Nel monolitico conformismo della
cultura di massa la parola “hippie” è, con gli anni, divenuta sinonimo di
persona che vive fuori dalla realtà, anacronistica e dunque, in ultima istanza,
un infrequentabile marginale. Lo stesso cinema è pieno di simili figure
grottesche, funzionali alla volontà di circoscrivere la contestazione del
modello di vita dominante ad una lunatic
fringe magari simpatica, ma
totalmente inattendibile.
Tuttavia, a dispetto di certe
distorsioni, la breve, ma intensissima epopea della cultura hippie, esplosa a
livello mondiale nell’estate del 1967 e poi riemersa carsicamente, con alterne
vicende, ed in varie forme, per circa un decennio, continua ad affascinare
studiosi dagli interessi più vari e non è raro veder definire tale movimento
come una sorta di preludio di tutti i fenomeni di contestazione giovanile ad
esso seguiti; tale dimensione profetica è chiara anche leggendo il recente
saggio di Manfredi Scanagatta, autore sinora di ricerche storiografiche sulla
storia del P.C.I e dell’antifascismo emiliano, intitolato E l’America creò gli hippie (Edizioni Mimesis, pp. 313, euro
26,00), che ha il merito di analizzare il fenomeno hippie in tutti i suoi
molteplici aspetti, sociopolitici certamente, ma anche artistici e
comunicativi.
La storia che traccia Scanagatta è
infatti, esplicitamente, quella di una “avanguardia culturale”, di un movimento,
dunque, che ha saputo saldare in maniera sinora irripetibile ansie di
liberazione personale e collettiva e ricerca di un nuovo vocabolario creativo
con cui veicolare la propria differenza ed estraneità nei confronti della
cultura ufficiale. “Controcultura”, insomma, per usare un termine che non
casualmente comincia a diffondersi nell’America degli anni cinquanta in
relazione agli autori della Beat Generation, da considerarsi tra gli immediati
precursori della filosofia flower power,
e che, per usare le parole dello scrittore Norman Mailer, furono coloro che per
primi “divorziarono dalla società, vissero senza radici e intrapresero un
misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell’io”…
Se dunque uno status di eccellenza
creativa del movimento hippie, sembra essere riconosciuto da chiunque ne abbia
studiato anche superficialmente la storia (per accertarsene basterebbe d’altronde
ripensare all’arte musicale, grafica e letteraria da esso espressa o influenzata)
ciò che ci sembra ancora più interessante è rintracciarne i caratteri visionari
e profetici cui accennavamo prima: innanzitutto la capacità di trascendere le
usuali categorie di “destra” e di “sinistra”, presentando aspetti progressisti
come reazionari, dialettica materialistica e spiritualistica, di fatto ha
anticipato movimenti come quello incarnato dalla allora nascente cultura
ecologista. Forme di rivendicazione che furono di ordine sociale, ma
soprattutto di ordine culturale (il rifiuto della società borghese),
caratterizzeranno il movimento sessantottino, che di fatto recupererà interessi
emersi poco prima in seno alla generazione hippie, dall’antipsichiatria al
ritorno a forme di vita comunitarie. Infine l’enorme interesse nei confronti
delle forme del linguaggio della contestazione lo ritroveremo, proprio in
Italia, tra le colorate riviste degli indiani
metropolitani, nel 1977.
Tutto ciò sembra emergere piuttosto
chiaramente dal rigoroso studio di Scanagatta, capace di riannodare in maniera
brillante i tanti fili di una vicenda lontana, eppure ancora attuale. Unico
demerito del testo in questione, oltre a numerosi refusi, è la decisione di
restringere il campo di analisi alla sola realtà statunitense, finendo così per
far perdere la dimensione globale del movimento, che ebbe significative
propaggini nel Regno Unito, in Olanda, coi suoi provos e persino in Italia, con esperienze di rilevo come quelle espresse
dagli ambienti vicini alla rivista milanese Mondo
Beat, da un artista come Matteo Guarnaccia, e, in seguito, dagli animatori
di Renudo.
Per tutte queste ragioni la
controcultura hippie, lungi dall’essere una curiosità del passato, rappresenta
un riferimento ineludibile per qualsiasi esperimento di critica radicale della
cultura capitalistica, oggi come nei decenni passati.
fonte: Il Manifesto, 17/01/2014
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