domenica 18 maggio 2014

DUCCIO BRACCALONI: Shock addizionali per Firenze!



INTERVISTA A CURA DI: ANTONELLO CRESTI

La politica italiana? Un condominio di piattole e di piattume, di conformismo osceno, di pavidità. Ovunque. I marziani sono pochi. Ecco perché per me è una grande soddisfazione quando persone che so non appartenere a tale vuoto pneumatico tentano di portare le loro idee nell’agone politico. Duccio Braccaloni si candida al consiglio comunale di Firenze con SEL, lista alla quale il sottoscritto non ha risparmiato critiche durissime. Poiché però credo nelle persone, lo dico chiaramente, spero che Duccio entri nel Palazzo fiorentino e riesca ad increspare almeno un pelo d’acqua. E che si possa anche collaborare. Io ci sono e ci sarò.

-La sinistra italiana, e il caso fiorentino è esemplare in questo senso, pur disponendo talvolta di forze non disprezzabili, finisce sempre per tralasciare quella che dovrebbe essere la sua vocazione essenziale, ovverosia, per dirla con Preve "la passione durevole per l'anticapitalismo". Si sono spesso perse in discussioni salottiere le formazioni a sinistra del PD, e non fa certo eccezione anche SEL, con cui sei candidato. Pensi che il laboratorio che state tentando di creare attorno alla candidatura di un giovane come Tommaso Grassi possa essere un segnale nel senso che auspico?

R-La nascita di SEL è stata salutata da molti nel 2009 come un momento di speranza, c'era la convinzione che si potesse davvero recuperare un drammatico vuoto politico, ripartendo con un percorso nuovo, capace di superare biografie personali e lacerazioni passate. Anch'io, dopo un passato tra centri sociali, militanza nei Verdi e associazionismo vario, vi ho aderito con entusiasmo, ma oggi è chiaro a tutti che bisogna ricominciare ancora. A Firenze, intorno alla candidatura di Tommaso Grassi, in pochi mesi è successo un “miracolo”: si sono abbandonati caminetti e salotti, si è capito che non si poteva rimanere schiacciati e muti, incapaci di rispondere alla logica delle larghe intese e al populismo imperante. Oggi possiamo presentarci alla città con una coalizione che unisce tutte le recenti esperienze della sinistra fiorentina, con contributi e sostegni di tanti delusi del PD, di amici radicali ed ecologisti, del mondo del volontariato religioso, dell'associazionismo dei diritti civili e del sindacalismo di base. E finalmente tanti giovani. Per me, che mi sono battuto in tante assemblee per questa soluzione, è stata una grande soddisfazione, che vale al di là del risultato che otterremo. La strada per me è sempre quella di un soggetto politico ecologista e libertario, alternativo al moderno capitalismo, capace di riaccendere conflitti e che non affoghi in fittizie distinzioni tra una destra e una sinistra che in Europa ormai si contrappongono solo apparentemente.

-La tua è una figura eccentrica rispetto a quella del classico militante e sovente è capitato di imbattersi in ambienti underground che poco hanno a che spartire con il mondo politically correct. Firenze è soffocata dal conformismo: Renzi aveva dichiarato di voler smuovere la città dall’immobilismo che la contraddistingue, qualcosa ha fatto, ma sempre in un’ottica promozionale, senza cambi di paradigma. Una idea shock per Firenze?

R-In effetti, fin dai tempi delle riviste underground Argilla e Amanita, abbiamo condiviso la passione per luoghi, fisici o della mente, “altrove”. Mi ricordo tanti “compagni” storcere il naso davanti a pagine che presentavano proposte musicali e artistiche eccentriche, riflessioni che spaziavano da Alex Langer a Pasolini, da Aleister Crowley a Dalì a Melissa P! L'invito era, ed è, ad essere liberi, consapevoli che la forma acquista importanza solo quando mancano i contenuti. Lo stesso vale per Firenze, dove un personaggio come Renzi ha fatto carriera, e si è auto-eletto “a nuovo che avanza”  con tecniche di marketing degne di una pubblicità della Coca Cola anni '50.  Per Firenze di idee “shock” possono essercene tante: coltivare la cannabis per uso terapeutico nell’Istituto chimico farmaceutico militare, regalare il vecchio Teatro Comunale agli artigiani e agli artisti fiorentini invece che trasformarlo in un resort di lusso, fermare definitivamente il tunnel sotterraneo dell'Alta Velocità. Ma sono poi idee “shock” o di buon senso e praticabili? 

-Una battaglia alla quale sei legato è quella per l’ecologia. A mio avviso anche la filosofia ecologista, che potrebbe dare risposte importantissime nell’epoca postmoderna in cui ci troviamo, è spesso vissuta come un orpello e non come una visione complessiva. Perché non immaginare che Firenze possa divenire davvero un modello di sostenibilità, oltre l’ambientalismo sciatto e di facciata, mettendosi magari alla guida del movimento delle Transition Towns italiane? 

R-In Italia, tranne rare occasioni, una coscienza ecologica non si è mai affermata e spesso l'ambientalismo è visto esclusivamente, nel migliore dei casi, come tutela del paesaggio o, ancora peggio, come semplice pulizia delle strade: quante volte, ai tempi dei Verdi, tanti cittadini chiamavano in sede scambiandoci per Quadrifoglio! Di fronte ad una crisi economica e sociale sempre più grave, davanti alla consapevolezza che ormai siamo al collasso ambientale, la scelta logica e efficiente non può essere che quella di una “transizione” delle realtà urbane verso un uso consapevole dell'energia, dal risparmio all'auto-produzione, verso pratiche di condivisione, come gli orti urbani o i condomini solidali, verso il riciclo e il restauro di ciò che non usiamo più. E visto che impazza un dibattito a colpi di slogan sull'Euro, voglio ricordare la scelta sana di monete locali spendibili in negozi e attività di quartiere.

-Da decenni Firenze culturalmente parlando è un deserto, o non accade nulla oppure si fanno inutili operazioni spot, onerose e poco lungimiranti. Penso tra le infinite cose che Firenze è stata fucina delle più grandi riviste del ventesimo secolo. Perché non immaginare un rilancio delle editoria cartacea che parta proprio da questa città? Non sarebbe un bel modo per conciliare tradizione, comunicazione e cultura?

R-Firenze in questi anni a livello culturale è stata mortificata ed episodi come l'affitto di Ponte Vecchio per gli amanti delle Ferrari o i concertoni di MTV sono l'esempio di come siamo caduti in basso. La nostra città cela ancora realtà artistiche validissime, ma sono costrette all'invisibilità senza le amicizie giuste. Così come si è assistito ad una vera e propria strage di librerie: Le Monnier, il Porcellino, la Martelli, la Edison, la piccola libreria del cinema in via Cavour, la libreria Parterre dello Stensen, vittime di una modernità fatta di centri commerciali e supporti elettronici. Di fronte ad una globalizzazione cattiva una risposta locale non può che essere il rilancio di produzioni di qualità. E questo vale certamente anche per l'editoria cartacea: chi ha detto che è destinata a scomparire? Anni fa si davano per morti i supporti fisici per la musica ed ora si assiste al ritorno dei cari e vecchi vinili e di negozi musicali specializzati! Tutto però è legato, se chiudono le librerie e si riduce lo spazio sugli scaffali, si riduce il mercato dei libri, e viceversa.

-Puntare sulla qualità gioverebbe anche al turismo che è indubbio volano della città toscana. Una idea shock anche in questo ambito?

R-Da troppo tempo Firenze punta tutto e quasi esclusivamente sul turismo. La proliferazione di camere e appartamenti in affitto, di paninerie e pizzerie take away, di strade che sembrano sempre più shops aeroportuali, ha svuotato il centro storico e aumentato le difficoltà per i servizi e per la qualità dell'ambiente. Una città sempre più usa e getta con prezzi insostenibili. In futuro dovremo invece puntare su una seria programmazione della mobilità e degli spazi delle città, decentrando  i luoghi d'interesse sul territorio, in un giusto rapporto con le esigenze dei residenti. E il futuro passerà anche dalla valorizzazione delle nostre ricchezze come l'Accademia delle Belle Arti, il Conservatorio, la Biblioteca Nazionale e l'Opificio delle Pietre Dure, senza dimenticare le Università, comprese quelle straniere. Quanti ragazze e ragazzi soggiornano a Firenze per lunghi periodi senza lasciarvi tracce tangibili? Sarebbe bello “invitarli” a rimanere e contribuire a un nuovo Rinascimento fiorentino! E certo è assurdo il totale disinteresse per l'arte contemporanea che potrebbe trovare casa in luoghi abbandonati come il Parco di San Salvi o l'ex Meccano Tessile... qualcuno ricorda la Venere Biomeccanica? 


mercoledì 14 maggio 2014

MATTEO GUARNACCIA: Ecco perchè parlo degli sciamani oggi



INTERVISTA A CURA DI: Andrea Zampieri

The Smiling Shaman. Così si intitolava ironicamente una vecchia raccolta antologica di disegni di Matteo Guarnaccia che acquistai molti anni prima di conoscerlo personalmente. Ebbi però presto la sensazione che oltre lo scherzo ci fosse del vero, data la forza evocativa che i suoi disegni e dipinti avevano sulla mia psiche in quel punto così particolare della mia vita in cui era giunto il momento di un cambiamento interiore non da poco. Un “Dietro-front!” sull’orlo del baratro. Da allora passarono gli anni ed ebbi poi modo di conoscerlo e frequentarlo saltuariamente. Ogni volta, davanti a quel suo sorriso pieno di buone vibrazioni, non ho potuto far altro che convincermi che quella mia sensazione iniziale fosse corretta. Così oggi mi trovo qui, nei pressi di uno dei più bei parchi cittadini che Milano possa offrire ai suoi abitanti, a parlare con lui proprio di sciamanesimo, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Sciamani: Istruzioni per l'uso edito da Shake ( www.shake.it ). Seduti ad un tavolo all’aperto, il cielo scuro e minaccioso tipico di questi strani giorni di maggio si apre e lascia passare un fascio di luce solare che ci avvolgerà per tutta la durata della chiacchierata. Il rombo dei motori impazziti, troppo vicini a quell’oasi di verde, non riesce a coprire la voce di Matteo.




Che cosa dovrebbe spingere un lettore ad approfondire il tema dello sciamanesimo oggi?

Chi mi conosce probabilmente sa cosa aspettarsi dal libro e qual è l’approccio, il modello narrativo che uso di solito nei miei saggi. Lo sciamanesimo rimane, per tutti gli altri, un tema di solito trattato in modo piuttosto rigoroso, spesso basandosi sul fatto che l’esperienza spirituale sia qualcosa di sconnesso rispetto alla vita quotidiana e reale. Lo sciamanesimo è comunque, inaspettatamente anche per me, tornato ad essere un tema centrale, probabilmente sull’onda della cosiddetta New Age e delle terapie di guarigione spirituale che da essa spesso derivano. Ma non solo. C’è una nutrita comunità di studiosi, sperimentatori e  scienziati che trova nello sciamanesimo un approccio ai concetti di “natura” e “psiche” molto moderno, e molto lontano dallo stereotipo che di solito presenta lo sciamano come un personaggio pittoresco ed esotico, più centrato sull’apparenza del proprio costume che sull’essenza delle esperienze che vive. In questo modo l’esperienza sciamanica potrebbe sembrare qualcosa di molto distante, che non ci appartiene, mentre è in verità parte integrante della nostra cultura e della nostra vita. In fondo, lo sciamanesimo nasce insieme all’uomo, e probabilmente prima di ogni religione. Di fatto è una modalità di approcciare la nostra psiche, che da sempre è nel nostro DNA.
L’esperienza sciamanica ci ricorda che l’uomo è parte integrante della natura, ma non deve assolutamente considerarsi al di sopra di essa, come invece accade da tempo con risultati catastrofici sullo stato di salute del pianeta. Per la terra siamo diventati una forma di vita decisamente ingombrante, e lo sciamanesimo può senz’altro aiutare a ricordarci qual è il nostro posto nel mondo.



Perché per uno sciamano è importante l’aspetto estetico del proprio costume, da te approfonditamente sviluppato nel libro attraverso una serie di tavole e disegni esplicativi?

Spesso dimentichiamo di avere un immaginario, e che esso si evolve e cresce nell’arco di millenni di storia del genere umano attraverso dei simboli, come Jung ha per altro ben spiegato nei suoi studi e trattati. Il costume sciamanico è una mappa simbolica che permette di comprendere alcuni passaggi dell’esistenza, spesso rappresentando come simboli animali e forze della natura.
Lo sciamano ha il compito di mostrare alla comunità i livelli di conoscenza ai quali è possibile arrivare, e lo fa attraverso delle esperienze di viaggio che sa padroneggiare. In questo senso parliamo del costume come di una “mappa”. Alle stesse esperienze l’uomo comune potrebbe arrivare per casualità, studio, incidente, ma per lui sarebbe difficile tornare indietro per elaborare, comprendere e comunicare l’esperienza ad altri. Il costume dello sciamano, come la musica, la poesia, e altri mezzi, racconta l’esperienza alla comunità. Dichiararsi “uomo”, o scientificamente Homo Sapiens, significa poter dire di conoscere il proprio posto nel mondo. Il costume dello sciamano è la mappa su cui è segnato questo posto.

Le esperienze sciamaniche vengono sempre associate alle zone dove tradizionalmente hanno in passato messo profonde radici. Pensiamo all’Oriente, alla Siberia e in generale al Sudamerica. L’occidente ha mai avuto una propria tradizione sciamanica?

L’ha certamente avuta ai tempi dell’antica cultura ellenica, fino all’avvento dell’antico impero romano.
Pensiamo ad esempio al culto dei misteri Eleusini, ed in generale a tutte le antiche pratiche orientate alla comprensione e al culto delle figure femminili. Lo sciamano, quasi sempre figura maschile, non fa altro che rendere manifesto quel mistero della creazione che è proprio della donna, che lo vive del tutto naturalmente senza troppo soppesarlo. La donna non ha bisogno di comprenderlo ed elaborarlo con l’intelletto, Semplicemente lo incarna, più o meno  coscientemente da sempre. La creatività nel senso più ampio è letteralmente “dare vita”.

Parlando di Creatività come fulcro dell’esperienza sciamanica, è quindi  corretto individuare in certi artisti occidentali del secolo scorso ed attuale una sorta di sciamano occidentale? Sto pensando a Jodorowsky, Allen Ginsberg,  ma anche a te e Claudio Rocchi…

Come dicevamo prima, lo sciamanesimo ci accompagna da sempre, ed è parte del nostro vissuto. Uno dei territori in cui i “segni” dello sciamanesimo permangono e sono maggiormente protetti e si fanno più nitidi è proprio l’arte, in ogni sua manifestazione.
Nella concezione originale dei sogni dei maledetti francesi dell’Ottocento l’arte dovrebbe corrispondere alla vita, l’arte è la vita stessa, anche se di fatto poi la civilizzazione occidentale ha operato una sorta di “specializzazione” delle esperienze emozionali. Se l’antico sciamano era di fatto medico, artista, poeta, psicologo, il mondo moderno non sa che farsene di una figura aperta a tutta una serie di esperienze differenti. Anzi, per chi detiene il potere, una figura completa e libera, capace di sopravvivere in assoluta solitudine, eppure con un proprio ruolo centrale nella comunità come lo sciamano, è piuttosto pericolosa e destabilizzante. Il potere ha bisogno di gente “asservita”. Nelle culture tribali, anche se ogni membro aveva proprie caratteristiche e ruoli, non fuggiva dalle esperienze in altri ambiti. Già in quel tempo, avevano compreso che ogni uomo è in realtà molte persone differenti, come ci ricorda Jodorowsky. L’arte è l’ambito in cui storicamente il potere ha concesso che certe energie venissero esplicitate. E se si tratta di vera arte, pur popolare che sia, essa smuove sempre le energie interiori dell’artista e di chi fruisce della sua opera o del suo gesto artistico. L’artista “fruga” dentro sé senza sapere a priori cosa potrà tirare fuori, e si tratterà sempre di qualcosa che è a priori “non spendibile”. Magari lo diventerà decenni o secoli dopo. L’arte è il territorio in cui tutto è già stato fatto, ma quando ancora non era il momento. E’ l’offrire un nuovo punto di vista sulla vita. E’ far cambiare aria alla società quando è pressoché asfissiata.
E’ in fondo quel che accadde con l’avvento del Rock’n’Roll di Elvis. Prendi ad esempio l’immagine di copertina del suo primo disco, in cui lui appare sul palco completamente sfatto, quasi posseduto. Quello è qualcosa che prima non si era mai visto.
L’artista col suo gesto lancia dei segnali, ed il fruitore, che ha un ruolo tutt’altro che passivo, si trova “agganciato” all’esperienza artistica che gli permette di aprire delle porte che erano già da sempre presenti in lui, e che lo fanno evolvere. Che si tratti di quadri, immagini, musiche o poesie, il fruitore diventa “complice” dell’opera artistica e dell’artista, e dall’opera viene preso e compreso. Questo fenomeno oggi va contro la logica dell’intrattenimento, che ci vorrebbe tutti passivamente assorti.
Come ti sarà forse capitato di constatare personalmente, in una libreria, a volte i libri costituiscono un vero e proprio “richiamo” incomprensibile all’analisi intellettuale, perché si tratta di autori e titoli sconosciuti, magari con copertine piuttosto brutte, eppure poi la loro lettura si rivela tanto importante da cambiarci un po’ la coscienza e la vita. Questo può essere un piccolo esempio di come l’arte e lo sciamanesimo siano strettamente legati.
Il tasto dolente dell’ambito artistico è che mentre l’esperienza sciamanica in origine era mirata alla crescita della comunità, la fruizione artistica agisce sul singolo, e solo in rari casi come esperienza collettiva. Penso ai rave parties e ai concerti rock, che sono dei surrogati moderni degli antichi rituali collettivi di iniziazione.
Penso soprattutto ai primi Rockers dell’epoca di Elvis e Jerry Lee Lewis, che officiavano dei veri e propri riti collettivi con i quali riuscirono a far esplodere beneficamente le energie compresse indotte nella gioventù di allora dall’esperienza delle guerre mondiali. Nel rito del Rock il corpo, la mente e il suono sono tutt’uno.

Hai mai avuto occasione di conoscere personalmente uno sciamano? Si trattava di persone dotate di particolari caratteristiche, oppure erano all’apparenza piuttosto inosservate?

Se parliamo di sciamani in termini “tradizionali”, ad esempio quelli siberiani o messicani, no.
Però ho incontrato persone come Albert Hoffmann in cui ho riconosciuto la saggezza e la sapienza tali da farmi riscoprire delle energie sottili che avevo già  in me ma non riconoscevo. Era una persona indubbiamente legata ai riconoscimenti raggiunti in ambito scientifico per la scoperta dell’LSD e non solo, ma era anche capace di una sensibilità e di una semplicità più uniche che rare. Era estremamente legato alla contemplazione della natura in ogni sua forma. Amava le farfalle e gli animali selvatici al punto da far crescere selvaggiamente l’erba e le piante del suo giardino affinchè gli animali potessero trovare un habitat a loro congeniale e si avvicinassero per farsi ammirare. Aveva compreso che la più alta forma di conoscenza è l’amore, e questo cercava di trasmettere anche a chi ancora lo assillava con le solite domande sull’LSD. Se l’umanità non riuscirà in breve a comprendere che siamo parte di un “tutto”, sarà destinata prima o poi a soccombere e sparire. Siamo invece destinati, nei piani originali, ad essere parte di un “matrimonio alchemico” con il creato. Poi, certo, ci spetta il compito non facile di evolverci aprendo tutti i possibili canali di comunicazione meno convenzionali per entrare in contatto e rispettare tutto il creato. Sono i bambini, leggeri e privi delle nostre sovrastrutture ed esperienze, a riuscire naturalmente in questo. Loro sanno, senza alcuno sforzo, dialogare con le piante, gli animali, gli oggetti, e gli amici immaginari. Chiunque è stato bambino, e dunque è già stato a tutti gli effetti uno sciamano, anche se non lo ricorda più.

Cosa bolle in pentola per lo Smiling Shaman oggi?


Il 12 giugno si inaugura a Milano presso la Galleria Colombo una mia mostra con disegni, quadri e oggetti. Poi sono al lavoro su un paio di libri, e sto curando i servizi dedicati all’arte della trasmissione Cool Tour, in onda su Rai 5.

martedì 13 maggio 2014

ANDREA VIRGA: Lo Stirner di Mackay



Come spesso avviene nel nostro Paese, spetta ad una piccola casa editrice – in questo caso la romana Bibliosofica – pubblicare, ossia rendere noto al pubblico italiano, un’opera forse di scarsa fama ma certo di grande importanza per qualsiasi studioso o cultore della filosofia moderna. 
A quasi un secolo dalla sua edizione definitiva (la terza), vede così la luce la traduzione italiana, a cura di Claudia Antonucci, di questa biografia del filosofo tedesco Max Stirner, al secolo Johann Caspar Schmidt, scritta dallo scozzese John Henry Mackay.
Quest’ultimo era un poeta scozzese, imbattutosi nell’estate del 1887, all’età di 23 anni, nel nome e nell’opera di Stirner, mentre consultava, presso il British Museum di Londra, la “Storia del Materialismo” di Friedrich Albert Lange. Colpito da questa rivelazione, negli anni successivi si trasferì in Germania e si dedicò ad una serie di meticolose ricerche relative a quest’autore, del quale si conosceva così poco. 

I risultati di queste indagini storico-filosofiche, avvenute tramite la consultazione sia dei documenti disponibili sia dei testimoni oculari ancora in vita, furono pubblicati una prima volta nel 1898. Una seconda edizione, ampliata, seguì nel 1910, fino ad arrivare all’attuale versione, data alle stampe privatamente nel 1914, arricchita da una serie di apparati, di fotografie e di stampe di documenti. Tutto questo, con l’eccezione dell’albero genealogico della famiglia Schmidt, della bibliografia e delle note – lacuna, a mio parere, discutibile – è riportato nell’edizione italiana, compresa la riproduzione del frontespizio e le prefazioni alle varie edizioni. Mackay finì per assumere la cittadinanza tedesca e morire a Berlino nel 1933.

Come risaputo agli addetti ai lavori, le conoscenze che si hanno della vita di Stirner sono piuttosto scarse. Lo stesso nome con cui è famoso, del resto, è uno pseudonimo. Addirittura, nonostante sia vissuto nel corso dell’Ottocento, nell’era incipiente della fotografia, non esiste alcun ritratto che ne tramandi il volto, eccezion fatta per una caricatura vergata da Friedrich Engels decenni dopo la di lui morte. Ebbene, questo libro si dimostra una miniera d’informazioni preziose e interessanti. Mackay ci mette al corrente persino dei suoi indirizzi di casa durante gli anni dell’Università e dell’andamento dei suoi corsi e del suo esame di abilitazione alla docenza, descrivendo addirittura i giudizi della commissione. Tuttavia, egli non si limita a fare sfoggio di erudizione, ma ricostruisce al meglio delle sue possibilità l’ambiente in cui il filosofo tedesco si è trovato a vivere e ad operare, compreso il circolo dei Liberi, che egli frequentava. L’unico difetto che possiamo imputare qui all’autore è l’assenza di un apparato di note e di fonti – misura oggi indispensabile per ogni opera scientifica, ma ai tempi non ancora universalmente diffusa.

L’unico capitolo un po’ debole di tutta l’opera è il quinto, dedicato all’opera capitale di Stirner, ossia “L’Unico e la sua Proprietà”. Qui, Mackay smette i panni dello studioso per vestire piuttosto quelli dell’apologeta. Non che il suo sunto delle idee del filosofo o che la storia della pubblicazione e della ricezione del testo siano manchevoli, se si esclude l’importante saggio di Marx ed Engels “L’ideologia tedesca”, ancora di là da pubblicare (uscirà nel 1932). Tuttavia, l’entusiasmo con cui il poeta scozzese sposa le tesi di Stirner è sicuramente eccessivo. A sentire lui, si tratterebbe del massimo emancipatore del pensiero umano dai suoi vincoli, reali o supposti, superiore anche ad autentici giganti del pensiero quali Marx e Nietzsche. Mackay, evidentemente non un filosofo per formazione, sembra non trovare alcuna critica rilevante da muovere al proprio idolo.
Quest’infatuazione resta un limite per l’opera dal punto di vista filosofico, perché impedisce all’autore di operare un giudizio più ampio e comprensivo sulle radici e sull’influenza di Stirner nella storia della filosofia. Infatti, nonostante dal punto di vista del procedimento logico sia uno tra i tanti allievi di Hegel – e neanche dei migliori, giusta anche la severa critica marxiana –, da un’ottica concettuale costituisce un punto di riferimento irrinunciabile per ogni filosofia individualista o anarchica contemporanea, grazie alla sua estremizzazione dell’Io, spogliato da ogni sovrastruttura ideologica. 

Nel quadro della storia della filosofia, il misconosciuto Stirner costituisce dunque un vero e proprio anello di congiunzione tra Hegel, la cui dialettica egli segue, e Nietzsche, che gli è debitore a proposito della sua teoria dello Übermensch e del concetto di “ombre di Dio”.
A dispetto dell’attenzione tributatagli dai suoi contemporanei – Marx ed Engels gli dedicano centinaia di pagine di critica! –, la storiografia successiva ha tendenzialmente trascurato Max Stirner, salvo alcune eccezioni. Se però riconosciamo la sua importanza come filosofo, risulta chiaro come un’opera quale questa di Mackay, che ha il merito di illuminare il più possibile l’oscura vicenda biografica del nostro autore, sia irrinunciabile in ogni biblioteca filosofica, non solo per la sua rarità, ma anche per quell’acribia, che è propria dei dilettanti appassionati. All’editrice Bibliosofica va quindi il nostro ringraziamento per averlo strappato all’oblio.

Andrea Virga

domenica 27 aprile 2014

CHRISTIAN RAIMO: Addio Angelo Bernabucci, quando la comicità era politically uncorrect!



Quando a sedici, a diciassette anni, nelle giornate infinite in cui si poteva cominciare a scegliere a cosa assomigliare, mentre non imparavo a suonare la chitarra, mentre non portavo le cuffie giorno e notte alle orecchie, mentre rimanevo dubbioso se lasciarmi trasportare da coloro che indossavano camicie a quadrettoni o magliette con su scritto Nevermind the bollocks o si facevano crescere i dread, scovai invece, tra i figli del ceto medio arricchito dagli anni ’80 e impoverito dai ’90 di un liceo di periferia, le persone con cui condividere una mitologia privata che mi ero ritagliato, convinto, forse convinto sì, che il mio senso di affratellamento non sarebbe passato dalle urla lanciate insieme di Come as you are o dall’ascolto compulsivo dei Dream Theater, ma dall’amore che nutrivamo per persone come Angelo Bernabucci.
Angelo Bernabucci, che ieri è morto a Roma a 70 anni, (ne ha dato la notizia Marco Giusti, che è uno dei pochissimi critici che ha saputo riconoscere il talento di questo genere di attori, e qui lo ricorda) è stato uno dei miei miti assoluti in quell’età di mezzo, un membro di quello che, a distanza di tempo, e con un affetto che non è quasi più pervaso di ironia, potrei definire una specie di brat pack dei caratteristi romani: lui, Mario Brega, Ennio Antonelli, Milly Corinaldi e pochi altri. Scoperto da Carlo Verdone secondo racconti che poi divenivano parte integrante della stessa mitologia, la sua interpretazione di Walter Finocchiaro in Compagni di scuola era una delle performance attoriali che occorreva – mi viene da dire occorre – sapere a memoria per conquistarsi la complicità di quelli che consider(av)o i miei veri amici.
Dalla scena dell’epifania con Fabbris (Fabio Traversa) alla presa in giro di Postiglione (Luigi Petrucci) al cameratismo con Ciardulli (Cristian De Sica) interrotto appena perde a poker: “Famo er pokerino, famo er pokerino, poi co’ tre ganci te cachi sotto?”, “Rimettite le mani in testa”, “Ahò, m’arendo, e chi dovresti da esse te?”, “Fabbris, ma che me stai a pià per culo ahò?… Te c’hai avuto un crollo, doo ottavo grado dea scala Mercalli però”, “Oh, l’invito dice ore diciotto, mancheno cinque minuti, ‘nce ne frega gnente, annamo”, “Oh, ma do ll’hai rubbati sti fiori, su una tomba? Anvedi quanto so brutti ahò”, “Anvedi, pure la fotografia… guardate com’eri, guardate come sei… Me pari tu zio!”, “Ah, Fabbris senti se te piace questa, a me me ricorda ‘n sacco de cose, ‘n sacco de donne… Gnente eh… Ma ‘n c’andavi mai ae feste, te?…Nte 'nvitavano, eh?"
Per anni le mie conversazioni si sono svolte quasi esclusivamente pescando tra queste citazioni, “No, Luca, c’è n’eccezzione, che conferma la regola, mo te me devi dì chi è quello. ‘N c’hai trenta secondi, te do na settimanaaa!”, “È tremendo, è da denuncia, uno ‘n se pò presenta ridotto così, devi mannà ‘n certificato, ma duu ufficio d’iggiene pperò!”, “No, de profilo, noo posso vedè, portatelo, portatelo viaa!”, fino a arrivare alla definitiva “Ma io sono fatto così, a battuta me piace, ‘n ce posso fa gnente” – ossia la massima che era per noi al tempo una specie di imperativo categorico e che per me, per molti versi, lo rimane ancora.
Credo di aver passato intere feste o intere giornate a scuola a non pronunciare altro che queste frasi, insieme a quelle di Manzotin interpretato da Ennio Antonelli in Febbre da cavallo; a quelle di Mario Brega in Bianco, rosso e VerdoneUn sacco bello e Borotalco; a quelle di Milly Corinaldi in questa scena del volo di Pappa e ciccia (“Signorina, mi scusi c’è il pranzo a bordo?”, “Sì, che vòi, semi o lupini?”); a quelle sempre di Angelo Bernabucci in Fratelli d’Italia (“Mortacci loro e de chi non je lo dice co la mano arzata e sartellando“).
La volgarità sfrenata di Bernabucci & co. era una specie di viatico contro il destino piccolo-borghese a cui sembravamo, anche così giovani, già condannati. Per questo era anche più ammirata e citata di quella (sublime beninteso) di Tomas Milian o di Bombolo, perché era sempre antifrastica, arrogante contro, cinica e non bonaria, non popolare tra il popolo, ma insultante contro l’affettazione, approssimativa, scaciata, persino un po’ fascista si sarebbe detto se Mario Brega non avesse pronunciato una assoluta chiarificazione a nostra eterna garanzia: “Fascio a me?” 
Quando a sedici anni facevamo il giornalino della scuola, i nostri primi tentativi d’intervista furono quelli di far parlare i nostri miti. Ennio Antonelli abitava a Talenti, al piano terra di un palazzo a via Nomentana 861R dove viveva un mio molto caro amico; ma a quel tempo aveva già subito un ictus e parlava con difficoltà – continuò a interpretare altri film dove poteva ancora giocarsi tutto sulla sua credibilità della sua faccia, ma era doppiato. Di Milly Corinaldi provammo a cercare il numero di telefono chiedendo al 12; evidentemente non era era registrata o era registrata sotto altro nome. Mario Brega invece rispose al telefono, era l’unico Mario Brega sull’elenco, e lo andai a incontrare con un altro mio amico che aveva la telecamera: ci accolse nella sua casa a via Oderisi Da Gubbio, casa dove c’aveva accompagnato in macchina mio padre. Ci raccontò una gran quantità di aneddoti tra cui la famosa origine della scena di Borotalco con “Arzate, ‘nfame, arzate”. La cosa che notai era che usava sempre e solo la seconda persona singolare: se doveva riferirsi a qualcuno, lo chiamava in causa dandogli del tu. Per esempio aveva litigato con Cristian De Sica a suo tempo, e diceva “Cristian De Sica non ti debbo riincontrare”, come se De Sica fosse lì davanti a noi.
Alla fine dell’intervista, siccome pioveva, Brega ci chiese com’eravamo venuti e quindi ci chiese se potevamo accompagnarlo al garage; scese insieme a noi, s’infilò davanti in macchina accanto a mio padre, noi dietro. “Buongiorno”, disse mio padre, “piacere”. “Ciao”, disse Mario Brega, strascicando la c e la o, più una roba tipo “Sciaooo”. E quando arrivammo in cima della salita del garage, mio padre chiese: “Vuole che la accompagno giù?”, e Brega: “E che me vuoi lascià qua?”. Non so che fine fece quell’intervista, non la sbobinammo e non la pubblicammo nemmeno, però ci fornì materiale da racconto per almeno un anno.
Telefonammo anche a Angelo Bernabucci, insistemmo per un’intervista, ma – a quel che ricordo – lui non volle farla. Non gli piaceva nemmeno troppo fare l’attore, credo. O comunque era una cosa che gli era capitata – nel 1988 aveva esordito proprio con Compagni di scuola – e che ogni tanto faceva, ma che non si era scelto. Una ventina di film, tra commedie commerciali e fiction per la tv. Niente di memorabile, viene da dire, se non per il fatto che mi posso ricordare tutti i momenti in cui da bambino diventavo un ragazzo e a parlare non era la mia voce, ma quella sfrontata, impietosa, piena, di Angelo Bernabucci.

sabato 26 aprile 2014

ANDREA ZAMPIERI: Angelo Quattrocchi, "Ippi" italiano!



Se c’è una figura italiana che più di altre ha rappresentato tutte le peculiarità dei movimenti underground in Italia è senza dubbio quella di Angelo Quattrocchi.
Ogni sua manifestazione editoriale, politica e artistica, sempre in piena rottura con gli schemi precostituiti, s’è sempre sviluppata per piccoli passi, presto affidata su lunga distanza a quel tam-tam tipicamente underground che era ed è il caro, vecchio fenomeno del “Passaparola”.
Soprattutto agli albori, quando la “rete” non esisteva, ed ogni iniziativa si muoveva in ambito anche internazionale solo grazie agli sforzi di quella “Setta di Insetti” che era la comunità underground, misurando le distanza tra persone in chilometri e giornate di viaggio, e non in Bytes al secondo. Ogni passo era un passo reale.
Ma erano passi decisi, fatti in direzioni precise, immaginando orizzonti ampi, ma ben delineati.
Fino a realizzare un mondo culturale ed editoriale pressoché unico in Italia, prima con il fenomeno di Stampalternativa, e poi con l’editore Malatempora.
Nel mezzo, una serie sterminata di iniziative provocatorie, folli, scellerate e giocose, a volte dal piglio egocentrico tipico di Angelo, ma sempre decisamente efficaci.
Basti pensare alla oramai storica Lista Ippi, presentata alle elezioni politiche del 1972 insieme a Marcello Baraghini, con la complicità artistica di Matteo Guarnaccia per la realizzazione del noto simbolo di partito.
Oppure alla diffusione di testi decisamente scomodi per le epoche in cui Angelo decise di spingerli nelle mani dei lettori come benevole bombe emotive pronte ad esplodere per espanderne la coscienza. Penso, ad esempio, ai titoli “E quel maggio fu rivoluzione”, uscito a ridosso del maggio francese, “Come e perché difendersi dalla TV”, “Oltre la gelosia, l’Amore”, tutti scritti di suo pugno, ma anche ad una valanga di altri titoli e di altri autori che Angelo ha promosso e distribuito con le sue edizioni, dedicati alle tematiche dell’omosessualità, del vegetarianesimo, dell’incubo del G8 di Genova, e delle utopie comunitarie e movimenti hippi negli anni Settanta.
Tutto materiale che oggi, in tempi di piena crisi ideologica, è possibile riscoprire attualissimo grazie al catalogo di Malatempora (http://www.malatempora.com ).
Tutto quanto fin qui accennato è solo una piccola parte di quello che Angelo ha realizzato in una quarantina d’anni di militanza nelle prime file del movimento Underground internazionale ( Ha scritto e ravvivato anche testate underground oltre confine quali ad esempio OZ ). In rete è possibile trovare ampia documentazione in proposito, e meglio ancora sarebbe leggere il paragrafo dedicato ad Angelo nel libro Underground Italiana di Matteo Guarnaccia per farsi un’idea precisa sulla sua vita dal punto di vista artistico ed editoriale.
Ma qui vorrei ricordare e celebrare Angelo, che non ho avuto occasione di conoscere personalmente, ma tanto mi è caro per quanto sopra accennato, anche per quel che ha saputo rappresentare dal punto di vista personale, oltre che editoriale.
I due punti di vista, in effetti, convergono, come accade per le persone che esprimono coerenza in tutto e per tutto, dono più unico che raro di questi tempi.
Così accade che se si cerca in rete su canali nemmeno tanto alternativi, ci si imbatte in diverse testimonianze di amici di Angelo che ne descrivono gli aspetti più personali, per scoprire con positivo stupore che l’uomo e l’editore erano davvero la stessa persona.
Una persona spesso egocentrica, genuinamente schietta, a volte benevolmente polemica, difficilmente disposta a capitolare, ma che sviluppava queste caratteristiche per diffondere idee ed arricchire il pensiero degli altri, non certo per autocelebrarsi.
Tra i ricordi più personali (ma non dimentichiamolo, negli anni Settanta si diceva che “Il personale è politico”, e mai come oggi questo è ancora vero…) troviamo i racconti di amici che hanno partecipato agli incontri che Angelo teneva regolarmente a casa propria, aperti a chiunque avesse voglia di mettersi in gioco in un naturale fenomeno di scambio culturale, intellettuale, emotivo e fisico senza alcun limite precostituito se non il rispetto per sé e gli altri.
Una casa letteralmente sempre aperta, laddove l’apertura era intesa in senso strutturale ed attitudinale.
Tanto l’attività di editore ed agitatore controculturale quanto i gesti più personali insieme a molti altri dettagli della vita di Angelo hanno insegnato a diverse generazioni recenti come muoversi e sopravvivere combattendo pacificamente, ma con grande forza, le regole dell’establishment editoriale e non.
Quando si dice “Una vita vissuta nell’underground”, non si può non pensare ad Angelo.
La sua dipartita però, è avvenuta nel 2009 per una malattia che l’ha consumato piuttosto rapidamente, in un modo stranamente silenzioso, senza i clamori e i riconoscimenti ufficiali che pure un ambito sotterraneo e non allineato avrebbe dovuto riservargli.
Per questo le mie poche righe rappresentano semplicemente l’intenzione di non dimenticare una figura che a distanza di anni dalla sua scomparsa continua a sopravvivere attraverso il duro lavoro dell’editore Malatempora, del quale Angelo rappresenta ancora in pieno lo spirito.

La presentazione dell’editore tratta dal sito ufficiale che riporto qui sotto è piuttosto eloquente:

Chi siamo:

Il fondatore è Angelo Quattrocchi, vecchio, indomito scrittore che fu beat e hippie a Londra e in California e inseguitore di rivoluzioni (il primo dei suoi molti libri "E quel Maggio fu: Rivoluzione!" e' ancora in catalogo dopo 40 anni). Dopo una vita di giornali underground in giro per il mondo (il mitico "OZ" magazine della Londra anni '60, "Berkeley Barb", "L.A. Free Press") con la fine del secolo mette in piedi questa editrice. Gli si affiancano il controeconomista Domenico De Simone e Romano Nobile presidente della ARES. La mitica Maya fa da webmistress. Poi arriva il giovane Stefano, colonna operativa, sfegatato romanista (nessuno è perfetto) e autore con una visione critica di molti nostri libri di calcio , e infine la libraia Silvia Ianniello, autrice di "Coca Cola No!"...
Evitiamo ruoli e schemi quanto possiamo, in una dimensione artigianale (20 libri all'anno circa) che ci consente rapporti e amicizie di una cultura alternativa vissuta già qui ed ora tra noi. Non abbiamo né padroni né padrini, né pratichiamo linee ideologiche: siamo movimentisti. Ed è per questo che ci troverete poco sui giornali, anche di sinistra. Chi ha interesse per noi segua il sito, il magazine e ci stia vicino. È impresa esaltante, ma difficile, la nostra.

Cosa facciamo:
La disperazione per il presente e la ricerca di percorsi di radicalità nella landa desolata delle idee usate ci ha spinto a questa editrice. Che ha 8 anni e più di 100 libri di controcultura, di movimento, di controeconomia, di underground e psichedelia, di fiction dura, di erotica e aforismi, barzellette e fumetti. Un filo rosso li lega: una visione alternativa del vivere, nel politico e nel personale, contro il pensiero dominante del 'produci, consuma, crepa'. Ogni libro vuole essere un sasso nello stagno putrido dell' immaginario del potere, fatto di TV coatta, di menzogne mediatiche.

Dove siamo:

Siamo in circa 4OO/5OO librerie italiane. Promossi e distribuiti da CDA. Che vuol dire?
Che i promotori di CDA vanno nelle librerie, mostrano la copertina e chiedono: quante copie?
Tre mesi dopo noi abbiamo i risultati e pubblichiamo il libro (qualche volta siamo costretti a bocciarlo... lunga storia). La distribuzione ci prende il 6O%, a noi rimane il 4O%, dal quale togliamo il costo della 'cosa', il compenso degli autori. Poi c'è Nda, Il Nuovo Mondo di Marcello Pamio, la rivista "Nexus" e Golden Books che ci vendono direttamente. Non facciamo la Fiera di Torino e neppure quella di Roma, cerchiamo però di partecipare il più possiile alle piccole fiere (Pisa, Foggia, Modena...) per incontrare amici sparsi per l' Italia e conoscere i nostri lettori.
E poi siamo 'sul sito' dove ci leggete, e dal quale potete comprare i nostri libri, spediti gratuitamente, e scontati del 2O% se ordinati via mail. Purtroppo non possiamo scontare gli ordini via Paypal perché in questo caso paghiamo una commissione.
A noi un libro venduto on line vale due perché così arriviamo dove non arriveremmo mai. Nonostante amiamo i librai (ma non le grosse catene, che consideriamo librifici), sappiamo che è il rapporto diretto tra editore e lettore che ci aiuta a sopravvivere.
Anche per questo abbiamo messo nel sito un magazine, e rubriche che fanno controcultura, insieme ai libri stessi.

Mi piacerebbe che qui, tra le pagine di questo progetto editoriale che ad Angelo sarebbe probabilmente  piaciuto per l’apertura a tutto campo degli argomenti, degli interventi e degli scambi di vedute,  si potessero raccogliere oggi, all’inizio di un 2014 le testimonianze e i pensieri di chi anche solo per un attimo, nelle condizioni più disparate è entrato in contatto con Quattrocchi e che questo post non passasse sotto silenzio, come in fondo è accaduto per la scomparsa di questo grande intellettuale del secolo scorso.


venerdì 25 aprile 2014

ALBERTO LODI: L'intellettuale e la crisi


 Secondo un recente sondaggio, in Italia sei persone su dieci non leggono libri; il mondo culturale è così agonizzante che, se potessimo, vorremmo essere sia artisti che scrittori che filosofi, e come filosofi vorremmo essere sia marxisti che idealisti o nichilisti – questo per contribuire a rivitalizzare un mondo annientato, laddove se i più vogliono prostrarsi al conformismo, noi vorremmo farci carico di tutte le opzioni radicali e veder saltare in aria tutto, in un grande fuoco d’artificio. Ora, tra tutte le strade che ci si parano innanzi, il momento della crisi, col disfacimento che porta, ci ripresenta lo spettro delle difficoltà materiali e della povertà stessa. Non sono tempi di vacche grasse. Men che meno, lo sono per l’intellettuale; spesso, invero, per mancanza di radicalità nella comprensione. Le lamentele degli intellettuali su come questa società non si occupi di loro fanno tristemente sorridere. Come potrebbe andare diversamente? La nostra è una società ormai integralmente “democratizzata”, livellata dal denaro, in cui il valore di ogni cosa si misura in termini monetari, secondo leggi di domanda e offerta. Per sopravvivere è necessario possedere un certo “potere contrattuale” , in modo che un certo numero di persone abbia bisogno di ciò che noi offriamo loro; parrebbe una constatazione di una banalità disarmante, ma non lo è quando si parla di “cultura”, e gli intellettuali pretendono anzi che gli stessi individui che disprezzano e scherniscono a causa della loro ignoranza, si occupino di loro. Anche questo è il segno di una cultura morta, mummificata e ormai del tutto incapace di ogni slancio di vitalità ed autenticità. Come può comportarsi, dunque, l’intellettuale al tempo della crisi? Abbiamo già nominato un’opzione: aderire al codice di pensiero dominante. Fatevi fautori del politicamente corretto, e con un certo bagaglio di letture in tasca potrete tirare a campare, il più delle volte dicendo sciocchezze. Va da sé, tuttavia, che questa non è la nostra strada: non per una diversa adesione ideologica, ma per istinto. Davvero non possiamo adeguarci al presente: già vediamo la noia assalirci, dilaniarci, la banalità di pensatori innominabili (per inattuale buon gusto) causarci nausee mortali. Ma arriviamo al punto: noi crediamo che la crisi possa fornire, in certi spiriti “ricettivi”, il contraccolpo necessario a rimettere in moto la macchina del pensiero che parrebbe essersi inceppata. Vent’anni fa si credeva, con il discusso saggio del 1992 di Francis Fukuyama The end of the history and the last man, che in seguito al disfacimento dell’Unione Sovietica si potesse decretare “la fine della storia”, andata a sfociare in una definitiva tendenza globale al liberalismo ed alla prassi democratica. Non si è fatto in tempo ad azzardare l’ipotesi, che la vicenda umana (anche attraverso la crisi) in un sussulto si è riattivata, e risvegliati dal torpore abbiamo scoperto che la storia non è un passato lontano raccontato nei libri, ma è carne e sangue: siamo noi nel nostro immediato vivere. Il pensiero sembra tuttavia essere ancora preso dal torpore. Non è all’altezza del risveglio dalla storia: si tratta spesso di un pensiero accademico sterile, laddove gli studenti, trattati alla stregua di dementi con paterna benevolenza dai professori, si rassegnano (e del resto anche serenamente, constatando la difficoltà dell’altra opzione) a commentare per l’eternità i classici, certo imprescindibili, ma non meritevoli del supplizio di tali soporiferi commenti. L’altra opzione a cui abbiamo accennato, temiamo non possa, al momento, trovare spazio nell’ambiente accademico, se non marginalmente: è la strada della critica, dell’interpretazione della realtà presente, nella cui prospettiva certamente è necessario un confronto radicale sulla base dei classici del pensiero; ma che ci porti, questo sapere, a squarciare il velo, e che sia il nostro vivere, e anch’esso carne e sangue, e conflitto. Come diceva Friedrich Hölderlin: “Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

giovedì 24 aprile 2014

ALESSANDRA COLLA: Lettera aperta ad Alessia Morani



Da quel che s'intuisce su Twitter, sembra che Alessia Morani, la deputatessa del PD per la quale chi ha reddito zero è uno che non ha combinato niente nella vita, abbia fornito spiegazioni in merito al fraintendimento delle sue parole eccetera. Peccato che il link non sia più disponibile, e quindi mi devo fidare.
Ma non posso fare a meno di sottolineare, ancora un volta, il malvezzo imperante tra le figure e i figuri più o meno istituzionali di questa landa sciagurata che è l'Italia: tutti aprono bocca, tutti pronunciano atrocità logiche ed etiche, tutti suscitano onde anomale di indignazione e/o rabbia — e tutti, puntualmente, il giorno dopo son lì a sbianchettare "non mi sono spiegato... sono stato frainteso... intendevo dire un'altra cosa... forse mi sono espresso male..." e via blaterando.

Eh no, gente mia: è troppo comodo addossare agli altri le proprie colpe ovvero la criminale leggerezza con cui, dall'alto della vostra posizione generalmente immeritata, lasciate cadere parole come macigni con sovrano disprezzo della tragedia in cui sta sprofondando il Paese, trincerandovi dietro scuse di desolante piccineria.

Avvocatessa Morani, non l'ha mai sfiorata il dubbio che forse qualcuno, oggi, si ritrova a reddito zero perché in vita sua non ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta o di conoscere chi potesse dargli la giusta spintarella? O che esista qualcuno che ha privilegiato la difesa di qualche ideale scomodo pagandone il prezzo con l'emarginazione? O, ancora, che qualcuno si sia ridotto a reddito zero perché la turpe gestione della cosa pubblica negli ultimi vent'anni ha gettato sul lastrico milioni di lavoratori?

Mi svesto per un momento dei panni gentili che son solita portare (oggi mi sento più gucciniana del consueto) e Le chiedo — anzi ti chiedo, Morani: ma in che cazzo di mondo vivi?!? Ma li leggi i giornali? La guardi la tv? Te lo fai mai un giro per i supermercati? Ma che ti dice la testa, quando te ne esci con queste imbecillità vittoriane? Ecco, a proposito, nell'Ottocento il sociologo Max Weber ha scritto un bel saggio, dal titolo L'etica protestante e lo spirito del capitalismo: in rete si trovano dei buoni riassunti, ce la puoi fare a capire quello che dice. Nel frattempo, se ti riesce, medita su quello che hai detto: e vedrai che gli insulti che ti sono piovuti addosso non erano poi così gratuiti.


P.S.: Sono stata un po' brusca? Pazienza: domani, magari, dirò che mi avete fraintesa.

CHIARA DONNINI: Artaud, Castaneda, Eliade e il viaggio iniziatico



All’inizio del suo saggio, Il viaggio iniziatico edito da Laterza, Emanuele Trevi sostiene che esistono narrazioni che producono "questa straordinaria esperienza - la possibilità che le parole di un altro ci tocchino in profondo, fino a quello strato dell'essere nel quale si generano le trasformazioni più profonde e benefiche", tanto che diventa assai difficile distinguere la conoscenza trasmessa dallo scrittore dalle ripercussioni interiori generate nel lettore.Questi appunti sono il risultato di un viaggio iniziatico compiuto attraverso il testo di Trevi e delle corrispondenze e degli echi che esso ha prodotto, rimandato e amplificato.
Il viaggio concettuale che compie l’autoreè un movimento circolare in tre momenti che dalla letteratura etnografica e antropologica sul viaggio dei primi del novecento (Dio d’acqua, nel quale l’etnologo francese Marcel Griaule rivelò le “verità” ricevute da uno sciamano dell’allora Sudan francese; Alce Nero parla di John Neihardt, che raccoglie le memorie del capo nativo americano; Gli insegnamenti di don Juanche Carlos Castaneda dedicò ai miti degli indios dell'Arizona e del Messico; Il grande viaggio in slitta nel quale l’antropologo Knud Rasmussen parlò degli Inuit), arriva alle lezioni  americane, le Haskell Lectures sui riti d’iniziazione di Mircea Eliade, passando attraverso i monologhi erratici di Antonin Artaud sulla sua esperienza d’iniziazione con l’allucinogeno peyotl (Ciguri) nel paese dei Tarahumara sulla Sierra Madre (Messico).
Nel primo capitolo “Il pulcino addormentato sulla scarpa”, Trevi prende in esame quattro testi iniziatici fondamentali nei quali gli autori sono stati prescelti (quindi sono stati accolti nella comunità e dotati di fiducia) per ricevere e conservare la saggezza e le tradizioni di un antico popolo. Partendo dalla domanda dello sciamano Ogotemmeli nel Dio d’acqua di Griaule “Come insegnare a un bianco?”, Trevi pone il primo tassello del suo percorso concettuale: la differenza tra sapere tradizionale e sapere moderno, tra storie, miti, parabole, simboli,archetipi, riti e ragionamenti e contenuti astratti, tra saggezza (che è il sapere congiunto indissolubilmente all’esperienza) ed erudizione. La risposta alla domanda di Ogotemmeli la troviamo in ciò che dice don Juan in Gli insegnamenti di don Juan di Castaneda: “L’uomo si avvia verso il sapere come se andasse in guerra”, il che vuol dire che per trasmettere sapienza è necessario che un autore, nell’acquisire insegnamenti, compia a sua volta un’esperienza e che questa esperienza diventi in qualche modo parte della narrazione, cosicché da semplice testimone si trasformi egli stesso in personaggio della narrazione.“Ma solo superficialmente questo criterio di orientamento individuale può essere interpretato come un limite della credibilità del racconto. In realtà, non esiste nessun altro criterio, nessun’altra forma possibile di conoscenza, che quella che fa capo all’individuo.” Inoltre, è necessario che l’autore si ponga di fronte alla conoscenza che sta per ricevere e all’esperienza che sta per compiere con lo stupore e la meraviglia di un bambino, che fuor di metafora significa con il minor numero di sovrastrutture mentali possibile. Ciò echeggia nelle parole di Rasmussen, il quale, nell’introduzione a Il lungo viaggio in slitta, scrive: “La slitta è stato il mio primo vero giocattolo e con quello ho portato a termine il grande compito della mia vita”. Il libro diventa in questo modo “qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore” (Roberto Bazlen), qualcosa che segna uno spartiacque tra un prima e un dopo, qualcosa di assimilabile a un rito iniziatico.
Rito iniziatico che invece compie realmente Antonin Artaud, nel suo viaggio di ascensione reale e metaforica della Sierra Madre (Messico), viaggio che si conclude alla sommità del monte con il rito del Ciguri. Nel secondo capitolo “…dall’altra parte delle cose” Artaud compie un doppio passaggio attraverso lo specchio che separa il visibile dall’invisibile, la vita dalla morte, la materia dallo spirito. L’ascensione della Sierra per Artaud diventa di fatto una discesa agl’inferi di dantesca memoria, che passo dopo passo lo costringe ad abbandonare per strada tutto quello che concerne la sua precedente identità e a presentarsi nudo al momento finale del passaggio. “Perché quel procedere nella malattia è un viaggio, una discesa, per uscire di nuovo alla luce del giorno”. Dopo aver attraversato lo specchio, essersi sentiti rivoltati e riversati dall’altra parte e aver guardato,dunque, il mondo all’incontrario, come l’Orlando pazzo per amore, come l’Appeso diIl castello dei destini incrociati di Calvino, il rito del peyotldiventa il momento dell’illuminazione in cui, pur non riaggregandosi immediatamente la nuova identità dell’iniziato, si focalizza il centro di gravità intorno al quale essa prenderà forma. Tornato in Europa Artaud subirà anche la reclusione in un ospedale psichiatrico e l’elettroshock, esperienze che in qualche modo lo porteranno a rivedere i suoi scritti sul rito del Cigurie a evidenziare la sostanziale differenza tra la frattura identitaria generata dal rito iniziatico (esperienza di morte e rinascita all’insegna della luce e del senso) e quella generata dall’elettroshock (esperienza di morte e rinascita all’insegna dell’oscurità e del non senso).
Nell’ultimo capitolo del Viaggio, “Un’esistenza fallita”, Trevi prende in esame l’enorme patrimonio di erudizione costituito dalle lezioni americane, le Haskell Lectures, di Mircea Eliade sui simboli e riti d’iniziazione delle società primitive o tradizionali. Questi riti sono quasi sempre praticati su adolescenti che vengono costretti ad abbandonare il recinto (eden) delle loro certezze, delle loro abitudini, ad abbandonare tutte le “madri” e il consesso umano, per addentrarsi nella solitudine della natura e sperimentare il senso del tremendum, del sacro. “L'adolescente iniziato comincia con l'essere terrorizzato da una realtà soprannaturale, di cui sperimenta per la prima volta la potenza, l'autonomia, l'incommensurabilità; in seguito all'incontro con il terrore divino, il neofita muore: muore all'infanzia, cioè all'ignoranza e all'irresponsabilità. Subentra un nuovo modo d'essere, il modo d'essere dell'adulto: caratterizzato dalla rivelazione, quasi simultanea, del sacro, della morte e della sessualità. Al termine del processo rituale, si potrà definire l'iniziato come colui che sa.". Le lezioni di Mircea Eliade rappresentano in pieno il paradosso dell’uomo moderno che ha accumulato un’enorme quantità di conoscenze riguardo a ogni forma di religiosità, ma per il quale “la quantità del sapere appare direttamente proporzionale a un processo (forse irreversibile) di svuotamento”.
Il filo rosso del ragionamento che Trevi ha srotolato ora ritorna al punto di partenza e viene riannodatoisolando il concetto che permea di fatto tutta la sua narrazione: il viaggio iniziatico, con la sua morte e rinascita simboliche, sia esso moto orizzontale nello spazio e nel tempo delle civiltà tradizionali e antiche o moto verticale nella profondità dell'essere, o entrambe le cose, oggi non appartiene più alla dimensione collettiva e rituale del sacro e del divino, ma appartiene invece unicamente alla dimensione individuale e psicologica della ricerca di se stessi attuata e attuabile in special modo attraverso una “certa letteratura”. "La modernità è il tempo storico nel quale la letteratura si carica sulle spalle le esigenze più profonde del vecchio homo religiosus. Sottraendole, però, a quella dimensione collettiva, fondata su valori e credenze condivise, che è la condizione stessa dell'esperienza religiosa, alla quale, in fondo, non sfuggono nemmeno le esplorazioni più ardite dei mistici e le ribellioni degli eretici. Il terreno sul quale si muove lo scrittore moderno, al contrario, è fondato sulla più irrimediabilmente solitudine. (...) nascere un'altra volta, a costo di scuotere tutte le fondamenta dell'identità, di mandare in frantumi le abitudini, i significati, le protezioni che ci sostengono. Perché la vita è un fallimento. E se volessimo formulare una definizione sintetica della letteratura moderna, ebbene dovremmo ammettere che essa, nella strabiliante varietà delle sue forme e delle sue invenzioni, è una grandiosa, enciclopedica, inesauribile scienza del fallimento della vita umana.".
Il concetto di fallimento non è in questo caso da intendersi in senso nichilista. Con esso l’autorevuole evidenziare il fatto che le esperienze della vita umana contengono irrimediabilmente imperfezione, inganno, caduta, errore e di conseguenza dolore che non possono e non devono essere evitati e che vanno accettati e interiorizzati per permettere all’individuo di compiere il proprio cammino in modo consapevole, altrimenti lo condurrebbero solo alla crescente alienazione ed estraniamento da sé e dal mondo.  "Un'esistenza che, prima o poi, si rivela fallita. E, preso atto della mancanza di significato che invade lo spazio aperto da questo fallimento, tenta o immagina periodicamente di rinnovarsi, di accedere alle possibilità offerte da una seconda nascita, da una nascita mistica.".
Prendiamo un uomo e la fiamma viva di un fuoco. Se quest'uomo, per sbaglio o per volontà, mettesse una delle sue mani su quella fiamma, proverebbe un dolore subitaneo e intenso che lo indurrebbe a distogliere la mano per non ridurla in cenere. Quel dolore è l'unica difesa che l'uomo ha per non bruciarsi e il suo ricordo il modo per non commettere di nuovo quell'errore. Lo stesso vale per qualsiasi dolore: risveglia la coscienza e incide nella memoria la cicatrice dell'esperienza fallimentare; ma se quel dolore fosse vissuto come qualcosa di estraneo e non venisse interiorizzato in alcun modo, rimarrebbe vano e quasi certamente verrebbe ripetuto. Allora, forse, è proprio il dolore, anche il dolore totalmente esogeno che non ci procuriamo con i nostri comportamenti, che, una volta interiorizzato, può salvarci dall’autodistruzione innescando anche una rinascita più o meno significativa.
Naturalmente la letteratura del viaggio reale o metaforico (e non solo quella) ha sempre svolto questo ruolo di rottura e illuminazione (si pensi solamente all’Odissea di Omero o alla Divina Commedia di Dante – che però contenevano comunque la dimensione del divino -, ma anche al laico Don Chisciotte di Cervantes). Quel che avviene con l’avvento della modernità, con il progressivo accantonamento della dimensione del sacro, lo svuotamento di significato della sua ritualità e, infine, con la secolarizzazione del sapere, è che una “certa letteratura”rimane pressoché l’ultimo e l’unico strumento alla portata di tutti (almeno di tutti i lettori) per tentare il disvelamento dell’Essere e per compiere la propria medesima iniziazione alla vita, poiché “la persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra dell’uomo, è proprietà della sostanza umana.” (Primo Levi, Se questo è un uomo).
La letteratura moderna però, rispetto alla religione e alla letteratura precedente, non offre affatto una visione d’insieme ordinata, coerente e consolatoria, si limita al massimo a inchiodare un atomo nel caos del cosmo, a far brillare una scheggia di verità nel buio dell’ignoranza, ad alleviare in parte e per un istante il senso di solitudine e smarrimento dell’individuo.Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti dai boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi. Questo credo.” (Franz Kafka, lettera a Oskar Pollak del 27.I.1904)



mercoledì 23 aprile 2014

ENRICO GALMOZZI: Massimiliano Griner e la zona grigia



Recensendo se stesso, su Il Fatto Quotidiano (19/04/2014), Massimiliano Griner dice che: "La molla principale alla realizzazione di questo libro è un stata l'indignazione verso un ambiente spesso arrogante e protetto" e ancora: "un complesso di complicità, silenzi, falsa coscienza, opportunismo, che fanno di questa storia un momento l'ipocrisia di massa". Messa così sembrerebbe che l'operazione costituisca niente di più di una postuma resa dei conti all'interno determinati ambiti professonali e intellettuali. Quindi nulla di utile, anche perché qui la "zona grigia" viene degradata a "civetteria" da parte di soggetti che non si sono negati "il brivido di un sanpietrino, il crepitio di una molotov o il fragore di una vetrina infranta" prima di rientrare nell'alveo di una esistenza conforme. In realtà, tralasciando la questione, ben più pertinente, della ampiezza dell'adesione di massa da parte di settori operai e proletari, almeno fino al sequestro Moro (usato qui come spartiacque ben sapendo che si tratta di una semplificazione), va detto che la medesima contiguità palesata da ambienti non proletari non era riconducibile ad atteggiamenti "civettuoli" quanto al peso esercitato, in termini di AUTORITÀ SOCIALE, della opzione rivoluzionaria che contemplava al proprio interno anche la pratica della violenza. Se Prima Linea nel 1976 teneva le riunioni del proprio comando nazionale negli uffici di presidenza della Facoltà di Architettura a Milano o se le FCC stampavano i loro volantini di rivendicazione col ciclostile della FILM CISL non era perché qualcuno in quegli ambienti "civettava" ma perché, allora, non c'era alcun ambiente politico impenetrabile, in termini di autorità e influenza politica, per le formazioni combattenti. Quindi l'utilità di riprendere il dibattito su quegli anni, compreso l'affrontamento della zona grigia, per me consiste nel comprendere come proprio la separazione arbitraria effettuata fra i 4200 condannati per reati connessi al terrorismo e la ben più vasta area di riferimento sia stato il macigno posto sulla liquidazione di una storia che non a caso lo stesso Griner definisce "stagione di follia". Molti, anche impensabili, hanno contribuito a questo. Penso al  Manifesto a cui si deve la formulazione della differenza fra "area della sovversione sociale"  e combattenti, proprio loro che discutevano la unificazione con Potere Operaio, il Partito dell'insurrezione, dove la notizia non sta nel fatto che poi l'unificazione non si fece ma nel fatto che se ne discutesse  come possibile. Fino a Rifondazione Comunista che, in silenzio, ha tesserato molti ex terroristi ma che per viltà e opportunismo ha commissariato la sua sezione di Modena che aveva osato organizzare un dibattito sui '70 con la presenza di Gallinari .
Ora, ognuno si prende le proprie responsabilità, ma io chiedo chi di voi negli anni '70 non abbia urlato almeno una volta "morte al fascio" e se poi qualcuno, per esempio io, passava alle vie di fatto, proprio sulla base di questa legittimazione di massa, perché mai solo su questi debba cadere l'ostracismo politico e sociale?
Io non ritengo sia stata una "stagione di follia", per lo meno NON solo questo è in ogni caso NON opera di pochi pazzi. E allora la discussione sulla dimensione di massa del fenomeno deve servire non solo a ridefinire correttamente il dibattito storiografico ma anche a rimuovere la pena accessoria dell'ostracismo politico e sociale che ha confinatobuna parte consistente di una generazione nella zona grigia (questa sì ) della privazione del diritto di parola.



martedì 22 aprile 2014

ALEISTER CROWLEY: LIBER III vel Jugorum



TRADUZIONE DI: ARAK NOID

LIBER III vel Jugorum

0.

0. Osserva il Giogo sul collo del Bue! Non è in tal modo che il campo vienearato? ll Giogo è pesante, ma unisce ciò che è separato --- Gloria a Nuit ea Hadit, ed a Colui che ci diede il simbolo della Rosa Croce!Gloria al signore della parola Abrahadabra, e Gloria a colui che ci diede il simbolo dell'Ankh, e della croce dentro il cerchio!

1. Tre sono le Bestie con le quali devi arare il Campo; I'Unicorno, il Cavallo,ed il Bue. E queste devi aggiogare con un triplo giogo governato da Una Frusta.

2. Ora queste Bestie corrono sfrenate sulla terra e non sono facilmente obbedienti all'Uomo.

3. Nulla si dirà qui di Cerberus, la grande Bestia dell'Inferno che è ciascuna etutte queste, come anche Athanasius ipotizzò. Poiché questo argomento non è al di fuori di Tiphereth, ma al di dentro.


I.

0. L'Unicorno è la parola. Uomo, comanda la tua parola! Come potraialtrimenti comandare il Figlio, e rispondere al Mago sulla porta destra della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare per una settimana o più.
(a) evita di usare qualche parola comune, come 'e' o 'il' o 'ma'; usa unaparafrasi.
(b) Evita di usare qualche lettera dell'alfabeto, come 't', o 's', o 'm'; usa unaparafrasi.
(c) Evita di usare i pronomi e gli aggettivi della prima persona; usa unaparafrasi.
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel pronunciare ciò che avevi giurato di evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme l'Unicorno le fauci e i denti del Leone?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.
Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche, finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche solo una parola ti esce di bocca.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.


II.

0. Il cavallo è I'Azione. Uomo, comanda la tua Azione. Come potrai altrimenti comandare il Padre, e rispondere al matto sulla porta sinistra della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare una settimana o più.
i. Evita di alzare il braccio sinistro al di sopra della vita.
ii. Evita di incrociare le gambe.
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel compiere ciò che avevigiurato di evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme il Cavallo i denti del Cammello?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche un solo gesto sfugge alle tue dita.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.


III.

0. Il Bue è il Pensiero. Uomo, comanda il tuo Pensiero! Come potrai altrimenti comandare lo Spirito Santo, e rispondere alla Sacerdotessa nella porta centrale della Corona?

1. Ecco alcune pratiche. Ciascuna può durare una settimana o più.
i. Evita di pensare ad un particolare oggetto ed a tutte le cose ad esso connesse, e fa in modo che tale oggetto sia quello che di solito occupa molto del tuo tempo, essendo frequentemente stimolato dalle percezioni dei sensi o dalla conversazione degli altri.
ii. Attraverso qualche stratagemma, come spostare un anello da un ditoall'altro, crea in te stesso due personalità, i pensieri delle quali siano completamente differenti l'una dall'altra, tenendo in comune solo le necessità vitali. (°)
Dal tuo ingegno escogitane altre.

2. In ogni occasione nella quale ti sei tradito nel pensare ciò che avevi giuratodi evitare, tagliati l'avambraccio anteriore con un rasoio; come se dovessi punire un cane disobbediente. Non teme il Bue la scudisciata del Contadino?

3. Il tuo braccio serve sia come avvertimento che come annotazione.
Scriverai i tuoi progressi quotidiani in queste pratiche, finchè sarai perfettamente vigile tutte le volte che anche solo un gesto sfugge alle tue dita.

Lega te stesso in questo modo, e sarai per sempre libero.

(°) Per esempio, si ponga A come un uomo passionale, abile nella sacra Qabalah, vegetariano, e politicamente reazionario. B come un uomo pernulla sanguigno, pensatore ascetico, occupato dal lavoro e dalla cura perla famiglia, e politicamente progressista. Che nessun pensiero proprio di
'A' nasca quando l'anello è sul dito di 'B' e viceversa.