Intervista a cura di: Osvaldo Migotto
Nel vostro libro rimproverate a Giorgio Napolitano di essere intervenuto nella vita politica italiana ben oltre i limiti fissati dalla Costituzione. Nel caso della mancata nomina del nuovo capo dello Stato da parte del Parlamento, Napolitano non ha mostrato senso di responsabilità mettendosi a disposizione per un altro mandato?
«Non giudichiamo le intenzioni di Napolitano ma alcune prassi irrituali. Dopo le dimissioni di Berlusconi il capo dello Stato ha persuaso destra e sinistra a sostenere il tecnocrate Monti; con il pareggio elettorale dell’anno scorso ha inventato una sorta di pre-incarico collettivo, delegando a dieci saggi la stesura di una bozza di riforme istituzionali che creasse le condizioni per le ampie intese. Napolitano ha accettato il secondo mandato per l’assenza di un candidato unitario al sesto scrutinio. Si sarebbe potuto proseguire come avvenuto in passato (il socialdemocratico Giuseppe Saragat nel 1964 fu eletto alla 21.esima votazione), con nuovi candidati opposti al costituzionalista Stefano Rodotà indicato dal M5S».
Matteo Renzi vuole rappresentare il nuovo che avanza, ma così nuovo, considerati gli anni di militanza politica anche in altri schieramenti, non è. Un più rapido ricambio della classe politica potrebbe portare dei benefici al Paese?
«È il punto cruciale. Renzi è giovane anagraficamente ma neppure le moderne tecniche di comunicazione possono celare il suo tatticismo doroteo. Vedremo se manderà in pensione i dirigenti ex comunisti e democristiani che sono in politica da un trentennio benchè corresponsabili di una vera e propria degenerazione morale: accordi occulti con l’avversario Berlusconi, corruzione e inquinamento, commistione tra pubblico e privato, partito e banche. È come se la sinistra avesse sacrificato la Weltanschauung sull’altare del potere».
Visto quanto avvenuto in altri Paesi europei, si può dire che la metamorfosi della sinistra rappresenti un percorso obbligato. In cosa si differenzia il percorso compiuto dalla sinistra italiana, rispetto alle socialdemocrazie europee?
«Le socialdemocrazie europee hanno subìto l’influenza del liberismo e i dogmi dell’austerity. A differenza dell’Italia, però, la Francia ha sforato unilateralmente i vincoli UE sul rapporto deficit/PIL e nessuna nazione ha privatizzato reti strategiche. La subalternità culturale della sinistra italiana si desume anche dal silenzio sepolcrale che cala su iniziative come il referendum 1:12 sui salari dei manager tenutosi in Svizzera».
Mentre si discute di riforma elettorale, diversi politici italiani tessono le lodi del bipolarismo. Ma un sistema di voto che favorisca il bipolarismo riuscirà a unire la sinistra italiana che non solo ha visto a più riprese SEL e PD su posizioni distinte, ma anche un PD diviso al suo interno?
«Le divisioni sono talmente profonde che il PD non si è iscritto al PSE. SEL è un partito in crisi, il segretario Vendola ha perso appeal per alcuni scandali scoppiati nella regione di cui è presidente, la Puglia, dove le nomine della Sanità pubblica erano ripartite secondo logiche clientelari».
Enrico Letta e Matteo Renzi, posizioni diverse in uno stesso partito. Se il tandem si romperà sarà la fine di quella sinistra poco esaltante che emerge dal vostro libro?
«Letta è paragonato ad Andreotti per le capacità mediatorie e il ruolo di parafulmine rispetto alla pressione fiscale e ai tagli pubblici; Renzi può continuare a criticare l’immobilismo del Governo e a lanciare proposte come il job act. Eppure le sintonie sono molte: premier e segretario PD provengono dalla tradizione democristiana, sono liberisti e in rapporto con la galassia berlusconiana. Per queste ragioni, malgrado il dualismo alimentato dai media, ritengo poco probabile uno scontro che potrebbe provocare l’implosione del PD».
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