Molte volte, in questi primi undici anni senza Giorgio Gaber, mi è capitato di sentirmi “orfano”, di
chiedermi senza risposte come il Signor G. avrebbe commentato o interpretato un
avvenimento, una moda, una tipologia umana del nostro Paese, nel frattempo
sempre più vuoto di lampi e intuizioni… “Un condominio di piattume e piattole”,
come ebbe a commentare un altro “irregolare” prematuramente scomparso, Carmelo
Bene. Le ragioni di questo reale senso di mancanza, credo, siano le stesse che
ancora oggi animano specularmene coloro che Gaber non l’hanno mai digerito sino
in fondo; un senso questo di “disarmonia” tangibile persino nella ebete
atmosfera celebrativa del decennale della scomparsa, nel quale capita di
imbattersi in voci e pareri discordanti. Un bene, si capisce, ma è pur vero che
in questo paese siamo oramai abituati a consensi ben più unanimi!
Sto parlando del fatto che
l’artista milanese è stato uno dei pochissimi nell’Italia del dopoguerra capace
di enucleare un pensiero “solido”, ammirabile non tanto per il risultato finale
quanto per il rigoroso processo mentale che ad esso ha condotto… Ecco forse
dove sta la mancata comprensione di tanti brani o monologhi gaberiani: si è
troppo volte scambiato per nichilismo o qualunquismo una posizione che in
realtà sta all’opposto delle false certezze di qualsiasi provenienza e che è
definibile come peculiare “filosofia del dubbio”. Giorgio Gaber non ha mai
inteso offrire una interpretazione “chiavi in mano” del mondo e della società,
ma piuttosto invitare a non fermarsi mai alla prima superficiale e consolatoria
interpretazione. Egli ha sfidato se stesso e noi ascoltatori instillando un
dubbio continuo ed al contempo curandoci (l’idea di “nuovo umanesimo” che
traspare dalle canzoni di quello che è stato il suo ultimo album è un lascito
importantissimo su cui riflettere), facendoci incazzare (è capitato anche a me quando,
in “ La natura” l’ho sentito esclamare che “la natura fa schifo”) e soprattutto
provocandoci. Ma cosa è poi la provocazione in Gaber? Anche qui siamo ben
lontani dall’estetismo nichilistico di chi ama troppo guardarsi l’ombelico e ci
troviamo di fronte ad una sorta di materializzazione del dubbio con effetti
assolutamente costruttivi. Non è mai importante essere d’accordo, ma è
essenziale capire l’assoluta sincerità del processo del pensiero che sottostà
al “prodotto” finale… Pensiamo allora ad un brano come “Il dilemma”: se fosse
provenuto dalla bocca di chiunque altro questa apparente, banale, lode della
fedeltà tra uomo e donna avrebbe potuto comprensibilmente esser bollata come tardiva
adesione ai valori borghesi, addirittura una stanca e stizzita provocazione reazionaria
nei confronti dei Cooper, dei Laing, di chi ha voluto smantellare il ruolo
repressivo della istituzione famigliare, se non fosse però che il vero senso
della canzone sta semmai nella volontà di edificazione di una libertà vera, che
in quanto tale non è mai pura assenza di vincoli. Unicamente se si è fedeli (a
noi stessi, innanzitutto), ci canta Gaber, si può essere liberi!
Di fronte al corpus artistico del
cantante-attore meneghino conviene dunque sempre fermarsi un attimo prima di
trarre conclusioni! Ad aiutarci in questo sforzo di comprensione profonda, provvidenziale,
arriva in libreria “Vi racconto Gaber” (Mondadori) un bel volume scritto da
Sandro Luporini, per oltre trenta anni stretto collaboratore del Signor G., e
che tanta parte ha avuto nella creazione della ipotesi del “Teatro Canzone”,
quella introvabile forma ibrida che i due scherzosamente chiamavano “il
bastardone”! Luporini infatti afferma, con nettezza programmatica, che il
“Teatro Canzone” è stato animato da un’unica, fissa, certezza, quella del
dubbio… “Vi racconto Gaber” è un testo importante, che si fa preferire alle
molte biografie gaberiane comparse in commercio negli ultimi anni, perché in
maniera attendibile riesce ad andare a ritroso, alle radici del processo
creativo da cui sono nati brani e monologhi indimenticati. Lungi dall’essere un
“amarcord” (a ben vedere in queste pagine è Luporini, giustamente, il vero
protagonista) questo libro non sfamerà la fame di aneddoti del lettore medio,
ma, sono certo, aiuterà ad apprezzare ancora di più la complessità del lavoro,
davvero senza paragoni, di questi due artisti. Ammirevole poi lo sforzo (che
rivela forti affinità con Cèline) di trovare un escamotage di tipo narrativo
per ripercorrere il proprio lavoro passato: Luporini, in una sorta di
allucinato monologo, immagina di rivolgersi ad un immaginario laureando,
Lorenzo, intento a scrivere una tesi su Giorgio Gaber. Questo consente, oltre
che di sfuggire al rischio incombente di autoreferenzialità, di alternare in
maniera convincente riflessioni profonde, excursus estemporanei, ricordi
affettuosi, senza però mai scadere nella morbosità tipica dell’“io c’ero!”, che
di solito prevale in queste occasioni. Luporini riprende le fila, in maniera
autorevole, di una vicenda artistica ancora tutta da studiare. Se è vero che il
“Teatro Canzone” gaberiano ha sempre inteso interpretare il proprio tempo,
creando una sorta di “controcanto” alle vicende della stretta contemporaneità,
appare sempre più evidente che certi brani di Gaber colpiscono oggi per la loro
qualità quasi profetica. Chissà dunque se il Signor G. riuscirà ad aiutarci a
coltivare i giusti dubbi ancora per molti e molti anni a venire… Sicuramente ne
abbiamo molto bisogno!
fonte: Altri, febbraio 2013
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