attraversano il mondo come delle armi e cioè senza quasi più nessun legame con il significato delle parole stesse. E dunque i simulacri della “destra storica” oggi sono usati per sostenere l’esatto contrario di ciò che quelle parole dovrebbero significare e chi, come Haider, ha tentato una qualche attualizzazione di certe tematiche fuori dalle solite retoriche è stato fatto fuori, per lo meno politicamente (qualcuno anche fisicamente, si dice). Ci si è scordati che le parole devono il loro valore al loro senso. Non devono il loro valore all’essere usate strumentalmente, ma noi viviamo in un mondo di simulacri e del “falso radicale”. 
 
5Cfr. http://ideeinoltre.blogspot.it/2014/01/andrea-ianniello-la-fine-del-mondo.html. 

fonte: http://associazione-federicoii.blogspot.it/2014/03/la-sinistra-divina-baudrillard-ed-il.html

martedì 20 maggio 2014

ALAIN DE BENOIST: Ribelliamoci alla dittatura del sistema denaro!



INTERVISTA A CURA DI: DAVIDE GONZAGA

E' uscito da poco per Arianna Editrice il volume di Alain De Benoist “La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli”.
Il libro, come argomenta Eduardo Zarelli nella puntuale e rigorosa prefazione, è l'aggiornamento e il completamento di “Sull'orlo del baratro. Il fallimento annunciato del sistema denaro”, pubblicato sempre da Arianna Editrice nel 2012.
Il pensatore francese in questo testo concentra la sua attenzione sul completo svuotamento operato in questi anni dei parlamenti nazionali ridotti, ormai, semplicemente a esecutori di ordini della Commissione Europea.
In questo senso vanno pure viste tutte le decisione prese circa il Meccanismo europeo di stabilità, il Trattato sulla stabilità fino alla futura istituzione di un grande mercato transatlantico che di fatto ridurrà l'Europa a vassallo delle decisioni e degli interessi di Washington.

Cominciamo dal titolo del libro. Se un paio di anni fa, professore, Lei sosteneva che eravamo “Sull’orlo del baratro” adesso con “La fine della sovranità” abbiamo oltrepassato quel limite, e dunque lo stato-nazione, con i suoi punti di riferimento stabili, non esiste più?
Viviamo ormai irreversibilmente in un mondo post-moderno?

R- Se consideriamo che lo Stato-nazione è stata la forma politica più tipica dell’epoca moderna, allora si può dire che siamo effettivamente entrati nell’era post-moderna. Lo Stato-nazione era già in crisi negli anni ’30, come aveva sottolineato Carl Schmitt. Nel corso degli ultimi decenni è stato progressivamente privato della sovranità in tutti gli ambiti: la sovranità politica, a causa della sua dipendenza dai mercati finanziari; la sovranità economica, per l’influenza delle multinazionali; la sovranità militare, per la presenza della NATO; la sovranità monetaria, a causa dell’introduzione dell’Euro; la sovranità in termini di budget, per rispondere alle esigenze del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). Ciò non sarebbe del tutto grave se la sovranità tolta agli Stati fosse stata trasferita e affermata con maggiore forza a livello sovranazionale. Ma così non è stato: la sovranità è sparita in una sorta di “buco nero”. Ne risulta che le sovranità nazionali non sono altro che un ricordo, mentre la sovranità europea è più che mai introvabile. La sola vera sovranità che esiste oggi è quella del sistema del denaro.

Nel primo capitolo, professore, Lei affronta il tema della mondializzazione.
Ci può spiegare che cosa intende con questo termine e perché è cosi importante tenerne conto per capire oggi le dinamiche del capitalismo e il ruolo che gli Stati hanno in questi anni assunto in relazione a essa?

R-Di solito, distinguiamo la globalizzazione (o mondializzazione) culturale, la globalizzazione tecnologica, quella finanziaria, sociale, ecc. In realtà, tutte queste forme di globalizzazione derivano dalla globalizzazione economica e finanziaria, per la semplice ragione che l’elemento economico è necessariamente l’elemento dominante di una società di mercato, e che, per i liberali, solo l’economia intesa come libero confronto degli interessi di ciascuno è atta a regolare i rapporti tra gli individui. La globalizzazione, dunque, deve essere compresa prima di tutto come una tendenza all’interdipendenza globale e all’interconnessione generalizzata, in primo luogo per quanto riguarda i mercati. La globalizzazione tende a integrare i mercati locali in un grande mercato planetario sopprimendo le misure di protezione di cui godevano in precedenza e sottoponendoli alla concorrenza internazionale. La globalizzazione, in altri termini, non è altro che il processo storico-geografico di progressiva espansione del capitalismo su scala mondiale, l’espansione planetaria del principio del libero mercato.



In questi anni uno dei temi forti che ha messo in ginocchio le economie di alcuni Stati dell’Ue è stato certamente il debito pubblico. Come è stato possibile, a suo avviso, che questi Paesi siano stati costretti ad adottare politiche di rigore con tagli profondi alla sanità, all'istruzione, ai servizi sociali, ai trasporti e, nonostante questo, la voragine del debito pubblico non solo non tende a diminuire ma addirittura aumenta?
Al riguardo ci sono precise responsabilità? E si possono evidenziare delle cause precise per tutto ciò?

R- La politica del debito pubblico è una politica di tipo usuraio, la cui causa prima è l’indipendenza che è stata accordata alle Banche Centrali. A partire dal 1973, allo scopo di combattere l’inflazione, gli Stati hanno impedito a se stessi di chiedere prestiti alle proprie banche centrali (Banque de France, Banca d’Italia, ecc.), che fino a quel momento prestavano denaro agli Stati a tassi molto bassi o nulli. Per finanziare i loro deficit, gli Stati si sono quindi posti alla dipendenza degli istituti bancari e dei mercati finanziari, che concedono prestiti a tassi molto più elevati (mentre tali istituti bancari possono, loro sì, rifornirsi dalle banche centrali a un tasso molto basso). L’indipendenza della Banca Centrale Europea (BCE) ha poi coronato il tutto.
Ben inteso, le banche richiedono un tasso di interesse tanto più elevato rispetto a quanto loro stesse ritengano le economie nazionali più o meno in cattivo stato. Per ottenere tassi di interessi più bassi, gli Stati si sottomettono dunque ai requisiti delle organizzazioni internazionali che, conformemente alla dottrina liberale, pensano che il risanamento delle finanze pubbliche passi per delle “cure di austerità”. In realtà, ciò che si osserva è il risultato contrario. Le politiche di austerità provocano un abbassamento del potere d’acquisto, quindi della domanda, quindi dei consumi, quindi della produzione, e di conseguenza un aumento della disoccupazione, della deindustrializzazione e del numero di delocalizzazioni. In fin dei conti, le entrate fiscali diminuiscono invece di aumentare. Per assolvere i loro debiti, gli Stati devono allora continuare a chiedere prestiti al settore privato, anche solo per finanziare gli interessi su tali debiti. Questi nuovi prestiti appesantiscono di nuovo il debito pubblico, facendone aumentare ancora gli interessi. La Francia, per esempio, deve chiedere in prestito ogni anno 50 miliardi di euro al solo fine di rimborsare gli interessi del suo debito pubblico (è la voce di budget più consistente dopo l’educazione pubblica). Si entra così in un ciclo senza fine.

L'esplosione della bolla finanziaria, provocata dalla crisi dei subprime, ha avuto conseguenze così gravi per l'economia reale da indurre i governi della zona Euro a firmare il trattato di istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (MES) e il TSCG che obbliga gli Stati a conseguire una serie di rapporti molto rigidi tra PIL e debito pubblico. Al di là degli aspetti tecnici di tali provvedimenti qual è la "ratio" che caratterizza queste decisioni, che vengono presentate dalle autorità dell'Ue come necessarie?

R-Le disposizioni del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mirano a imporre a tutti gli Stati le stesse regole in materia di indebitamento e di deficit pubblico, regole che sono praticamente inapplicabili perché, nella maggior parte dei paesi europei, la loro applicazione sfocerebbe in un rafforzamento delle politiche di austerità che sarebbe politicamente e socialmente insostenibile.

In questi anni, dalla Grecia all'Italia si sono avvicendati governi tecnici che hanno fatto dell’austerità il presupposto imprescindibile di ogni decisione. Di fatto però questa politica economica ha creato povertà e disoccupazione (specie giovanile), ha costretto alla chiusura centinaia di migliaia di imprese (con numeri che si registrano di solito dopo una guerra) ha comportato tagli, ha imposto riforme del mercato del lavoro cancellando diritti conquistati dopo anni di durissime lotte sociali. Tutto questo in nome del dogma liberista secondo cui i mercati, in quanto sarebbero "intrinsecamente" efficienti, riporteranno in positivo, prima o poi, la crescita dell'economia dei Paesi che attualmente attraversano una grave crisi economica e sociale. Nel frattempo, però cresce il malcontento verso l'Euro visto come il nemico da abbattere. A Suo avviso l'uscita dall'Euro sarebbe la soluzione per uscire da tale crisi?

R-Sono abbastanza combattuto su questo punto. L’istituzione di una moneta unica non era in sé una cattiva idea, tanto che si poteva sperare che l’Euro si imponesse progressivamente come moneta di riserva internazionale rispetto al dollaro. Il problema è che la Germania ha preteso (e ottenuto) che il valore dell’Euro fosse fissato allo stesso livello del vecchio Marco tedesco, rendendo così l’Euro fin da subito inutilizzabile per i paesi il cui livello economico era nettamente inferiore a quello della Germania. Ora, una moneta unica non può semplicemente essere utilizzata come moneta nazionale da paesi con livelli economici totalmente diversi. Anche in rapporto al Dollaro, si vede oggi come l’Euro sia sopravvalutato. In queste condizioni, l’istituzione dell’Euro non poteva che aggravare gli effetti della crisi finanziaria del 2008 e della crescita vertiginosa dell’indebitamento pubblico che tale crisi ha provocato. Nonostante ciò, bisogna comunque ricordare come i paesi europei che non hanno adottato l’Euro, come la Gran Bretagna, non si trovino oggi in una situazione migliore (per non parlare degli Stati Uniti, il cui debito e i deficit commerciali hanno aggiunto un livello fenomenale, quando la Federal Reserve americana dispone, in materia di produzione di moneta, di mezzi che la BCE non ha).
Un ritorno alle valute nazionali, accompagnato a una svalutazione di queste monete, potrebbe aiutare a uscire dall’impasse. Ma potrebbe anche provocare una brusca inflazione, di entità difficile da misurare. Con il debito pubblico ancora formulato in Euro, questo verrebbe di nuovo appesantito. Un paese che uscisse unilateralmente dall’Euro si ritroverebbe inoltre piuttosto isolato. La situazione sarebbe diversa se più paesi decidessero di uscire contemporaneamente dall’Euro, ma nell’immediato non si capisce bene quali paesi siano decisi a farlo. Un’altra soluzione sarebbe una svalutazione dell’Euro, ma la BCE non ne vuole sapere. Infine, va da sé che l’abbandono dell’Euro non cambierebbe nulla della natura profonda del sistema capitalista. In ogni caso, se la moneta unica dovesse sparire, ritengo che l’Euro sarebbe da mantenere come moneta comune per gli scambi finanziari con i paesi non europei.

Ruolo subalterno dei parlamenti nazionali nonché del parlamento europeo rispetto alla Commissione Europea e alle lobby della finanza. Depressione economica. Disoccupazione di massa in special modo giovanile.
A fronte di tutto questo da un lato pare manifestarsi una rabbia sorda e si ha l'impressione che prevalga una sorta di rassegnazione cupa. Forse perché manca quel senso di fiducia nel legame comunitario che la società di mercato e l'individualismo imperante hanno contribuito a indebolire se non a spezzare del tutto. Dall'altro, però, crescono partiti e nascono movimenti politici che la stampa ha immediatamente bollato come “populisti”. In Francia il FN di Marine Le Pen, in Inghilterra lo Ukip di Nigel Farage, in Italia il M5S di Beppe Grillo e la stessa Lega di Matteo Salvini.
Che cosa pensa di questi fenomeni?

R-La comparsa e il successo dei movimenti «populisti» in Europa è la conseguenza diretta di una crisi generale della democrazia rappresentativa, le cui cause sono da cercare nella cancellazione della divisione destra-sinistra e nell’ascesa di una “Nuova Classe” politica dalla quale il popolo è tagliato fuori. Nel corso degli ultimi decenni, la gente ha visto succedersi governi “di destra” e “di sinistra” che praticavano la stessa politica e non riuscivano, né gli uni né gli altri, a risolvere i problemi concreti. In parallelo, la globalizzazione ha accelerato i processi di immigrazione, disoccupazione, le delocalizzazioni, innescando così una catena di “terrori morali”. Avendo constatato che i grandi partiti classici non li rappresentano più, che l’alternanza ha sostituito l’alternativa, il popolo si è allontanato dalla “Nuova Classe”. Alcuni hanno trovato rifugio nell’astensionismo, altri si sono rivolti ai movimenti “populisti”, visti come “l’ultima chance”.
Ma bisogna anche sottolineare che, dal punto di vista della scienza politica, il “populismo” è diventato anche una categoria “minestrone” che comprende un po’ tutto, e allo stesso tempo oggetto di repulsione. In realtà, il populismo non è un’ideologia, bensì uno stile. Tale stile si può associare agli orientamenti ideologici più vari. Se si guardano da vicino i diversi movimenti che Lei cita, si vede comunque che, al di là di quanto possano avere in comune, emergono anche profonde differenze. Il Fronte Nazionale in France, per esempio, ha un programma economico e sociale nettamente “orientato a sinistra”, mentre la maggior parte degli altri partiti populisti sono decisamente dalla parte dell’economia capitalista liberale. Allo stesso modo, il FN è accanitamente giacobino e antiregionalista, mentre la Lega Nord e il Vlaams Belang in Belgio hanno opinioni totalmente opposte. E si potrebbero fare molti altri esempi.

In un capitolo molto denso e fondamentale del suo testo Lei ricostruisce, in modo assai efficace, sia sotto l'aspetto storico sia sotto quello economico, le tappe di un processo che dovrebbe portare alla nascita del Mercato Mondiale Transatlantico.
Ci può spiegare perché è così importante e perché è così pericoloso?

R-Il 14 giugno 2013, i Governi degli stati membri dell’UE hanno conferito ufficialmente alla Commissione Europea il mandato per negoziare con il governo americano la creazione di un grande mercato comune transatlantico, con il nome di Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Trasantlantic Trade and Investment Partnership, TTIP). Da allora, il negoziato prosegue senza che il grande pubblico ne sia informato. L’obiettivo è di creare, procedendo a una deregulation generalizzata, una gigantesca zona di libero scambio corrispondente a un mercato di più di 800 milioni di consumatori, alla metà del PIL mondiale e al 40% degli scambi globali. Per gli europei, che si ritroverebbero così definitivamente legati agli USA, questa è un minaccia da temere per almeno due motivi.
Il primo è che il TTIP si dà come obiettivo non solo di eliminare i diritti doganali (cancellando così qualsiasi speranza di istituire un protezionismo europeo), ma anche di abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie” (BNT), cioè l’insieme delle norme destinate a rappresentare delle “barriere” al libero commercio. Più precisamente: le norme costituzionali, legali e regolamentari che, in ciascun paese, potrebbero limitare la libertà commerciale intesa come libertà fondamentale. L’accordo prevede che, in tutti gli ambiti, la regola sarà quella di allinearsi al “livello più alto di liberalizzazione esistente”, che significa che la “convergenza” avverrà con l’allineamento delle norme europee alle norme sociali, salariali, ambientali, sanitarie in vigore negli USA. In ambito agricolo, ciò dovrebbe portare all’arrivo massiccio sui mercati europei dei prodotti a basso costo del business agroalimentare americano: manzo agli ormoni, volatili lavati nella clorina, OGM (Organismi Geneticamente Modificati), animali nutriti con farine animali, ecc. Tutte le norme sanitarie europee potrebbero così essere condannate come “barriere commerciali illegali”.
Seconda minaccia: la creazione di un meccanismo di “arbitrato delle controversie” tra Stati e investitori privati. Questo meccanismo, detto di “protezione degli investimenti”, deve permettere alle compagnie multinazionali e alle società private di portare davanti a un tribunale ad hoc gli Stati o le collettività territoriali in caso di modifiche alle legislazioni che siano ritenuto dannose per i propri interessi o che possano limitarne benefici, allo scopo di ottenere un risarcimento. La controversia sarebbe arbitrata in modo discrezionale da giudici o giuristi privati, al di fuori delle giurisdizioni pubbliche nazionali o regionali, e secondo il diritto americano. L’ammontare del risarcimento sarebbe potenzialmente illimitato (vale a dire che non ci sarebbe limite alle sanzioni che un tribunale potrebbe imporre a uno Stato a beneficio di una multinazionale) e la sentenza non sarebbe soggetta ad appello.

Per chiudere è ormai è un luogo comune affermare la superiorità dell'Economico rispetto al Politico. Tuttavia, il Politico non designa solo l'attività di governi, parlamenti o partiti ma anche e soprattutto la funzione politica e strategica in generale. Del resto, il fatto stesso che si parli di "supremazia" dell'Economico solleva la questione della funzione politica dell'Economico e quindi, oggi, del ruolo strategico dei grandi gruppi finanziari.
In Italia è stato un pensatore di formazione marxista (benché ciò possa apparire paradossale), ossia Gianfranco La Grassa, a elaborare un impianto teorico basato proprio sulla necessità di un superamento di una riduttiva e fuorviante visione economicistica, al fine di comprendere la decisiva funzione politica degli "strateghi del capitale" della potenza predominante.
Sull'importanza della funzione politico-strategica dell'Economico, come una specie di Politico a un tempo mistificato e mistificante, Lei è d'accordo?

R-L’ho già accennato sopra: la sola sovranità che esiste ancora oggi è quella del sistema finanziario, per dire a quale livello l’Economico ha superato il Politico. Ma Lei ha ragione nel sottolineare che l’economia ha anche una funzione strategica, le cui conseguenze sono inevitabilmente politiche. Gianfranco La Grassa è in effetti tra coloro che hanno seriamente studiato la questione, specialmente ne “Gli Strateghi del Capitale” (2006), “L’altra Strada. Per uscire dall’impasse teorica” (2013), ecc., ma non è il solo. Per l’Italia, si può ugualmente citare l’amico Costanzo Preve, filosofo neomarxista venuto recentemente a mancare. In Germania, l’opera di Robert Kurz sulla “critica del valore” (Wertkritik) merita di essere studiata ed esaminata. Questo aspetto “strategico” è tanto più importante che la Forma-Capitale, oggi più che mai di fronte al problema della “svalutazione del valore”, è sempre alla ricerca di modi nuovi che le consentano di andare più lontano nel processo di sovra-accumulazione del capitale finanziario, che è la sua ragion d’essere.


Si ringrazia la professoressa Beatrice Soriani per la preziosa opera di traduzione.

domenica 18 maggio 2014

DUCCIO BRACCALONI: Shock addizionali per Firenze!



INTERVISTA A CURA DI: ANTONELLO CRESTI

La politica italiana? Un condominio di piattole e di piattume, di conformismo osceno, di pavidità. Ovunque. I marziani sono pochi. Ecco perché per me è una grande soddisfazione quando persone che so non appartenere a tale vuoto pneumatico tentano di portare le loro idee nell’agone politico. Duccio Braccaloni si candida al consiglio comunale di Firenze con SEL, lista alla quale il sottoscritto non ha risparmiato critiche durissime. Poiché però credo nelle persone, lo dico chiaramente, spero che Duccio entri nel Palazzo fiorentino e riesca ad increspare almeno un pelo d’acqua. E che si possa anche collaborare. Io ci sono e ci sarò.

-La sinistra italiana, e il caso fiorentino è esemplare in questo senso, pur disponendo talvolta di forze non disprezzabili, finisce sempre per tralasciare quella che dovrebbe essere la sua vocazione essenziale, ovverosia, per dirla con Preve "la passione durevole per l'anticapitalismo". Si sono spesso perse in discussioni salottiere le formazioni a sinistra del PD, e non fa certo eccezione anche SEL, con cui sei candidato. Pensi che il laboratorio che state tentando di creare attorno alla candidatura di un giovane come Tommaso Grassi possa essere un segnale nel senso che auspico?

R-La nascita di SEL è stata salutata da molti nel 2009 come un momento di speranza, c'era la convinzione che si potesse davvero recuperare un drammatico vuoto politico, ripartendo con un percorso nuovo, capace di superare biografie personali e lacerazioni passate. Anch'io, dopo un passato tra centri sociali, militanza nei Verdi e associazionismo vario, vi ho aderito con entusiasmo, ma oggi è chiaro a tutti che bisogna ricominciare ancora. A Firenze, intorno alla candidatura di Tommaso Grassi, in pochi mesi è successo un “miracolo”: si sono abbandonati caminetti e salotti, si è capito che non si poteva rimanere schiacciati e muti, incapaci di rispondere alla logica delle larghe intese e al populismo imperante. Oggi possiamo presentarci alla città con una coalizione che unisce tutte le recenti esperienze della sinistra fiorentina, con contributi e sostegni di tanti delusi del PD, di amici radicali ed ecologisti, del mondo del volontariato religioso, dell'associazionismo dei diritti civili e del sindacalismo di base. E finalmente tanti giovani. Per me, che mi sono battuto in tante assemblee per questa soluzione, è stata una grande soddisfazione, che vale al di là del risultato che otterremo. La strada per me è sempre quella di un soggetto politico ecologista e libertario, alternativo al moderno capitalismo, capace di riaccendere conflitti e che non affoghi in fittizie distinzioni tra una destra e una sinistra che in Europa ormai si contrappongono solo apparentemente.

-La tua è una figura eccentrica rispetto a quella del classico militante e sovente è capitato di imbattersi in ambienti underground che poco hanno a che spartire con il mondo politically correct. Firenze è soffocata dal conformismo: Renzi aveva dichiarato di voler smuovere la città dall’immobilismo che la contraddistingue, qualcosa ha fatto, ma sempre in un’ottica promozionale, senza cambi di paradigma. Una idea shock per Firenze?

R-In effetti, fin dai tempi delle riviste underground Argilla e Amanita, abbiamo condiviso la passione per luoghi, fisici o della mente, “altrove”. Mi ricordo tanti “compagni” storcere il naso davanti a pagine che presentavano proposte musicali e artistiche eccentriche, riflessioni che spaziavano da Alex Langer a Pasolini, da Aleister Crowley a Dalì a Melissa P! L'invito era, ed è, ad essere liberi, consapevoli che la forma acquista importanza solo quando mancano i contenuti. Lo stesso vale per Firenze, dove un personaggio come Renzi ha fatto carriera, e si è auto-eletto “a nuovo che avanza”  con tecniche di marketing degne di una pubblicità della Coca Cola anni '50.  Per Firenze di idee “shock” possono essercene tante: coltivare la cannabis per uso terapeutico nell’Istituto chimico farmaceutico militare, regalare il vecchio Teatro Comunale agli artigiani e agli artisti fiorentini invece che trasformarlo in un resort di lusso, fermare definitivamente il tunnel sotterraneo dell'Alta Velocità. Ma sono poi idee “shock” o di buon senso e praticabili? 

-Una battaglia alla quale sei legato è quella per l’ecologia. A mio avviso anche la filosofia ecologista, che potrebbe dare risposte importantissime nell’epoca postmoderna in cui ci troviamo, è spesso vissuta come un orpello e non come una visione complessiva. Perché non immaginare che Firenze possa divenire davvero un modello di sostenibilità, oltre l’ambientalismo sciatto e di facciata, mettendosi magari alla guida del movimento delle Transition Towns italiane? 

R-In Italia, tranne rare occasioni, una coscienza ecologica non si è mai affermata e spesso l'ambientalismo è visto esclusivamente, nel migliore dei casi, come tutela del paesaggio o, ancora peggio, come semplice pulizia delle strade: quante volte, ai tempi dei Verdi, tanti cittadini chiamavano in sede scambiandoci per Quadrifoglio! Di fronte ad una crisi economica e sociale sempre più grave, davanti alla consapevolezza che ormai siamo al collasso ambientale, la scelta logica e efficiente non può essere che quella di una “transizione” delle realtà urbane verso un uso consapevole dell'energia, dal risparmio all'auto-produzione, verso pratiche di condivisione, come gli orti urbani o i condomini solidali, verso il riciclo e il restauro di ciò che non usiamo più. E visto che impazza un dibattito a colpi di slogan sull'Euro, voglio ricordare la scelta sana di monete locali spendibili in negozi e attività di quartiere.

-Da decenni Firenze culturalmente parlando è un deserto, o non accade nulla oppure si fanno inutili operazioni spot, onerose e poco lungimiranti. Penso tra le infinite cose che Firenze è stata fucina delle più grandi riviste del ventesimo secolo. Perché non immaginare un rilancio delle editoria cartacea che parta proprio da questa città? Non sarebbe un bel modo per conciliare tradizione, comunicazione e cultura?

R-Firenze in questi anni a livello culturale è stata mortificata ed episodi come l'affitto di Ponte Vecchio per gli amanti delle Ferrari o i concertoni di MTV sono l'esempio di come siamo caduti in basso. La nostra città cela ancora realtà artistiche validissime, ma sono costrette all'invisibilità senza le amicizie giuste. Così come si è assistito ad una vera e propria strage di librerie: Le Monnier, il Porcellino, la Martelli, la Edison, la piccola libreria del cinema in via Cavour, la libreria Parterre dello Stensen, vittime di una modernità fatta di centri commerciali e supporti elettronici. Di fronte ad una globalizzazione cattiva una risposta locale non può che essere il rilancio di produzioni di qualità. E questo vale certamente anche per l'editoria cartacea: chi ha detto che è destinata a scomparire? Anni fa si davano per morti i supporti fisici per la musica ed ora si assiste al ritorno dei cari e vecchi vinili e di negozi musicali specializzati! Tutto però è legato, se chiudono le librerie e si riduce lo spazio sugli scaffali, si riduce il mercato dei libri, e viceversa.

-Puntare sulla qualità gioverebbe anche al turismo che è indubbio volano della città toscana. Una idea shock anche in questo ambito?

R-Da troppo tempo Firenze punta tutto e quasi esclusivamente sul turismo. La proliferazione di camere e appartamenti in affitto, di paninerie e pizzerie take away, di strade che sembrano sempre più shops aeroportuali, ha svuotato il centro storico e aumentato le difficoltà per i servizi e per la qualità dell'ambiente. Una città sempre più usa e getta con prezzi insostenibili. In futuro dovremo invece puntare su una seria programmazione della mobilità e degli spazi delle città, decentrando  i luoghi d'interesse sul territorio, in un giusto rapporto con le esigenze dei residenti. E il futuro passerà anche dalla valorizzazione delle nostre ricchezze come l'Accademia delle Belle Arti, il Conservatorio, la Biblioteca Nazionale e l'Opificio delle Pietre Dure, senza dimenticare le Università, comprese quelle straniere. Quanti ragazze e ragazzi soggiornano a Firenze per lunghi periodi senza lasciarvi tracce tangibili? Sarebbe bello “invitarli” a rimanere e contribuire a un nuovo Rinascimento fiorentino! E certo è assurdo il totale disinteresse per l'arte contemporanea che potrebbe trovare casa in luoghi abbandonati come il Parco di San Salvi o l'ex Meccano Tessile... qualcuno ricorda la Venere Biomeccanica? 


mercoledì 14 maggio 2014

MATTEO GUARNACCIA: Ecco perchè parlo degli sciamani oggi



INTERVISTA A CURA DI: Andrea Zampieri

The Smiling Shaman. Così si intitolava ironicamente una vecchia raccolta antologica di disegni di Matteo Guarnaccia che acquistai molti anni prima di conoscerlo personalmente. Ebbi però presto la sensazione che oltre lo scherzo ci fosse del vero, data la forza evocativa che i suoi disegni e dipinti avevano sulla mia psiche in quel punto così particolare della mia vita in cui era giunto il momento di un cambiamento interiore non da poco. Un “Dietro-front!” sull’orlo del baratro. Da allora passarono gli anni ed ebbi poi modo di conoscerlo e frequentarlo saltuariamente. Ogni volta, davanti a quel suo sorriso pieno di buone vibrazioni, non ho potuto far altro che convincermi che quella mia sensazione iniziale fosse corretta. Così oggi mi trovo qui, nei pressi di uno dei più bei parchi cittadini che Milano possa offrire ai suoi abitanti, a parlare con lui proprio di sciamanesimo, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Sciamani: Istruzioni per l'uso edito da Shake ( www.shake.it ). Seduti ad un tavolo all’aperto, il cielo scuro e minaccioso tipico di questi strani giorni di maggio si apre e lascia passare un fascio di luce solare che ci avvolgerà per tutta la durata della chiacchierata. Il rombo dei motori impazziti, troppo vicini a quell’oasi di verde, non riesce a coprire la voce di Matteo.




Che cosa dovrebbe spingere un lettore ad approfondire il tema dello sciamanesimo oggi?

Chi mi conosce probabilmente sa cosa aspettarsi dal libro e qual è l’approccio, il modello narrativo che uso di solito nei miei saggi. Lo sciamanesimo rimane, per tutti gli altri, un tema di solito trattato in modo piuttosto rigoroso, spesso basandosi sul fatto che l’esperienza spirituale sia qualcosa di sconnesso rispetto alla vita quotidiana e reale. Lo sciamanesimo è comunque, inaspettatamente anche per me, tornato ad essere un tema centrale, probabilmente sull’onda della cosiddetta New Age e delle terapie di guarigione spirituale che da essa spesso derivano. Ma non solo. C’è una nutrita comunità di studiosi, sperimentatori e  scienziati che trova nello sciamanesimo un approccio ai concetti di “natura” e “psiche” molto moderno, e molto lontano dallo stereotipo che di solito presenta lo sciamano come un personaggio pittoresco ed esotico, più centrato sull’apparenza del proprio costume che sull’essenza delle esperienze che vive. In questo modo l’esperienza sciamanica potrebbe sembrare qualcosa di molto distante, che non ci appartiene, mentre è in verità parte integrante della nostra cultura e della nostra vita. In fondo, lo sciamanesimo nasce insieme all’uomo, e probabilmente prima di ogni religione. Di fatto è una modalità di approcciare la nostra psiche, che da sempre è nel nostro DNA.
L’esperienza sciamanica ci ricorda che l’uomo è parte integrante della natura, ma non deve assolutamente considerarsi al di sopra di essa, come invece accade da tempo con risultati catastrofici sullo stato di salute del pianeta. Per la terra siamo diventati una forma di vita decisamente ingombrante, e lo sciamanesimo può senz’altro aiutare a ricordarci qual è il nostro posto nel mondo.



Perché per uno sciamano è importante l’aspetto estetico del proprio costume, da te approfonditamente sviluppato nel libro attraverso una serie di tavole e disegni esplicativi?

Spesso dimentichiamo di avere un immaginario, e che esso si evolve e cresce nell’arco di millenni di storia del genere umano attraverso dei simboli, come Jung ha per altro ben spiegato nei suoi studi e trattati. Il costume sciamanico è una mappa simbolica che permette di comprendere alcuni passaggi dell’esistenza, spesso rappresentando come simboli animali e forze della natura.
Lo sciamano ha il compito di mostrare alla comunità i livelli di conoscenza ai quali è possibile arrivare, e lo fa attraverso delle esperienze di viaggio che sa padroneggiare. In questo senso parliamo del costume come di una “mappa”. Alle stesse esperienze l’uomo comune potrebbe arrivare per casualità, studio, incidente, ma per lui sarebbe difficile tornare indietro per elaborare, comprendere e comunicare l’esperienza ad altri. Il costume dello sciamano, come la musica, la poesia, e altri mezzi, racconta l’esperienza alla comunità. Dichiararsi “uomo”, o scientificamente Homo Sapiens, significa poter dire di conoscere il proprio posto nel mondo. Il costume dello sciamano è la mappa su cui è segnato questo posto.

Le esperienze sciamaniche vengono sempre associate alle zone dove tradizionalmente hanno in passato messo profonde radici. Pensiamo all’Oriente, alla Siberia e in generale al Sudamerica. L’occidente ha mai avuto una propria tradizione sciamanica?

L’ha certamente avuta ai tempi dell’antica cultura ellenica, fino all’avvento dell’antico impero romano.
Pensiamo ad esempio al culto dei misteri Eleusini, ed in generale a tutte le antiche pratiche orientate alla comprensione e al culto delle figure femminili. Lo sciamano, quasi sempre figura maschile, non fa altro che rendere manifesto quel mistero della creazione che è proprio della donna, che lo vive del tutto naturalmente senza troppo soppesarlo. La donna non ha bisogno di comprenderlo ed elaborarlo con l’intelletto, Semplicemente lo incarna, più o meno  coscientemente da sempre. La creatività nel senso più ampio è letteralmente “dare vita”.

Parlando di Creatività come fulcro dell’esperienza sciamanica, è quindi  corretto individuare in certi artisti occidentali del secolo scorso ed attuale una sorta di sciamano occidentale? Sto pensando a Jodorowsky, Allen Ginsberg,  ma anche a te e Claudio Rocchi…

Come dicevamo prima, lo sciamanesimo ci accompagna da sempre, ed è parte del nostro vissuto. Uno dei territori in cui i “segni” dello sciamanesimo permangono e sono maggiormente protetti e si fanno più nitidi è proprio l’arte, in ogni sua manifestazione.
Nella concezione originale dei sogni dei maledetti francesi dell’Ottocento l’arte dovrebbe corrispondere alla vita, l’arte è la vita stessa, anche se di fatto poi la civilizzazione occidentale ha operato una sorta di “specializzazione” delle esperienze emozionali. Se l’antico sciamano era di fatto medico, artista, poeta, psicologo, il mondo moderno non sa che farsene di una figura aperta a tutta una serie di esperienze differenti. Anzi, per chi detiene il potere, una figura completa e libera, capace di sopravvivere in assoluta solitudine, eppure con un proprio ruolo centrale nella comunità come lo sciamano, è piuttosto pericolosa e destabilizzante. Il potere ha bisogno di gente “asservita”. Nelle culture tribali, anche se ogni membro aveva proprie caratteristiche e ruoli, non fuggiva dalle esperienze in altri ambiti. Già in quel tempo, avevano compreso che ogni uomo è in realtà molte persone differenti, come ci ricorda Jodorowsky. L’arte è l’ambito in cui storicamente il potere ha concesso che certe energie venissero esplicitate. E se si tratta di vera arte, pur popolare che sia, essa smuove sempre le energie interiori dell’artista e di chi fruisce della sua opera o del suo gesto artistico. L’artista “fruga” dentro sé senza sapere a priori cosa potrà tirare fuori, e si tratterà sempre di qualcosa che è a priori “non spendibile”. Magari lo diventerà decenni o secoli dopo. L’arte è il territorio in cui tutto è già stato fatto, ma quando ancora non era il momento. E’ l’offrire un nuovo punto di vista sulla vita. E’ far cambiare aria alla società quando è pressoché asfissiata.
E’ in fondo quel che accadde con l’avvento del Rock’n’Roll di Elvis. Prendi ad esempio l’immagine di copertina del suo primo disco, in cui lui appare sul palco completamente sfatto, quasi posseduto. Quello è qualcosa che prima non si era mai visto.
L’artista col suo gesto lancia dei segnali, ed il fruitore, che ha un ruolo tutt’altro che passivo, si trova “agganciato” all’esperienza artistica che gli permette di aprire delle porte che erano già da sempre presenti in lui, e che lo fanno evolvere. Che si tratti di quadri, immagini, musiche o poesie, il fruitore diventa “complice” dell’opera artistica e dell’artista, e dall’opera viene preso e compreso. Questo fenomeno oggi va contro la logica dell’intrattenimento, che ci vorrebbe tutti passivamente assorti.
Come ti sarà forse capitato di constatare personalmente, in una libreria, a volte i libri costituiscono un vero e proprio “richiamo” incomprensibile all’analisi intellettuale, perché si tratta di autori e titoli sconosciuti, magari con copertine piuttosto brutte, eppure poi la loro lettura si rivela tanto importante da cambiarci un po’ la coscienza e la vita. Questo può essere un piccolo esempio di come l’arte e lo sciamanesimo siano strettamente legati.
Il tasto dolente dell’ambito artistico è che mentre l’esperienza sciamanica in origine era mirata alla crescita della comunità, la fruizione artistica agisce sul singolo, e solo in rari casi come esperienza collettiva. Penso ai rave parties e ai concerti rock, che sono dei surrogati moderni degli antichi rituali collettivi di iniziazione.
Penso soprattutto ai primi Rockers dell’epoca di Elvis e Jerry Lee Lewis, che officiavano dei veri e propri riti collettivi con i quali riuscirono a far esplodere beneficamente le energie compresse indotte nella gioventù di allora dall’esperienza delle guerre mondiali. Nel rito del Rock il corpo, la mente e il suono sono tutt’uno.

Hai mai avuto occasione di conoscere personalmente uno sciamano? Si trattava di persone dotate di particolari caratteristiche, oppure erano all’apparenza piuttosto inosservate?

Se parliamo di sciamani in termini “tradizionali”, ad esempio quelli siberiani o messicani, no.
Però ho incontrato persone come Albert Hoffmann in cui ho riconosciuto la saggezza e la sapienza tali da farmi riscoprire delle energie sottili che avevo già  in me ma non riconoscevo. Era una persona indubbiamente legata ai riconoscimenti raggiunti in ambito scientifico per la scoperta dell’LSD e non solo, ma era anche capace di una sensibilità e di una semplicità più uniche che rare. Era estremamente legato alla contemplazione della natura in ogni sua forma. Amava le farfalle e gli animali selvatici al punto da far crescere selvaggiamente l’erba e le piante del suo giardino affinchè gli animali potessero trovare un habitat a loro congeniale e si avvicinassero per farsi ammirare. Aveva compreso che la più alta forma di conoscenza è l’amore, e questo cercava di trasmettere anche a chi ancora lo assillava con le solite domande sull’LSD. Se l’umanità non riuscirà in breve a comprendere che siamo parte di un “tutto”, sarà destinata prima o poi a soccombere e sparire. Siamo invece destinati, nei piani originali, ad essere parte di un “matrimonio alchemico” con il creato. Poi, certo, ci spetta il compito non facile di evolverci aprendo tutti i possibili canali di comunicazione meno convenzionali per entrare in contatto e rispettare tutto il creato. Sono i bambini, leggeri e privi delle nostre sovrastrutture ed esperienze, a riuscire naturalmente in questo. Loro sanno, senza alcuno sforzo, dialogare con le piante, gli animali, gli oggetti, e gli amici immaginari. Chiunque è stato bambino, e dunque è già stato a tutti gli effetti uno sciamano, anche se non lo ricorda più.

Cosa bolle in pentola per lo Smiling Shaman oggi?


Il 12 giugno si inaugura a Milano presso la Galleria Colombo una mia mostra con disegni, quadri e oggetti. Poi sono al lavoro su un paio di libri, e sto curando i servizi dedicati all’arte della trasmissione Cool Tour, in onda su Rai 5.

martedì 13 maggio 2014

ANDREA VIRGA: Lo Stirner di Mackay



Come spesso avviene nel nostro Paese, spetta ad una piccola casa editrice – in questo caso la romana Bibliosofica – pubblicare, ossia rendere noto al pubblico italiano, un’opera forse di scarsa fama ma certo di grande importanza per qualsiasi studioso o cultore della filosofia moderna. 
A quasi un secolo dalla sua edizione definitiva (la terza), vede così la luce la traduzione italiana, a cura di Claudia Antonucci, di questa biografia del filosofo tedesco Max Stirner, al secolo Johann Caspar Schmidt, scritta dallo scozzese John Henry Mackay.
Quest’ultimo era un poeta scozzese, imbattutosi nell’estate del 1887, all’età di 23 anni, nel nome e nell’opera di Stirner, mentre consultava, presso il British Museum di Londra, la “Storia del Materialismo” di Friedrich Albert Lange. Colpito da questa rivelazione, negli anni successivi si trasferì in Germania e si dedicò ad una serie di meticolose ricerche relative a quest’autore, del quale si conosceva così poco. 

I risultati di queste indagini storico-filosofiche, avvenute tramite la consultazione sia dei documenti disponibili sia dei testimoni oculari ancora in vita, furono pubblicati una prima volta nel 1898. Una seconda edizione, ampliata, seguì nel 1910, fino ad arrivare all’attuale versione, data alle stampe privatamente nel 1914, arricchita da una serie di apparati, di fotografie e di stampe di documenti. Tutto questo, con l’eccezione dell’albero genealogico della famiglia Schmidt, della bibliografia e delle note – lacuna, a mio parere, discutibile – è riportato nell’edizione italiana, compresa la riproduzione del frontespizio e le prefazioni alle varie edizioni. Mackay finì per assumere la cittadinanza tedesca e morire a Berlino nel 1933.

Come risaputo agli addetti ai lavori, le conoscenze che si hanno della vita di Stirner sono piuttosto scarse. Lo stesso nome con cui è famoso, del resto, è uno pseudonimo. Addirittura, nonostante sia vissuto nel corso dell’Ottocento, nell’era incipiente della fotografia, non esiste alcun ritratto che ne tramandi il volto, eccezion fatta per una caricatura vergata da Friedrich Engels decenni dopo la di lui morte. Ebbene, questo libro si dimostra una miniera d’informazioni preziose e interessanti. Mackay ci mette al corrente persino dei suoi indirizzi di casa durante gli anni dell’Università e dell’andamento dei suoi corsi e del suo esame di abilitazione alla docenza, descrivendo addirittura i giudizi della commissione. Tuttavia, egli non si limita a fare sfoggio di erudizione, ma ricostruisce al meglio delle sue possibilità l’ambiente in cui il filosofo tedesco si è trovato a vivere e ad operare, compreso il circolo dei Liberi, che egli frequentava. L’unico difetto che possiamo imputare qui all’autore è l’assenza di un apparato di note e di fonti – misura oggi indispensabile per ogni opera scientifica, ma ai tempi non ancora universalmente diffusa.

L’unico capitolo un po’ debole di tutta l’opera è il quinto, dedicato all’opera capitale di Stirner, ossia “L’Unico e la sua Proprietà”. Qui, Mackay smette i panni dello studioso per vestire piuttosto quelli dell’apologeta. Non che il suo sunto delle idee del filosofo o che la storia della pubblicazione e della ricezione del testo siano manchevoli, se si esclude l’importante saggio di Marx ed Engels “L’ideologia tedesca”, ancora di là da pubblicare (uscirà nel 1932). Tuttavia, l’entusiasmo con cui il poeta scozzese sposa le tesi di Stirner è sicuramente eccessivo. A sentire lui, si tratterebbe del massimo emancipatore del pensiero umano dai suoi vincoli, reali o supposti, superiore anche ad autentici giganti del pensiero quali Marx e Nietzsche. Mackay, evidentemente non un filosofo per formazione, sembra non trovare alcuna critica rilevante da muovere al proprio idolo.
Quest’infatuazione resta un limite per l’opera dal punto di vista filosofico, perché impedisce all’autore di operare un giudizio più ampio e comprensivo sulle radici e sull’influenza di Stirner nella storia della filosofia. Infatti, nonostante dal punto di vista del procedimento logico sia uno tra i tanti allievi di Hegel – e neanche dei migliori, giusta anche la severa critica marxiana –, da un’ottica concettuale costituisce un punto di riferimento irrinunciabile per ogni filosofia individualista o anarchica contemporanea, grazie alla sua estremizzazione dell’Io, spogliato da ogni sovrastruttura ideologica. 

Nel quadro della storia della filosofia, il misconosciuto Stirner costituisce dunque un vero e proprio anello di congiunzione tra Hegel, la cui dialettica egli segue, e Nietzsche, che gli è debitore a proposito della sua teoria dello Übermensch e del concetto di “ombre di Dio”.
A dispetto dell’attenzione tributatagli dai suoi contemporanei – Marx ed Engels gli dedicano centinaia di pagine di critica! –, la storiografia successiva ha tendenzialmente trascurato Max Stirner, salvo alcune eccezioni. Se però riconosciamo la sua importanza come filosofo, risulta chiaro come un’opera quale questa di Mackay, che ha il merito di illuminare il più possibile l’oscura vicenda biografica del nostro autore, sia irrinunciabile in ogni biblioteca filosofica, non solo per la sua rarità, ma anche per quell’acribia, che è propria dei dilettanti appassionati. All’editrice Bibliosofica va quindi il nostro ringraziamento per averlo strappato all’oblio.

Andrea Virga