Era da diverso tempo che avvertivo dentro
di me l’esigenza di scrivere qualcosa su Angelo Marchese. Non solo per
esprimere un tributo sentimentale e affettivo verso chi fu il mio professore di
italiano per quasi un triennio, tra il 1995 e il 1998, al mitico Liceo Classico
“Niccolò Machiavelli” di Firenze (ho detto «quasi» perché, a causa
dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Marchese dovette purtroppo
abbandonare l’insegnamento a metà circa dell’anno scolastico ’97-’98 – che si
sarebbe concluso, per me e i miei compagni di classe, con l’esame di maturità).
Ma anche e soprattutto perché mi sono accorto di aver maturato nei riguardi di
Marchese un debito intellettuale la cui portata mi si è chiarita solo con il
trascorrere del tempo.
Non che da adolescente non avessi subito
il fascino di quelle straordinarie lezioni nel corso delle quali, fin
dall’inizio del triennio, si commentavano, fra l’altro, testi tra i meno
paludati del poeta evocato nel titolo di questo intervento (il volume di
riferimento era, s’intende, l’eccellente antologia montaliana Poesie, curata da Marchese per Mondadori Scuola), o si rileggevano in una
chiave del tutto inconsueta capolavori, che altrimenti avrebbero rischiato di
annoiare un uditorio liceale, come I
Promessi sposi di Manzoni. Tuttavia, allora, lo ammetto apertamente, i
classici della letteratura italiana, salvo poche eccezioni, non erano ancora al
centro dei miei interessi, e molti dei contenuti che quelle lezioni offrivano
mi sfuggirono. O almeno credevo mi fossero sfuggiti…
Come mi sbagliavo! Me ne accorsi quando, a
poco a poco, la letteratura divenne la mia passione predominante. Negli anni in
cui ho proseguito la mia formazione all’Università, prima come studente e laureando,
poi come dottorando di ricerca, sono tornato spessissimo con la mente alle
lezioni di Angelo Marchese: va da sé che ho riaperto altrettanto di frequente
anche i quattro volumi della sua Storia
intertestuale della letteratura italiana (D’Anna, 1990-1992), che avevo
avuto come manuale al liceo, così come ho letto e studiato molti importanti
saggi di Marchese dei quali al liceo conoscevo appena il titolo; tuttavia,
credo che il riaffiorare della memoria di quelle lezioni liceali abbia
rappresentato una guida insostituibile nel corso della mio apprendistato
universitario e postuniversitario.
Ma cosa c’entrano questi ricordi
personali con Montale. La ricerca
dell’Altro, il libro di cui mi accingo a parlare? Forse qualcosa c’entrano:
intanto perché quel libro, uscito nel 2000, a pochi mesi dalla morte
dell’autore, fu in parte concepito proprio durante l’ultimo periodo in cui ebbi
Marchese come insegnante; e, in secondo luogo, perché propendo a credere che
nella metodologia critica (o, per più esattezza, nella combinazione di
metodologie critiche) applicata in quel libro risieda uno dei lasciti
essenziali, se non della lezione di
Angelo Marchese, di quelle lezioni a cui ho personalmente assistito.
Di cosa parla infatti Montale. La ricerca dell’Altro? Della «ricerca
di Dio in Montale» - è la risposta, sobria e precisa, fornita da Marchese
stesso all’inizio dell’Introduzione;
ma per Marchese trattare questo tema significa illustrare minuziosamente sia l’opera
letteraria sia la biografia intellettuale di Montale, nonché gli ambienti in
cui il poeta si formò e visse. E affinché una simile impresa fosse portata
efficacemente a termine occorreva non solo la quasi trentennale esperienza di
montalista che Marchese aveva accumulato a incominciare da Tempo e memoria nella poesia di Montale (1973)– giudicato da
quest’ultimo un «bellissimo saggio» –, ma anche una formidabile capacità di
interrogare e analizzare testi e contesti, significanti e significati, idee e
forme: capacità di cui il critico aveva dato prova in numerosi volumi, tra cui
il fortunato dittico L’officina del
racconto e L’officina della poesia
(entrambi editi e ristampati parecchie volte da Mondadori). In una parola,
questo «grande libro» – così Riccardo Scrivano ha autorevolmente definito
l’ultima fatica di Marchese – è anche il frutto dell’applicazione di un grande metodo.
Tra i maggiori meriti di Marchese vi è
senz’altro quello di aver messo in luce le venature e le origini filosofiche
della poesia montaliana che è, come ogni poesia autenticamente moderna, una
poesia sentimentale, nell’accezione schilleriana e leopardiana del termine. Sul
legame indissolubile di pensiero e poesia in Montale, Marchese aveva pubblicato
nella rivista «Otto/Novecento», nel 1993, un saggio importante, Leopardi, Montale e la poesia metafisica
– che costituisce il presupposto di molte pagine de La ricerca dell’Altro –, nel quale si legge: «“Pensiero poetante” o
“poesia pensante”: la nota definizione approntata da alcuni critici per
Leopardi va benissimo anche per Montale, ultimo erede di una tradizione di sentimentalische Dichtung, di poesia
ricca di profonde, imprescindibili radici meditative e filosofiche, teorizzata
da Schiller e praticata dai grandi romantici tedeschi». Si ricordi che Montale,
all’inizio del suo apprendistato intellettuale, si nutre soprattutto di letture
filosofiche: «Io ho avuto un’educazione filosofica e un’adolescenza addirittura
hantée di metafisica», scrisse
Montale in una famosa lettera a Carlo Linati, che Marchese opportunamente cita.
A La
formazione filosofica del poeta genovese – nella quale, come si sa, giocò
una parte tutt’altro che irrilevante la sorella Marianna – Marchese dedica una
preziosissima sezione del suo libro in cui sono puntualmente perlustrate le
principali ascendenze filosofiche della scrittura montaliana: Amiel,
Schopenhauer, Boutroux, Lachelier, Bergson, Šestov, Rensi, Agostino, gli
stoici. Ma al di là di queste pagine specifiche – che lo studioso considera
quasi un momento preliminare, seppur necessario al suo discorso critico: «“una precomprensione”
necessaria a illuminare il processo ermeneutico, radicandolo in un preciso
contesto» –, tutto il libro è caratterizzato da una spiccata attenzione per
l’ininterrotto dialogo della poesia montaliana con la filosofia e con i
filosofi. Lo stesso tema centrale della religiosità montaliana è declinato in
questo senso, dato che la religione, secondo Marchese, è «considerata da
Montale sub specie philosophica». Qui
risiede certamente uno degli aspetti più innovativi di questa ricerca di
Marchese, non solo rispetto ai contributi sulla religiosità precedentemente
apparsi (da certe pagine di Getto al pionieristico saggio di Jacomuzzi Appunti per uno studio sulla
religiosità nella poesia italiana del dopoguerra: Eugenio Montale del
1966), ma anche rispetto
alla critica montaliana in genere, che, pur avendo ormai raggiunto dimensioni
sterminate, non ha ancora organicamente esplorato il mondo, spesso nascosto e
sfuggente, della cultura filosofica di Montale. Penso, per fare un solo
esempio, alla suggestione esercitata su Montale da Giuseppe Rensi, un pensatore
ancora oggi sostanzialmente sottovalutato, che Marchese evoca assai di
frequente, e sempre a proposito, nel suo volume. D’altronde, già nello studio Gli «ossi» negli Ossi di seppia,
Marchese aveva osservato: «Non è stato ancora adeguatamente valutato l’influsso
di Giuseppe Rensi, maestro genovese dello scetticismo e intrepido antifascista,
sul giovane Montale».
Ma quali sono, secondo Marchese, le
immagini e le forme più peculiari della religiosità montaliana? Innanzitutto il
visting angel – che già intitolava il
saggio, nonché il volume montaliano, più famoso di Marchese –, nelle sue varie
incarnazioni femminili, su tutte ovviamente Clizia, alias Irma Brandeis, dedicataria delle Occasioni (a partire dall’edizione mondadoriana del ’49) e Musa principale della Bufera: «Il visting angel è ormai un sicuro segno del divino, una presenza di
Dio nel tempo capace di salvare l’umanità liberandola dalla perpetua prigionia
del male, sia nelle sue forme storiche (la guerra), sia in quelle più profonde,
radicate nella stessa condizione dell’uomo» .
Come ricorda Marchese, la Brandeis,
ottima conoscitrice della mistica giudaico-cristiana, ebbe un ruolo decisivo
come sollecitatrice dell’interesse del poeta verso autori come Meister Eckhart,
il cui eco si avverte in non poche liriche dell’ultimo Montale, specialmente in
quelle improntate alla «teologia della briciola» di cui discorre Francesco
Zambon in un affascinante saggio: il libro di Marchese contiene pagine assai acute
sul rapporto Montale-Eckhart, a cui non mi risulta sia mai stato dedicato un
contributo specifico. Altrettanto acute e preziose sono le osservazioni di
Marchese sulle risonanze bibliche nell’opera montaliana: del resto, che Montale fosse un accanito lettore della Bibbia è ben noto (basti pensare al
primo Xenion in cui il poeta, «quasi
al buio», legge il Deutero-Isaia). Marchese illustra minuziosamente gli eco
vetero- e neo-testamentari riscontrabili nella poesia di Montale muovendo dagli
Ossi per giungere fino alle composizioni
delle raccolte più tarde; ne emergono moltissime consonanze tanto sorprendenti
quanto trascurate dai precedenti studiosi: mi riferisco ad esempio alle pagine
sul Qohélet e sul Libro di Giobbe, nei quali Marchese
riconosce a giusta ragione due fonti
mai abbandonate del poetare montaliano. Sulla base di questi riscontri,
Marchese, nell’ultima pagina del suo studio, può affermare, con ammirevole
onestà intellettuale: «Questo libro […] considera l’itinerario di ricerca del
poeta genovese alla luce della tradizione biblica, lasciando aperto il problema
se quella di Montale sia un’esperienza di fede o un’esperienza cristiana tout court». Un Montale imprendibile,
dunque, anche sotto la specola della religiosità. D’altronde, nel quarto capitolo
intitolato, come il libro, La ricerca
dell’Altro, Marchese aveva sottratto il suo poeta sia all’etichetta di
nichilista (pur ammettendo che aspetti nichilistici sono tutt’altro che assenti
dall’opera montaliana), sia all’etichetta di gnostico (pur riconoscendo che,
specie in Satura, sono riscontrabili
componenti gnostiche): «Un errore in cui cadono spesso gli interpreti» –
avverte Marchese, ed è difficile dargli torto – «è l’estrapolazione di qualche
verso utile per imporre a Montale un’etichetta. In realtà, come si è potuto
constatare dal nostro lungo itinerario ermeneutico, il poeta genovese si lascia
aperte numerose vie d’uscita, correndo il rischio magari di contraddirsi, ma
senza isterilire il proprio linguaggio […] in stanche formule codificate».
Se la pars
destruens dello studio di Marchese consiste dunque in una salutare liquidazione
di interpretazioni schematiche o riduttive della poesia montaliana, non direi
che la parte propositiva, pur così discreta e problematica, aliena da ogni
«formula che mondi possa aprirti», sia tutta racchiusa nelle pur fondamentali
pagine sul visting angel. Nel libro di Marchese c’è infatti almeno
un’altra importante intuizione, che illumina un aspetto non secondario della
religiosità di Montale. Lo studioso ne rintraccia un documento assai
significativo nella recensione montaliana, risalente al maggio 1925, alla
tragedia L’isola di Riccardo Artuffo:
«Con l’isola che si sommerge nel quadro ultimo, noi vediamo inabissarsi il
carico delle umane illusioni: l’uomo sparisce, fuoco fatuo tra due oscurità, ma
il suo tormento senza compenso e senza scopo non è forse senza significato. Il nullismo
integrale non può distruggere il valore del gesto di chi muore, senza
rinunziare alla propria legge, con
questa coscienza della vanità universa. Parve a noi, o forse ci inganniamo, che
dietro a questo valore potesse ravvisarsi ancora l’aspetto di un vecchissimo
Iddio che non salva per le opere e non consente libertà. Ma dal quadro
dell’opera codesta forza doveva di necessità restare esclusa».
Leggiamo il commento di Marchese a questo
passo: «Montale, che pure accetta la dolente visione schopenhaueriana della
vita, avverte la tragicità di un nichilismo integrale non disposto a
riconoscere il “valore” dell’inutile “tormento” del “male di vivere”,
dissolvendolo nella “vanità universa”. Solo il “vecchissimo Iddio” della Bibbia
può dare un senso alla sofferenza […]». Ma come può qualificarsi questo Dio
misterioso cui Montale allude? Si tratta, secondo Marchese, di un «Deus absconditus: Dio presente nel cuore
dell’uomo, non nella natura, come scrive Pascal: “È il cuore che sente Dio, e
non la ragione. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla
ragione” (Pensieri, 278)»; e già nel
primo capitolo il critico aveva proposto un suggestivo accostamento tra Montale
e la spiritualità di Pascal, affermando che quello di cui si parla nelle Pensées non è «il dio dei filosofi ma il
Deus absconditus della Bibbia, una
presenza-assenza comprensibile per chi, come Montale, non può accettare la piena
visibilità del divino».
Quando Marchese ravvisa nel Deus absconditus una delle forme più
segrete dell’Altro in Montale,
riconnette le sue ricerche ultime a uno dei nodi essenziali del suo intero
percorso di studioso e, aggiungerei, di uomo. Si considerino soprattutto gli
studi raccolti in Manzoni in Purgatorio (appena
ripubblicato da Interlinea per la cura di Cristiana Freni), nei quali Marchese,
che si era sempre opposto ad ogni lettura in chiave banalmente
provvidenzialistica dei Promessi sposi, dichiarava, fra l’altro: «Per capire l’arte
segreta di Manzoni occorre, dunque, non perderne di vista lo spessore
metafisico, la drammatica commisurazione dell’ambiguità storico-mondana col
mistero, anch’esso per altri versi ambiguo del Deus absconditus». Si veniva in tal modo a stabilire una connessione del tutto inaspettata tra Montale
e Manzoni, al quale Marchese – nella sua deliziosa intervista immaginaria
all’autore dei Promessi sposi
raccolta nel volume sopra citato – fa dire: « “Mi scusi se la interrompo:
allora non penso che lei accetti l’interpretazione di Leone De Castris, per il
quale la novità del romanzo consiste nella “fatica di misurazione interattiva
che lega la storia degli uomini all’epifania della Provvidenza, fino a far sì
che l’una appaia contenere in sé l’altra, come suo senso e ratio immanente, come sua intrinseca norma e principio di autonoma
spiegazione”. / Questa è una Provvidenza storicista, dialettica non pascaliana.
Veda, preferisco l’antistoricismo di Montale, di cui mi ha parlato Pier Paolo
[Pasolini]… Lei ricorda quella poesia dove si dice “la storia non è intrinseca
/perché è fuori”, “non è magistra / di niente che ci riguardi” …».
Il fatto che parlando della religiosità
montaliana il discorso si sia sorprendentemente (ma non arbitrariamente, credo)
spostato su Manzoni (un autore così diverso dal poeta degli Ossi di seppia) dimostra che Montale. La ricerca dell’altro non può
considerarsi soltanto l’approdo esemplare di tre decenni (o quasi) di studi
montaliani, ma costituisce anche una sorta di testamento spirituale in cui
confluiscono, da un lato, il patrimonio straordinariamente vario e multiforme
delle ricerche del Marchese studioso, dall’altro, la ricchezza di esperienze
morali e spirituali che caratterizzò la vita dell’uomo e dell’insegnante. Un
libro che Angelo Marchese sentì fortemente la necessità di concludere prima di
lasciare questo mondo; «Un libro scritto da un uomo gravemente ammalato nel
culmine della sua malattia, veramente con furore, sapendo che lui non avrebbe mai
potuto leggere questo libro, e che questo libro sarebbe uscito soltanto dopo la
propria morte»; un libro che resterà.
[Una
versione più ampia di questo articolo è stata pubblicata in Per Angelo Marchese. Saggi,
testimonianze, ricordi, a cura di Isa Morando e Stefano Verdino, Genova,
Città del Silenzio, 2010].
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