domenica 10 agosto 2014

LEONARDO VITTORIO ARENA: La filosofia di Robert Wyatt



Un drumming che eludeva le asperità dei tempi dispari non portando il tempo, smentendo il compito primario di ogni batterista “rispettabile”… Questa voce che, durante i ’60, nelle prime band di Robert, prima dei Soft, inclinava ai contorcimenti di un Van Morrison, preso a modello delle cover nei locali da ballo, voce acerba, che Robert non ama riascoltare nei nastri. Una voce con cui non si identifica, e che è sempre cambiata, dal momento in cui ha scritto lui stesso le canzoni; il lavoro di Robert nelle cover resta ancora oggi appassionante e sentito, come nella sua struggente versione di What A Wonderful World, dove predomina questa voce malinconica, e anche gaia a tratti, dove il miscuglio tra i due sentimenti è talmente forte da non poterli distinguere. Come ricorda Nietzsche nella Gaia scienza, dove c’è un grande piacere c’è un grande dolore, e viceversa, non potendo mai darsi la loro assoluta separazione. Una voce che, anche nelle occasionali stonature live, nelle prime esecuzioni dei Soft Machine, è sempre convincente e incisiva. "Mi piace sapere come suonano le note, come sono le parole di una canzone e il modo più efficace per accostarvisi. È determinante che io non aspiri a una performance di tipo attoriale (in an actor kind of way)" [...]

tratto da: 

La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voce. (Mimesis Edizioni)

lunedì 28 luglio 2014

MICHAEL NEUMANN: Cos'è l'antisemitismo?


Ogni tanto qualche intellettuale ebreo di sinistra fa un bel respiro, ci apre il suo buon cuore e ci comunica che criticare Israele o il sionismo non vuol dire essere antisemiti. Tra sé e sé, si congratula con se stesso per il proprio coraggio. E, con un sospiro, scaccia la preoccupazione che forse non sia un bene mettere questa pericolosa informazione nelle mani dei gentili – per non parlare di quelle degli arabi.

Altre volte lo fanno invece i gentili al loro seguito,: quelli il cui ethos, se non la cui identità, aspira all’ebraicità. Per non sbilanciarsi troppo, si affrettano poi a ricordarci che l’antisemitismo va comunque preso molto sul serio. Il fatto che Israele, appoggiato da una nutrita maggioranza di ebrei, stia combattendo una guerra razziale contro i Palestinesi, è il motivo fondamentale per cui stare in guardia. Non si sa mai. Metti che ciò provochi del risentimento!
Io la vedo in modo diverso. Penso che non dovremmo quasi mai prendere l’antisemitismo sul serio e che forse dovremmo perfino riderci su. Penso che l’antisemitismo sia particolarmente irrilevante nel conflitto israelo-palestinese, se non forse come distrazione dalle questioni reali. E passo a dimostrare che quello che dico è vero e anche sensato, e certo non gratuitamente malvagio come, chessò, strappare le ali a un insetto.
“Antisemitismo”, in senso stretto, non significa odio per i semiti: questo è confondere l’etimologia con le definizioni. Antisemitismo significa odio per gli ebrei. Ma su questo, immediatamente, ci ritroviamo dinanzi al vecchio gioco delle tre carte dell’identità ebraica: “Guarda! La nostra è una religione! No! E’ un’etnia! No! E’ un’entità culturale! Scusate, è una religione!” Non appena ci stanchiamo di questo gioco veniamo subito risucchiati nell’altro: “L’antisionismo è antisemitismo!”, che un attimo dopo si alterna con: “Non confondiamo sionismo con ebraismo! Come osi, antisemita?!”
Ora, cerchiamo di essere sportivi. Proviamo a definire l’antisemitismo nel più esteso dei sensi che gli potrebbe dare un qualsiasi sostenitore di Israele: l’antisemitismo può essere odio per la razza ebraica o per la sua cultura o religione, o anche odio per il sionismo. E non solo odio, ma anche disapprovazione o opposizione o leggera antipatia.
I sostenitori di Israele, però, non troveranno questo gioco divertente come si aspettano. Gonfiare il significato di “antisemitismo” fino a includere qualunque cosa che possa danneggiare politicamente Israele è una spada a doppio taglio. Può essere comodo per colpire i propri nemici, ma il problema è che l’inflazione dei termini, come qualunque altra inflazione, svaluta la moneta. Quante più cose vengono definite antisemite, meno orribile ci suonerà l’antisemitismo. Questo perché, anche se nessuno può impedirci di gonfiare le definizioni, ciò che non possiamo fare è modificare i fatti. Nello specifico, nessuna definizione di antisemitismo potrà cancellare la versione dei fatti, sostanzialmente dalla parte dei palestinesi, che io sostengo, e che è quella sostenuta dalla maggior parte degli europei, da molti israeliani, e da un numero crescente di nordamericani.
Questo in che senso? Poniamo il caso, per esempio, che un israeliano di destra dica che le colonie rappresentano la realizzazione di aspirazioni fondamentali per il popolo ebraico, e che opporsi a esse è antisemitismo. Possiamo accettare questa affermazione, che certo è difficile da confutare. Ma non possiamo però rinunciare alla convinzione, ben fondata, che tali colonie stiano soffocando il popolo palestinese e spegnendo ogni speranza di pace. A questo punto, le acrobazie terminologiche non ci servono a niente. Possiamo solo dire: al diavolo le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, le colonie sono moralmente inaccettabili. La conclusione logica è che, visto che abbiamo il dovere di opporci alle colonie, siamo costretti a essere antisemiti. L’inflazione dei termini fa sì che alcune forme di “antisemitismo” diventino un obbligo morale.
E’ ancora peggio quando è l’antisionismo ad essere bollato come antisemita, perché le colonie, se anche non rappresentano le aspirazioni fondamentali del popolo ebraico, sono un’estensione del tutto plausibile del sionismo. Opporsi alle colonie vuol dire quindi opporsi al sionismo ed essere pertanto antisemiti nel senso ampio del termine. Più il concetto di antisemitismo viene ampliato per includere l’opposizione alle politiche di Israele, più esso appare come qualcosa di positivo. Considerati i crimini di cui deve rispondere il sionismo, ecco che appare un altro semplice sillogismo: l’antisionismo è un obbligo morale; dunque, se essere antisionisti è antisemitismo, l’antisemitismo stesso diventa un obbligo morale.
Di quali crimini parliamo? Perfino gli apologeti di Israele, in maggioranza, hanno smesso di negarli e si limitano a insinuare che farli notare è un po’ antisemita. Dopotutto, Israele “non è peggio di altri.” Primo: e allora? Anche a sei anni sapevamo che “lo fanno tutti” non era una scusante; ce lo siamo dimenticato? Secondo: i crimini sono equiparabili solo se li consideriamo indipendentemente dal loro scopo. Certo, altri popoli hanno ucciso i civili, li hanno guardati morire per mancanza di cure mediche, ne hanno demolito le case, distrutto i raccolti e li hanno usati come scudi umani. Ma Israele lo fa per correggere l’errore di Israel Zangwill che nel 1901 affermò “La Palestina è una terra senza un popolo; gli Ebrei sono un popolo senza terra”. Spera così di creare una terra totalmente svuotata dai gentili, un’Arabia deserta in cui i bambini ebrei possano ridere e giocare in mezzo a un deserto chiamato pace.
Molto prima dell’era di Hitler, i sionisti percorsero migliaia di chilometri per spogliare dei loro beni persone che non avevano mai fatto loro alcun male e di cui riuscirono a ignorare la stessa esistenza. Le atrocità dei sionisti non facevano parte del piano iniziale. Emersero man mano che l’amnesia razzista di un popolo perseguitato sfociava nell’ideologia di superiorità razziale di un popolo persecutore. Questa è la ragione per cui chi guidò gli stupri, le mutilazioni e le uccisioni di bambini a Deir Yassin sarebbe poi diventato primo ministro di Israele. Ma questi crimini non bastavano. Oggi, quando Israele potrebbe avere la pace senza pagare alcun prezzo, continua a condurre una campagna di spoliazione, rendendo la Palestina lentamente, deliberatamente, invivibile per i palestinesi e vivibile per gli ebrei. Il suo obiettivo non è la difesa o l’ordine pubblico, ma l’estinzione di un popolo. Certo, Israele è abbastanza abile nelle pubbliche relazioni da farlo con un livello di violenza americano piuttosto che hitleriano. Si tratta di un genocidio più delicato, più gentile, che dipinge come vittime chi lo compie.
Israele sta costruendo uno stato razziale, non religioso. Io, come i miei genitori, sono sempre stato ateo. Ma la mia nascita biologica mi dà diritto alla cittadinanza israeliana; voi, che magari credete fervidamente nel Giudaismo, questo diritto non lo avete. I palestinesi vengono vessati e uccisi per me, non per voi. Sono quelli il cui destino è essere spinti verso la Giordania, a morire in una guerra civile. E quindi no, sparare ai civili palestinesi non è la stessa cosa che sparare ai civili vietnamiti o ceceni. I palestinesi non sono un “danno collaterale” in una guerra contro comunisti ben armati o forze separatiste. Gli si spara perché Israele pensa che tutti i palestinesi debbano svanire o morire, così che chiunque abbia un nonno ebreo possa trasformare in lotti abitativi le macerie delle loro case. Questo non è il tragico errore di una superpotenza in abbaglio; è chiara malvagità, deliberata strategia di uno stato concepito e operante in nome di un nazionalismo etnico sempre più aggressivo. Ha al suo attivo relativamente pochi cadaveri, finora, ma le sue armi nucleari potrebbero uccidere forse venticinque milioni di persone in poche ore.
Vogliamo dire che è antisemitismo accusare non solo gli israeliani, ma gli ebrei in generale, di complicità in questi crimini contro l’umanità? Di nuovo, forse no, perché ci sono argomenti abbastanza ragionevoli a sostegno di queste affermazioni. Paragoniamole, ad esempio, con quelle per cui i tedeschi in generale furono complici di certi crimini. Questo non ha mai voluto dire che tutti i tedeschi, fino all’ultimo uomo, donna, ritardato mentale o bambino, fossero colpevoli. Vuol dire che la maggior parte dei tedeschi lo fu. La loro colpa non fu, ovviamente, quella di avere spinto prigionieri nudi dentro le camere a gas. Fu quella di avere sostenuto coloro che pianificarono quegli atti, oppure – come molti scritti ebraici soverchiamente moralistici vi diranno – quella di avere negato l’orrore che si dispiegava attorno a loro, quella di non avere parlato né resistito, il loro consenso passivo. È da notare che, in questo caso, l’estrema pericolosità di ogni forma di resistenza attiva non è considerata una scusante valida.
Ebbene, praticamente nessun ebreo corre alcun tipo di rischio se esprime dissenso. Ed esprimere dissenso è l’unica forma di resistenza necessaria. Se molti ebrei lo facessero, ne deriverebbe un effetto enorme. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei non lo fa e, nella maggior parte dei casi, non lo fa perché sostiene Israele. A questo punto, forse, dovremmo lasciar cadere l’intero concetto di responsabilità collettiva. Magari qualche persona intelligente cercherà di convincerci a farlo. Ma, al momento, la tesi di una complicità ebraica pare molto più forte di quella della complicità tedesca. Quindi, se non è razzista ed è anzi ragionevole affermare che i tedeschi sono stati complici di crimini contro l’umanità, è altrettanto non razzista e ragionevole dire lo stesso degli ebrei. E se anche il concetto di responsabilità collettiva fosse da abbandonare, sarebbe comunque ragionevole dire che molti, forse la maggior parte degli ebrei adulti, sostengono uno Stato che commette crimini di guerra, Perché è, semplicemente, la verità. Quindi, se dire queste cose è antisemita, può apparire ragionevole essere antisemiti.
In altri termini, c’è da fare una scelta. O si usa la parola “antisemitismo” adattandola alle propria agenda politica o la si usa come termine di condanna morale, ma non si possono fare entrambe le cose. Se si vuole evitare che l’antisemitismo finisca con il diventare qualcosa di ragionevole o di eticamente accettabile, esso deve essere definito in senso stretto e non strumentale. Sarebbe prudente limitare il concetto di antisemitismo all’odio esplicitamente razziale per gli ebrei, all’aggressione verso chi è semplicemente nato ebreo. Ma sarebbe una prudenza inutile: neppure i nazisti affermavano di odiare la gente solo perché era nata ebrea. Sostenevano di odiare gli ebrei perché essi aspiravano a dominare gli ariani.
Chiaramente, una visione simile deve essere considerata antisemita, sia che appartenga ai cinici razzisti che l’hanno concepita, sia agli stupidi che se la sono bevuta
C’è un solo modo per garantire che il termine “antisemitismo” includa tutte e solamente le azioni o le posizioni negative verso gli ebrei. Dobbiamo cominciare da quelle su cui siamo tutti d’accordo che lo siano, e assicurarci che il termine indichi tutte e solo quelle. Probabilmente, abbiamo in comune abbastanza senso morale da poterlo fare.
Per esempio, condividiamo abbastanza senso morale per dire che tutti gli atti e le avversioni basate sulla discriminazione razziale sono sbagliati, e possiamo quindi tranquillamente considerarli antisemiti. Ma non tutte le “ostilità verso gli ebrei” nemmeno quelle verso l’assoluta maggioranza degli ebrei, dovrebbero essere considerate antisemite. Né dovrebbe esserlo qualsiasi tipo di ostilità verso la religione o la cultura ebraica.
Io, per esempio, sono cresciuto nella cultura ebraica, e come accade a molte persone che crescono in una determinata cultura, essa ha finito con il non piacermi. Ma non ha senso considerare antisemita il fatto che non mi piaccia. E non perché io sono ebreo, ma perché la mia mancanza di apprezzamento è innocua. Forse non è innocua in assoluto: magari, in qualche sottilissima maniera, essa potrebbe in qualche modo incoraggiare qualcuno degli atti o degli atteggiamenti pericolosi che abbiamo deciso di chiamare antisemiti. Ma allora? Il filosemitismo esagerato, quello che considera tutti gli ebrei come dei santi brillanti, cordiali e intelligenti, potrebbe avere lo stesso effetto. Il mio non apprezzamento comporta pericoli infinitamente minori. Anche quando è molto diffusa, l’antipatia collettiva per una cultura è normalmente innocua. La cultura francese, per esempio, sembra essere ampiamente detestata in Nord America, ma nessuno, nemmeno i francesi, considera questo una sorta di crimine razzista.
Non tutte le azioni o gli atteggiamenti che possano recare danno agli ebrei sono da considerare antisemitismo. Molte persone disapprovano la cultura americana; alcuni boicottano i prodotti americani. Sia l’atteggiamento che l’azione potrebbero in generale recare un danno agli americani, ma non c’è niente di moralmente condannabile nell’una o nell’altra cosa. Definirli come atti di antiamericanismo significa solo che alcune forme di antiamericanismo sono perfettamente accettabili. Se l’opposizione alla politica di Israele viene chiamata antisemita, in quanto potrebbe portare qualche danno agli ebrei in generale, questo vorrà solo dire che alcune forme di antisemitismo sono ugualmente accettabili.
Se l’antisemitismo deve rimanere qualcosa di moralmente condannabile, esso deve applicarsi anche al di là delle azioni, delle idee e dei sentimenti esplicitamente razzisti. Ma non lo si può applicare al di là di un’ ostilità seria e chiaramente ingiustificata contro gli ebrei. I nazisti inventarono fantasie storiche per giustificare i propri attacchi; lo stesso fanno i moderni antisemiti che credono nei Protocolli dei Savi di Sion. Lo stesso fanno i razzisti inconfessati che si lamentano del dominio ebraico sull’economia. Questo è antisemitismo nel senso stretto e negativo della parola. Sono azioni o operazioni di propaganda pianificate per fare del male agli ebrei, non per ciò che questi possono fare o non fare ma per quello che sono. Lo stesso vale per gli atteggiamenti che questa propaganda punta a inculcare. Anche se non è sempre esplicitamente razzista, si fonda comunque su motivazioni razziste, e con l’intenzione di provocare danni reali. Un’opposizione ragionevolmente fondata alle politiche di Israele, invece, non si adatta a questa descrizione, nemmeno se offende tutti gli ebrei. Né vi si adatta la semplice e innocua antipatia per ciò che è ebraico.
Dico tutto questo per suggerire che è meglio restringere la definizione di antisemitismo, in modo che nessun atto possa essere al tempo stesso antisemita e ineccepibile. Ma possiamo andare oltre. Ora che abbiamo giocato abbastanza, poniamoci qualche domanda sul ruolo che ha “l’autentico”, deprecabile antisemitismo nel conflitto israelo-palestinese e nel mondo in generale.
Indubbiamente esiste del genuino antisemitismo nel mondo arabo: la diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion, le leggende sugli ebrei che ruberebbero il sangue dei bambini gentili. Questo è oggettivamente ingiustificabile. Ma lo è anche il fatto che hai dimenticato di rispondere all’ultima lettera di tua zia Paolina. In altri termini, dobbiamo dirci questo: che va semplicemente accettato il principio che l’antisemitismo è un male. Non farlo ci escluderebbe da un mondo etico. Ma è una cosa molto diversa dall’avere qualcuno che ci costringa a proclamare che l’antisemitismo è il Male di tutti i Mali. Non siamo bambini che devono imparare la moralità: è responsabilità nostra stabilire le nostre priorità morali. Non possiamo farlo guardando le orribili immagini del 1945, o ascoltando i lamenti angosciati di sofferenti opinionisti. Dobbiamo chiederci quanto male fa o può fare l’antisemitismo, non nel passato, ma oggi. E dobbiamo chiederci dove questo male può manifestarsi, e perché.
Si ritiene che l’antisemitismo del mondo arabo sia molto pericoloso. Ma l’antisemitismo arabo non è la causa dell’ostilità araba verso Israele o verso gli ebrei. Ne è un effetto. Il progredire dell’antisemitismo arabo va di pari passo con il progredire dell’usurpazione territoriale ebraica, e delle atrocità commesse da ebrei. Questo, non per giustificare il genuino antisemitismo. Piuttosto, per banalizzarlo. Esso è arrivato in Medio Oriente con il sionismo e scomparirà quando il sionismo cesserà di essere una minaccia espansionistica. Di fatto, la sua causa principale non è la propaganda antisemita ma gli sforzi sistematici, decennali e costanti che Israele fa per coinvolgere tutti gli ebrei nei propri crimini. Se l’antisemitismo arabo persistesse dopo il raggiungimento di un accordo di pace, potremmo tutti riunirci e deprecarlo. Ma non farebbe comunque del vero danno agli ebrei. I governi arabi avrebbero solo da perdere, permettendo attacchi contro i propri cittadini ebrei: significherebbe invitare Israele a intervenire. E ci sono davvero pochi motivi per aspettarsi che ciò accada: se tutti gli orrori delle recenti campagne israeliane non sono bastati a provocarli, è difficile immaginarsi cosa potrebbe riuscirci. Ci vorrebbe probabilmente una qualche azione israeliana così spaventosa e criminale da oltrepassare, e di molto, gli attacchi stessi.
Se c’è un posto dove è verosimile pensare che l’antisemitismo possa avere effetti terribili, questo è piuttosto l’Europa occidentale. Là, il risorgere del neofascismo è del tutto reale. Ma è un pericolo per gli ebrei? Le Pen, per esempio, è sicuramente antisemita. Ma nulla ci fa pensare che voglia mettere in pratica il suo antisemitismo. Al contrario, sta facendo ogni sforzo possibile per stare in pace con gli ebrei e forse assicurarsi addirittura il loro aiuto contro il suo vero obiettivo, gli “arabi”. Non sarebbe certo il primo politico ad allearsi con qualcuno che non gli piace. Ma se avesse davvero dei piani accuratamente nascosti contro gli ebrei, questo sì che sarebbe insolito: Hitler, come gli insorgenti russi antisemiti, erano assolutamente aperti sulle loro intenzioni, e certo non tentarono mai di accattivarsi il sostegno degli ebrei. Mentre è un fatto che che alcuni ebrei francesi vedono Le Pen come un fenomeno positivo o, addirittura, un alleato. (Si veda, per esempio, “ ‘Le Pen è un bene per noi’ dicono sostenitori ebrei”, Ha’aretz, 4 maggio 2002, e il commento di Goldenburg su France TV del 23 aprile).
Naturalmente ci sono ragioni storiche per temere un orrendo attacco contro gli ebrei. E tutto è possibile: domani stesso potrebbe esserci, a Parigi, un massacro di ebrei. O di algerini. Quale dei due è pù probabile? Se si imparano lezioni dalla storia, queste dovrebbero essere applicate a circostanze che abbiano un minimo di analogia. E l’Europa di oggi assomiglia molto poco all’Europa del 1933. Inoltre, potremmo anche vedere le cose in positivo: cosa ci fa pensare che sia più probabile vedere un pogrom piuttosto che il dissolvimento dell’antisemitismo in un’ineffettiva malevolenza? Non esiste preoccupazione sensata che non debba basarsi sull’effettiva presenza di una minaccia.
Il fatto che si verifichino aggressioni antisemite potrebbe dimostrare questa minaccia. Ma queste prove sono parecchio fumose: non viene fatta nessuna distinzione tra gli attacchi a monumenti o simboli ebraici e le effettive aggressioni contro ebrei. Inoltre, è tale l’accento posto sull’aumento della frequenza degli attacchi che non ci si rende conto della bassissima incidenza del loro livello. Gli attacchi simbolici sono effettivamente aumentati in significativi numeri assoluti. Quelli alle persone, no [*]. Soprattutto, la maggior parte di questi attacchi è compiuta da immigrati musulmani: in altre parole, da una minoranza ampiamente odiata, perseguitata e soggetta a un rigido controllo poliziesco, che non ha la minima possibilità di intraprendere una seria campagna di violenza contro gli ebrei.
Certo, è molto spiacevole che una mezza dozzina di ebrei siano finiti in ospedale – nessuno ucciso – a causa di recenti aggressioni in vari luoghi d’Europa. Ma chiunque consideri questo come uno dei problemi più importanti del mondo, semplicemente non ha guardato bene il mondo. Queste aggressioni sono di competenza della polizia, non sono una ragione per cui noi tutti dobbiamo farci poliziotti di noi stessi e degli altri, così da arginare chissà quale mortale malattia morale. Lo sarebbe solo se le aggressioni razziste avvenissero in società ostili o indifferenti alla minoranza aggredita. Chi ha davvero paura di un ritorno del nazismo, per esempio, dovrebbe riservare le proprie angoscie alle aggressioni, di gran lunga più violente e di gran lunga più diffusamente accettate, di cui sono vittime gli zingari, la cui storia da perseguitati è pienamente paragonabile al passato degli ebrei. La posizione degli ebrei è oggi molto più vicina a quella dei bianchi, che sono anch’essi, ovviamente, vittime di aggressioni a sfondo etnico.
Certo, molti rifiutano questo genere di freddo ragionamento numerico. Ci diranno che, con il passato che incombe su di noi, anche un solo insulto antisemita è una cosa terribile e che la bruttura non si può misurare dal numero di cadaveri. E tuttavia, quanto più osserviamo la cosa da un’angolatura ampia, tanto più l’antisemitismo diventa meno importante, anziché di più. Considerare qualunque spargimento di sangue ebraico come una calamità planetaria, che va al di là di ogni misura e paragone, è razzismo puro e semplice: Significa dare al sangue di una razza un valore maggiore che a quello di tutte le altre. Il fatto che gli ebrei siano stati perseguitati per secoli, e che abbiano sofferto terribilmente mezzo secolo fa, non cancella il fatto che in Europa, oggi, gli ebrei sono cittadini integrati, che hanno moltissime meno ragioni di soffrire e di avere paura di quante ne abbiano altri gruppi etnici. Certo, le aggressioni razziste contro una minoranza benestante sono tanto spregevoli quanto quelle contro minoranze povere e senza potere. Ma che degli aggressori siano ugualmente spregevoli non vuol dire che tutte le aggressioni siano altrettanto preoccupanti.
Non sono gli ebrei, oggi, quelli su cui si allungano le ombre dei campi di concentramento. I “campi di transito” proposti da Le Pen sono per gli arabi, non per gli ebrei. E per quanto vi siano partiti politicamente rappresentativi in cui militano molti antisemiti, non uno solo di questi partiti mostra di volere articolare, e tanto meno di portare avanti, un programma antisemita. Né esiste alcuna ragione di sospettare che, una volta al potere, cambieranno tono. L’Austria di Haider non è considerata pericolosa per gli ebrei; né lo era la Croazia di Tudjman. E sa anche ci fosse un tale pericolo, be’, abbiamo una potenza nucleare ebraica pronta ad accogliere qualunque rifugiato, come pure farebbero gli Stati Uniti o il Canada. E dire che non ci sono pericoli reali adesso, non significa dire che dobbiamo ignorare ogni pericolo che potrebbe sorgere in futuro. Se in Francia, per esempio, il Front National cominciasse a invocare campi di transito per gli ebrei o politiche migratorie antiebraiche, dovremmo certo allarmarci. Ma preoccuparci per ogni cosa allarmante che potrebbe appena ipoteticamente accadere è fuori luogo: ci sono cose molto più allarmanti che accadono già!
Si può replicare che, se le cose non sono più allarmanti, è solo perché gli ebrei, e altri, sono stati così vigili nel combattere l’antisemitismo. Ma questo non è plausibile. Per prima cosa, la vigilanza contro l’antisemitismo è una specie di visione a senso unico: come i neofascisti stanno imparando, per evitare di farsi notare gli basta tacere sugli ebrei. Inoltre, non ci sono stati pericoli gravi per gli ebrei nemmeno in paesi tradizionalmente antisemiti sui quali il mondo non vigila affatto, come l’Ucraina o la Croazia. Paesi ai quali si dedica pochissima attenzione non sembrano più pericolosi di quelli che ne hanno molta. Per quanto riguarda le vigorose reazioni contro Le Pen in Francia, esse sembrano essere dovute molto più alla repulsione francese verso il neofascismo che alle ramanzine della Anti-Defamation League. Supporre che le organizzazioni ebraiche e i coscienziosi opinionisti pronti a gettarsi contro l’antisemitismo stiano salvando il mondo dalla catastrofe è come affermare che Bertrand Russell e i quaccheri siano bastati a salvarci da una guerra nucleare.
Potremmo anche dire che, quali che siano i pericoli reali, essi sono comunque atroci per gli ebrei e riportano alla mente ricordi insopportabilmente dolorosi. Questo può essere vero per quei pochissimi che ancora hanno questi ricordi, ma non lo è per gli ebrei in generale. Io sono un ebreo tedesco, e potrei benissimo rivendicare il mio status di vittima di seconda generazione o di terza mano. Invece, me ne frego altamente degli accadimenti antisemiti o di un clima di crescente antisemitismo. Ho molta più paura quando mi trovo in situazioni realmente pericolose, per esempio quando guido. E comunque, anche i ricordi dolorosi e gli stati d’ansia non hanno poi tanto peso, se li paragoniamo alle autentiche sofferenze fisiche inflitte dalle discriminazioni a tanti non ebrei.
Tutto questo non è per sminuire tutto l’antisemitismo e ovunque. Si sente spesso parlare di perversi antisemiti in Polonia o in Russia, sia nelle strade che al governo. Ma, per quanto ciò possa essere preoccupante, è anche privo di ogni influenza derivante dai conflitti israelo-palestinesi, ed è decisamente improbabile che questi conflitti possano influenzarlo in un modo o nell’altro. Per di più, che io sappia, in nessun luogo c’è tanta violenza contro gli ebrei quanta ce n’è contro gli “arabi”. Quindi, se anche l’antisemitismo è, da qualche parte, una questione spaventosamente seria, possiamo solo concludere che il sentimento antiarabo è qualcosa di molto più serio. E siccome qualsiasi gruppo antisemita è anche, e in misura molto maggiore, contro l’immigrazione e contro gli arabi, essi possono essere combattuti non in nome dell’antisemitismo ma in difesa degli arabi e degli immigrati.Non vale neanche la pena di concentrarsi sulla minaccia antisemita che questi gruppi comportano, quindi. Basta combatterli in nome della giustizia per gli arabi e per i migranti.
Riassumendo, oggi il vero scandalo non è l’antisemitismo, ma l’importanza che gli si dà. Israele ha commesso crimini di guerra. Ha coinvolto gli ebrei in generale in questi crimini e, in generale, gli ebrei si sono precipitati a lasciarvisi coinvolgere. Questo ha provocato astio contro gli ebrei. Perché non avrebbe dovuto? In qualche caso questo astio è razzista, in qualche altro caso no, ma cosa importa? Perché dovremmo dedicarvi attenzione? Il fatto che la guerra etnica di Israele abbia provocato dell’aspra rabbia è più importante della guerra stessa? La remota possibilità che da qualche parte, in qualche momento, in qualche modo, questo odio possa teoricamente uccidere degli ebrei è più importante della brutale e concreta persecuzione fisica dei palestinesi e delle centinaia di migliaia di voti dati a chi vorrebbe internare gli arabi nei campi di transito? Oh, ma dimenticavo. Come non detto, ritiro tutto. Qualcuno con la bomboletta spray ha scritto degli slogan antisemiti sul muro di una sinagoga.
[*] Nemmeno la ADL o il B’nai B’rith includono gli attacchi contro Israele nel conto; parlano piuttosto di “Punti di vista insidiosi con cui viene visto il conflitto tra israeliani e palestinesi, usati dagli antisemiti” E, come molte altre persone, io non considero gli attacchi terroristici di organizzazioni come Al Qaeda come esempi di antisemitismo, ma piuttosto come delle fallimentari campagne paramilitari contro gli USA e Israele. Ma se anche le si include nel conto, non sembra particolarmente pericoloso essere ebreo al di fuori di Israele.
Michael Neumann è professore di filosofia alla Trent University, Ontario, Canada. Gli si può scrivere a: mneumann@trentu.ca

traduzione: http://www.ilcircolo.net/lia/2014/07/26/che-cose-lantisemitismo-di-nuovo/

sabato 19 luglio 2014

Scandalo appalti presso le biblioteche fiorentine



Mentre imperversano proclami di vario genere ben diversa è la reale gestione delle problematiche relative alla città di Firenze.
Di oggi la notizia di uno scandalo appalti relativo ai servizi di gestione delle biblioteche comunali.
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato a cura di Silvia Noferi, capogruppo al consiglio comunale per il M5S.

Il Comune di Firenze ha dato in appalto ad un raggruppamento temporaneo di imprese il servizio di gestione delle biblioteche e dell’archivio storico comunali tramite un bando che non ha previsto per i lavoratori la garanzia del mantenimento delle precedenti condizioni contrattuali.
I circa 70 lavoratori interessati si sono trovati a dover scegliere fra rimanere senza lavoro o accettare le condizioni offerte dai nuovi gestori, anche se peggiorative.
La paura di rimanere senza lavoro in un periodo così difficile come quello attuale ha portato 48 di loro a firmare le dimissioni volontarie (senza avere dall’altra parte un contratto pronto in sostituzione) ma alcuni, 21 per l’esattezza, resistono sorretti dalla convinzione che non si possa continuare ad accettare tutto in nome della crisi economica.
Sembra di tornare al secolo scorso, i diritti dei lavoratori vengono calpestati, le professionalità ignorate, i sacrifici chiesti sempre ai più deboli.
La cosa più intollerabile e forse più incomprensibile è che tutto questo accade all’interno di strutture comunali che, se è pur vero  che debbano risparmiare (e l’unico modo sembra ormai essere l’esternalizzazione dei servizi), dall’altra dovrebbero essere i luoghi in cui i rapporti fra dipendenti e datori di lavoro sono costruiti su modelli virtuosi.
Se non si è in grado di garantire all’interno del Comune di Firenze quel senso di giustizia ed equità che dovrebbe essere base imprescindibile di ogni contratto di lavoro, cosa dobbiamo aspettarci, come cittadini e dipendenti, da altri “luoghi” e altri datori di lavoro?
Non basta rifugiarsi dietro al sottile paravento “dell’aver fatto tutto il possibile” o “di non essere legalmente parte in causa”. Non ci possono essere giustificazioni per un’amministrazione  che decide di avvalersi di soggetti terzi per la gestione dei servizi pubblici di una comunità: il dovere in questo caso è anche e soprattutto morale, il dovere di tutela dei diritti dei singoli che non può sottostare alle leggi del mercato o della convenienza.
Perché in caso contrario la scelta di affidare a terzi un servizio potrebbe sembrare un pretesto per disinteressarsi della parte etica e morale. Cercare di evitare i caduti facendo un maggior numero di feriti senza cure garantite non è, a volte, la soluzione.
Non entriamo nel merito di quanto possa sentirsi demotivato un lavoratore che dopo 17 anni di precariato si veda  costretto a vivere sotto ricatto, a subire continui tagli allo stipendio, declassamenti del proprio livello, perdita di ogni riconoscimento sulla qualità del servizio prestato, ma proviamo lo stesso, per un attimo, a pensare con quanta voglia di collaborare possa svolgere il suo compito.
La dignità non può diventare merce di scambio, non può essere quel “punto” in più per vincere un appalto mentre sotto lo stesso tetto comunale si decide di nominare tre Direttori di Macro-area in aiuto alla Direzione Generale (prospetto della nuova organizzazione presentato oggi in Consiglio Comunale).
C’è qualcosa che stride in tutto questo, domande che ronzano nella testa:
- “Quanto guadagneranno all’anno questi tre Direttori?”
- “Non bastavano 12 Direttori ad aiutare la Direzione Generale?”

Mentre i tempi della politica procedono con lentezza esasperante fra ordini del giorno e slides, i diritti dei lavoratori diventano quasi un vezzo, un dettaglio e non solo per chi un lavoro non ce l’ha più e per chi lo prenderebbe a qualsiasi condizione.
Si rischia quasi di passare come dei pretenziosi, degli incontentabili da parte dei rappresentanti della politica, di quella politica che un tempo molto lontano aveva l’Internazionale fra i suoi inni.


giovedì 19 giugno 2014

lunedì 16 giugno 2014

ANTONIO CIPOLLETTA: La comunicazione al tempo del social




Sin dagli albori della civiltà l'uomo,animale politico-comunitario,razionale e normativo per eccellenza, ha sempre nutrito l'esigenza di manifestare il proprio pensiero all'altro , che potesse essere o "prossimo" nell'accezione cristiana della persona più vicina che ascolta e recepisce le idee altrui accogliendo queste ed il suo concepitore nella grande famiglia del genere umano universalisticamente inteso;oppure che (potesse) essere un semplice interlocutore cui rivolgere la parola al fine di confrontarsi con questi e preservare il dialogo instaurato con incontri costanti e costruttivi.
A ben riflettere, l'attività comunicativa è contemporaneamente semplice e estremamente complessa, in quanto è facile riportare liberamente la propria opinione senza che questa sia oggetto di silenziamento o non considerazione ma, allo stesso tempo-ecco-risulta essere molto difficile avviare la comunicazione con un proprio pari se questi è restio ad intraprenderla realmente pensando che ciò che da esprimere sia di gran lunga superiore rispetto alle nostre riflessioni(infatti, come sostiene l'antico adagio latino:"contra negantem principia non est disputandum").
Trasferendoci idealmente e cronologicamente nell'antichità classica,assumendo come modello la Grecia delle poleis dove la Filosofia e la Comunità fungevano da poteri frenanti(in greco katechon) rispetto alla sfrenatezza dei costumi ed alla metafisica dell'illimitatezza, basti pensare al ruolo forte ed essenziale ricoperto dal dialogo, attività che pone in relazione due soggetti conoscenti che, spassionatamente, danno vita ad un intercambio di cambio e, operando in tal modo, consentono alla fiamma della conoscenza di divampare, come ebbe a sostenere il primo è più grande allievo del maestro Socrate, il filosofo idealista Platone che, proprio grazie a quello che è divenuto un anche un genere letterario . è riuscito a riscuotere enorme successo non soltanto presso il pubblico ateniese del suo tempo ma anche e soprattutto presso il pubblico di lettori postmoderni-contemporanei.
Dopo questa brevissima allusione al mondo antico, si può ritornare al tempo di cui siamo abitatori, in cui la comunicazione globale sta andando incontro ad un duplice e progressivo processo di massima evoluzione e diversificazione da un lato(sistemi di messaggistica istantanea, social networks, telefonia, mass-media) consentendo, dunque, alla quasi totalità degli oltre sei miliardi di abitanti della Terra di poter sfruttare le nuove tecnologie digitali e, in questo modo, tenere aperte più finestre sul mondo, intraprendendo la conoscenza di centinaia di "amici" virtuali" e non senza aver bisogno necessariamente di avere il piacere immenso di sentire la loro voce dal vivo;dall'altro, parliamo di un dinamica di svuotamento integrale di senso, declino e  compressione entro l'angusto spazio della virtualità-complemento immancabile della "società liquida"(Bauman), in cui nulla è stabile ma tutto è precario, proprio come il moto dei liquidi o di lettere scritte sulla sabbia.
Forse, è questo il fenomeno sociale più inquietante degli ultimi dieci anni, periodo a partire dal quale le relazioni socio-umane sono letteralmente scadute a causa dei nostri frenetici stili di vita(in questo il cosiddetto "American way of life" ha influito enormemente), della tecnologia avanzatissima e della velocizzazione dei ritmi che c'impediscono di possedere il tempo necessario per poter dialogare con l'altro;difatti, è necessario riconoscera dialetticamente la perfetta connessione tra identità individuale ed alterità, concependo l'altro, appunto, come elemento imprescindibile e complementare per la nostra stessa esistenza.

In conclusione, quindi, si può affermare che al giorno d'oggi , occorre più che mai correre ai ripari , proponendo un valido modello di autentici rapporti umani fondati sul dialogo , in cui due o più partecipanti siano disposti ad accettarsi vicendevolmente, a mostrarsi sinceramente, a manifestare la propria essenza comunitaria , cooperativa e solidale, non precipitando irrimediabilmente nella trappola assai opprimente del relativismo nichilistico,dell'atomismo sociale e dell'ideologia differenzialistica che oppone uomo e donna,vere e proprie forme di negazione integrale di quel dialogo veritativo , libero, critico ed autentico che la Filosofia e, forse ancor di più la religione, possono offrire agli attori umani che, nel loro avvicinamento e nella forte cultura dell'incontro, possono concorrere alla trasformazione radicale, prassistica se si vuole, dell'esistente e, di conseguenza, al dispiegamento di quelle potenzialità ontologiche che l'Uomo possiede in quanto "zoon politikón"(Aristotele) e "essere sociale"(Lukács).

giovedì 12 giugno 2014

GABRIELE REPACI: De Benoist e la mondializzazione



Che cos’è la mondializzazione? E’ un fenomeno ineluttabile oppure si tratta di qualcosa di reversibile? L’unificazione monetaria europea è stata vantaggiosa per i popoli del Vecchio Continente o al contrario li ha immiseriti? A questi quesiti tenta di dare una risposta Alain De Benoist nel suo ultimo libro La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, Arianna Editrice, p. 128. In quest’opera che si pone come completamento del suo precedente volume Sull’orlo del Baratro il pensatore francese analizza le cause della depressione che sta colpendo l’economia europea le quali vanno ricercate in una crisi generale del capitalismo globalizzato affermatosi in tutto il mondo a partire dalla caduta del muro di Berlino e la fine degli ultimi stati socialisti. Quella che sta affrontando l’Europa spiega De Benoist non è una semplice recessione economica ma una vera e propria perdita della sua sovranità. In passato infatti  il potere dei singoli stati nazione poggiava su alcuni principi fondamentali: la sovranità economica, quella militare ed infine quella culturale. La prima è stata eliminata attraverso la liberalizzazione dei mercati finanziari che ha reso impossibile alle autorità politiche di influire sulle decisioni di natura economica. Se esse prendessero misure controcorrente come la nazionalizzazione del sistema creditizio e delle leve fondamentali dell’economia indurrebbero gli investitori stranieri a portare i propri capitali altrove provocando il collasso economico del paese.
Attraverso la NATO e le molteplici basi militari americane sparse per il proprio territorio l’Europa non gode più, almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, di una sovranità politico-militare.
Per ciò che riguarda l’aspetto culturale la globalizzazione non ha fatto altro che accelerare il processo di americanizzazione dell’Europa. La lingua inglese in alcuni paesi, soprattutto in quelli Scandinavi, è parlata più dell’idioma nazionale. Attraverso i film di Hollywood o programmi televisivi come MTV  gli Stati Uniti hanno plasmato il nostro modo di fare erodendo pian piano gli usi e i costumi dei popoli europei.
Che fare allora? Nel suo libro De Benoist abbozza un programma che egli definisce di «demondializzazione» il quale consiste a detta dell’autore nell’applicazione di un protezionismo su scala europea, nel ritorno concordato alle singole monete nazionali, nella statalizzazione delle banche (accompagnata dalla creazione di un credito socializzato), nella tassazione delle transazione finanziarie, nel far scomparire i paradisi fiscali e nell’annullamento del debito. Ma quali forze politiche attualmente potrebbero farsi carico di un tale programma? Non certo le destra che ormai ha interiorizzato a livello ideologico i dettami neoliberisti, ma nemmeno la sinistra neanche quella radicale. Quest’ultima infatti pur opponendosi al liberalismo economico ne difende quello societario che è alla base del primo. Confondendo il protezionismo con l’autarchia essa difende la libera circolazione dei capitali.
Per questo motivo categorie come destra e sinistra secondo De Benoist vanno superate per dare vita a nuove sintesi in grado di comprendere la realtà contemporanea.
L’odierno capitalismo infatti non è né di destra né di sinistra o meglio è sia di destra che di sinistra. E’ di destra nell’economia ma è a sinistra nel costume. Criticarne l’aspetto meramente economico senza mettere in discussione quello sociologico  è un po’ come pensare che la febbre sia la causa della malattia.
Al contrario di quanto sostengono gli odierni riformisti non esiste alcuna possibilità di trasformare l’attuale U.E. in una confederazione solidale di popoli, in quanto essa sta svolgendo benissimo il compito per la quale è stata fondata ovvero eliminare l’«eccezione europea», basata su un modello misto di capitalismo stato-mercato, ed integrare pienamente l’economie dei paesi membri nel modello americano fondato sul liberismo selvaggio.
Privando gli stati dell’arma della svalutazione monetaria per rilanciare l’economia, l’Unione Europea costringe le nazioni facenti parte dell’area euro ad una politica deflazionistica messa in pratica attraverso una pressione al ribasso sui salari la quale non può altro che avere effetti negativi sulla domanda interna.  I teorici dell’austerità hanno spesso controbattuto a tale affermazione argomentando che gli introiti derivanti da una crescita alimentata dall’esportazioni compenserebbe la caduta della domanda aggregata. Tuttavia il proposito di trasformare l’Europa in una «grande Germania», ovvero un enorme macchina produttiva trainata dal commercio estero è destinata a fallire. Storicamente tale strategia ha funzionato solamente attraverso un potente «motore» della domanda effettiva che nel caso di Berlino sono stati paesi della periferia europea. Ma se anche questi ultimi iniziano a portare avanti una politica di moderazione salariale e tagli alla spesa pubblica allora l’intero continente andrà incontro a una recessione dagli effetti potenzialmente devastanti.  
Personalmente lo scrivente non si trova d’accordo con l’affermazione del giornalista Marcello Veneziani secondo il quale  il rischio della proposta di De Benoist «è che, alla fine, alla dittatura della tecno-finanza resti a opporsi solo la rozza demagogia dei populismi che sanno inveire e demolire, ma non saprebbero poi come costruire e selezionare» (cfr. Marcello Veneziani, Idee forti per abbattere la monarchia finanziaria, Il Giornale, 26 maggio 2014).
Al contrario a mio parere la demagogia e il populismo prosperano proprio laddove il potere politico mostra la propria vulnerabilità. Quando le istituzioni si mostrano deboli ed incapaci di affrontare l’influenza dell’economia sulla vita pubblica si creano le condizioni affinché le masse popolari seguano i progetti di leader megalomani e folli. La triste parabola della Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo ne sono un esempio. Al contrario di quanto è comunemente pensato infatti a spianare la strada a Hitler non fu l’iperinflazione degli anni venti, bensì la politica monetaria e fiscale iper-restrittiva  del cancelliere Brüning.
Lo stesso discorso lo si potrebbe applicare al Movimento 5 Stelle in Italia. Il successo di Grillo è da addebitare integralmente ad una classe politica corrotta ed incapace di dare risposte ai bisogni del paese.

Si tratta di una frase molto attuale sulla quale i politici del nostro continente dovrebbero riflettere attentamente. 

mercoledì 11 giugno 2014

LEONARDO VITTORIO ARENA: La filosofia di David Sylvian



LEONARDO VITTORIO ARENA "LA FILOSOFIA DI DAVID SYLVIAN" (Mimesis Edizioni) In una intervista del 2007, chiesi a Sylvian se creava meglio in compagnia o da solo, prevedendo la risposta, come quando Gadamer dice che il docente esamina lo studente con domande dalla risposta prevedibile, che egli sa in anticipo…Su un piano ermeneutico ciò è inevitabilmente fallace. Più che la risposta di Sylvian, mi preme mostrare ciò che ha fatto dopo, il non detto: già incamminatosi su Blemish, un’onda che molti fan non perdonarono, si dibatté in un percorso ancora più solitario, verso Manafon, sovrapponendo la voce a un concerto di improvvisatori professionisti, il leader Evan Parker, come a dire: “Non voglio dire lo scontato, giudicatemi, come dalla Bibbia, dalle azioni, non dalle parole, queste non sono quelle, e viceversa: ascoltate, sono un cantante, non un fi losofo”. Non lo confessò, ma ne covava in sé il sentimento, lo sviluppo in questa direzione, e sorrise, probabilmente, all’interrogativo; in una intervista sul confl itto interiore, non ancora divenuto uno stato d’emergenza, diff uso e generalizzato… In World Citizen disse a tutti di aver bisogno di una seconda pelle: una seconda chance?, e concluse la canzone con un accorato appello... Il mio incontro con Sylvian avvenne quando disperavo di trovare, non dico un alter ego musicale, quanto una identità musicale, io che mi ero posto il dilemma insolubile, tra studiare da fi losofo o da musicista, al bivio di una carriera in embrione. Optai per la prima alternativa, ma ignoravo che fosse una decisione risolutiva, un aut aut, il musicale mi tentava, non meno che il fi losofi co da cui non sapevo distaccarmi. Non ho mai cercato nella musica una dimensione solo musicale, bensì alchemica, e nei testi e nella vita degli artisti dei ’70 scorsi una fi losofi a più solida di quella delle Accademie, un marxismo onnipresente, onnivoro e onninglobante, da alveo universitario, della specie di cui Lacan denuncia la lettera, dicendo uni-vers-se-taire, e accentuando il verbo… La fi losofi a era per me il mondo science-fi ctonal e spettrale dei Van der Graaf Generator, il ritorno sublime al Medioevo dei primi King Crimson, o le scorribande evanescenti dei Soft Machine, Robert Wyatt in primis, ai limiti del tonale, l’uscita refrigerante dall’angustia del ritmo quaternario: nel 9/4 o negli 11/16, meglio in sovrapposizioni poliritmiche, si ravvisavano mondi inesplorati, si apriva la fi nestra, con cambiamenti d’aria che solo Nietzsche, nel fi losofi co, o i maestri Zen sapevano promettere. Senza deludere. “Non sarò deluso” – la mia dizione della frase rientrava in questa prospettiva, o non era una prospettiva… Grazie a Nietzsche e allo Zen un mutamento di rotta, ma pure il profi larsi dell’alternativa: musica o fi losofi a? Che non poteva tradursi in musica e fi losofi a, una congiunzione sterile, che relegava al puer aeternus, una attività ludica non protraibile nell’età adulta. E poi la stasi, dovuta alla laurea, la carriera universitaria, il graduale distacco dalle esibizioni nelle sale da ballo, dai concerti… Il decennio successivo mi fece capire che il fi losofi co, a diff erenza che in India, è separato dal musicale, molto più che i mondi lontanissimi del poetico e del fi losofi co, che Heidegger descrive. Il musicale languiva in una sfera sepolta di una mente abbeveratasi a Nietzsche, appunto, e al buddismo Chan/Zen, non mai quello liturgico, che esauriva le sue risorse nel momento stesso in cui predicava. La venuta di Sylvian fu a dir poco salutare, con il suo distacco dai Japan, dove aveva esordito, non la vidi come una scissione, avendolo conosciuto all’incirca all’epoca di Brilliant Trees, che fu per lui e anche un po’ per me una epifania…Nel lugubre panorama degli ’80 c’era insomma qualcosa, ma non cui appoggiarsi, attaccarsi, per l’ennesima Weltanschauung di turno, e dire: “Ecco, la musica è viva, si ode ancora, nella natura, in noi, deborda dallo stereo, il CD non è esangue, uno strumento perfetto quindi inane…” Un panorama che già i Police o i Talking Heads avevano tentato di scalfi re, per me, lo sentii così, e con Sylvian si profi lava meglio, dai contorni più accesi, vitali, tanto da farmi confessare, non senza una punta di esagerazione, agli amici anni dopo: “Ciò che Dylan è stato per i ’60 è ora Sylvian!”. Anche nell’iperbole c’era qualcosa di fondato, e non nascondo che, come per i grandi dei ’60 e dei ’70, il suono di Sylvian all’inizio mi suonava ostico, le sue sequenze di accordi avventate o indecifrabili, la melodia dispersiva, pur riconoscibile...

giovedì 5 giugno 2014

Nigel Farage è il figlio di Hitler e Satana!


Io fino a qualche giorno fa avevo sentito parlare pochissimo di Nigel Farage (o FaraNge, la metà dei quotidiani non azzecca nemmeno il nome), e come tanti non avevo un’opinione su di lui. All’inizio volutamente non mi sono documentato perché:
1) avevo altro da fare
2) volevo osservare come venisse "creato" il personaggio dai media e dagli opinionisti di sinistra - soprattutto in chiave antigrillista.
La prima cosa che ho notato è il gioco sporco di Repubblica, che riprende il piccolo blog di un attivista di sinistra parecchio stereotipico  - uno che fa teatro sperimentale, ogni tre parole ci infila "migrante" e sicuramente userà l’asterisco al posto del suffisso di genere. L’articolo è un collage di dichiarazioni di Farage fuori contesto, tradotte a cazzo o di espulsi dal partito. Classico stile Repubblica. La domanda però sorge spontanea: ma se si parla del figlio segreto di Hitler e Satana non dovrebbe essere palese? Se si utilizza come fonte un bloggetto scrauso e frasi riprese qua e là non è losco? Ovvia a questo punto la strategia di demonizzazione (doppia: di Grillo e di Farage). Il pubblico italiano non lo conosce, e gli elettori di Sinistra
Poi ho letto le reazioni dei grillini (in questi giorni di ponte lungo su FB erano gli unici a discutere): su FB e sui forum si è aperto un dibattito sull’appoggio a Farage e le giustificazioni dello stesso Grillo. C’è chi è fedele alla linea, da bravo stereotipo del grillino adepto della setta, e chi argomenta a favore di una alleanza pragmatica. Quelli contrari hanno paura di come verranno percepiti dagli elettori (e trattati dalla Comunicazione di Sinistra) e parlano di Farage come un "turboliberista", "neoliberista" e ultraliberista", che sono superlativi che stanno per "liberista" e preferirebbero allearsi coi verdi. Giustamente dal loro punto di vista, per carità, ma generalmente chi parla di "turboliberismo" non sa di cosa stia parlando.
A questo punto sono andato a documentarmi, mi sono fatto un’idea: Farage è un personaggio controverso ma non certo un demone. Un troll, un antieuropeista e un nazionalista. Ha suscitato parecchie polemiche ma alcune sue tesi per quanto mi riguarda sono condivisibili (ad esempio è antiproibizionista).
Ognuno comunque è libero di di pensarne quello che vuole, ma fa impressione il conformismo degli elettori di sinistra: praticamente nessuno si sarà documentato, sulla rete è girata la pappa pronta di Repubblica e gli slogan ripetuti ossessivamente a sinistra ("è un pazzo neolibberista, è il Diavolo") e tanto basta. (come se il sistema attuale - tutele solo a chi ha un lavoro dipendente) funzionasse. Ma questo è un altro discorso, che un elettore della lista Tsipras o la salma rivitalizzata di Imposimato non potrebbe o vorrebbe comprendere temo).
Fa abbastanza paura il conformismo delle masse di sinistra e la facilità con cui venga manipolato, e sia facile creare un nemico e demonizzarlo, aldilà di Grillo e di cosa si possa pensare di Farage). Impressionante notare come le stesse accuse di "neo-liberismo sfrenato" e "fascista" venissero rivolte anche a Renzi, anche se adesso che è al Potere questi attacchi si sono fatti sempre più sparuti. Paradossale poi che l’elettorato di sinistra creda di essere immune da queste tecniche manipolatorie, che pensa riguardino solo i grillini e berlusconiani. D’altra parte i militanti di partito si somigliano parecchio, ma i post di analisi di comunicazione riguardano soltanto i grillini (probabilmente perché hanno parecchio successo e sono relativamente facili da scrivere: Più o meno dicono tutti le stesse cose, peraltro abbastanza evidenti - e perciò comprensibili - a chiunque. Chiunque non sia un militante intendo.)
P.S. Suggerisco questo articolo dell’Huff Post Italia (che si "redime" dopo il post furbetto e gli articoli fangosi) per formarsi un’opinione, in cui l’autore critica pesantemente Farage senza demonizzarlo o dargli del "turbolibberista"

fonte: http://www.linkiesta.it/blogs/web-factory/nigel-farange-e-il-figlio-segreto-di-hitler-e-satana

MARIO COLELLA: Marco Ciriello e il grande dolore



MARCO CIRIELLO "PER FAVORE NON DITE NIENTE" (Ed. Chiarelettere)

« La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi » (Giacomo Leopardi) «Non ho paura del foglio bianco né del numero di righe da tenere, io ho solo paura della morte, sempre. Per questo scrivo: per non morire » (Marco Ciriello) _______ “Tutto passa ma tutto rimane”, scriveva Pavel Florenskij, in una delle sue più belle lettere dal lager delle isole Solovki. Ma non ditelo al protagonista dell’ultimo libro di Marco Ciriello, classe 1975, scrittore e giornalista avellinese (suoi pezzi su Il Mattino, La Repubblica Donne, Il Foglio). Soprattutto non osate profferire queste parole a chi ha perduto la propria amata, nel suo momento più doloroso, quello del congedo. Si è immersi, allora, in una sofferenza disumana, che “non serve a niente” o che comunque in quel momento non può essere capita, elaborata razionalmente, può essere solo vissuta. Quando il dolore di una perdita, di quella fondamentale, del proprio amore, è così fresco, nulla appare sanabile, recuperabile, reversibile, se non sotto la forma del ricordo che chi vive quella perdita cerca di tutelare. Le parole non servono: devi seguire il tuo Calvario. Trovo questo libro appena uscito per Chiarelettere negli scaffali dello sport, accanto alla terribile autobiografia di Walter Mazzarri e al vecchio must giustizialista “Il calcio alla sbarra” della coppia Beha e Di Caro. Ma, sebbene la striscetta che lo accompagna dice sia ispirato alla storia di Cesare Prandelli, col calcio c’entra relativamente. Mentre ha a che fare con la morte (e l’amore). E nel gioco la possibilità di rifarsi c’è, nella vita “si gioca una volta sola e la sua durata non è nota”. Amore e morte, perdita e dolore sono i pozzi dove “Per favore non dite niente” chiede di immergerti, senza farti troppe domande, ascoltando, osservando un percorso, rispettosamente. Di più dei ragionamenti dice lo stupore, quello che accompagna nella sua discesa agli inferi l’allenatore ed ex calciatore che Ciriello ha scelto come maschera e che il romanzo cerca di trasmettere al lettore. Questo libro è stato investito da alcune polemiche, la casa editrice e lo scrittore sono stati diffidati dalla FIGC, per il presunto danno che ne deriverebbe alla figura del c.t. della nazionale alla cui storia sembra ispirarsi – Prandelli perse la moglie, Manuela, nel 2007, sconfitta dal cancro dopo alcuni anni di lotta che videro il tecnico di Orzinuovi lasciare la panchina della Roma per starle accanto. Ma sorvoliamo su questo aspetto e sulle conseguenti riflessioni che ne scaturirebbero (innanzitutto sul potere in Italia). Non so, non credo che Marco, l’allenatore del libro, sia in tutto e per tutto Prandelli. Non credo che l’uomo narrato da Ciriello avrebbe reagito così (cioè: facendo procedere i legali della FIGC) ad un romanzo così delicato e rispettoso dei sentimenti (di quelli che Prandelli deve aver indubbiamente provato). In ogni caso, l’autore ha ben chiarito che l’intento biografico è lontano anni luce dal suo modo di intendere la letteratura, il compito che essa ricopre, richiamando Balzac: «mandare in corto circuito la realtà del lettore, fino a portarlo a quella che potremmo chiamare “soglia Balzac”, da una affermazione dello scrittore: “un romanzo deve essere una cosa inaudita”». In un gioco di feedback che questo romanzo innesca, che ad alcuni ha ricordato i romanzi russi, mi viene in mente un’altra storia di dolore e sacrificio, certo assai diversa, quella dell’apocalittico “La strada” di Cormac McCarthy. Magari all’autore non sarà gradito l’accostamento, oppure no, ma anche qui è percepibile come il percorso dell’uomo sia connotato dal sacrificio nonché dalla necessità di prosecuzione di un cammino nel mondo. “Quale il colore del dolore? E’ davvero il nero come dicono?”, chiede il protagonista di un altro capolavoro di McCarthy, “Sutree”. Il Marco del romanzo di Ciriello risponderebbe probabilmente che il dolore non ha colore, per chi lo vive nella perdita del proprio amore, quanto l’assurdo, l’insensato, il vuoto. Ma se esso è inutile, è pur vero che “il senso dell'utile e dell'inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l'elemento diabolico della vita”, come recita la citazione riportata sotto il titolo (che è di Salvatore Satta). Non resta allora che viverla, questa sofferenza, come fa Marco, sprofondando in essa, da uomo libero. Ché la libertà non è il capriccio dei moderni quanto il pasoliniano “vivere nelle cose”, l’apertura all’ignoto che costringe al nomadismo, al viaggio in spazi non nostri, alla contemplazione del tormento che fa tacere gli idoli, per rendere quell’assenza, infine, presenza.

martedì 3 giugno 2014

MORENO PASQUINELLI: Quella contro l'Euro è una battaglia di sinistra (VIDEO)



Moreno Pasquinelli del Coordinamento Sinistra Contro l'Euro spiega cosa si intende per "uscita da sinistra" dalla eurozona e rivendica il senso democratico e popolare di questa battaglia.

LINK AL VIDEO

Si ringrazia Bottega Partigiana per la diffusione