E' singolare che
i due capisaldi del pensiero conservatore spagnolo –
Juan Donoso Cortés e José Ortega y Gasset – avessero in vista lo stesso
obiettivo, volendolo tuttavia raggiungere attraverso strategie diametralmente
opposte. Donoso, di fronte all’avanzare del pericolo socialista, vedeva venire
il tempo delle “negazioni assolute e delle affermazioni sovrane”, e con ciò
teorizzava la dittatura coronata come soluzione alla crisi del legittimismo
monarchico; Ortega, al contrario, deplorava ogni forma di irrazionale violenza,
la quale sarebbe stata il tratto distintivo delle forze rivoluzionarie (fascismo
e comunismo) che segnavano l’ingresso delle masse sulla scena politica: le masse
non sanno né vogliono discutere, non hanno alcuna competenza specifica – dice
Ortega. Esse vogliono imporre. Donoso Cortés, un secolo prima (nell'Ottocento,
intorno al quarantotto), definiva sprezzantemente la borghesia “clase
discutidora”, caratterizzata da una vocazione alla chiacchiera ed al
compromesso, e che se avesse dovuto scegliere tra Cristo e Barabba avrebbe
istituito un’apposita commissione di inchiesta. Ortega vede invece in questa
“chiacchiera” il segno della raffinatezza intellettuale del ceto dirigente del
liberalismo ottocentesco: il quale sarebbe l’unico mezzo per preservare l’élite
dalla distruzione ad opera delle masse. Tutta la cultura di destra vuole
essenzialmente ciò che volevano Donoso ed Ortega: difendersi dal caos, dalla
terrificante irruzione delle masse senza volto nella politica; difendere
l’esistenza di quella precaria vittoria dell’uomo sulla natura che è la civiltà,
come nella visione di Charles Maurras; e tuttavia, la cultura di destra è in
perenne tensione tra i due poli opposti: quello della discussione elitaria e
liberale, e quello della violenza senza compromessi della dittatura. Di fatto,
entrambe le strategie suscitano di volta in volta orrore, nel conservatore, per
motivi differenti. La discussione si trasforma troppo spesso in futile
chiacchiera autocompiaciuta, è poco “vitale”, manifesta senza rimpianti il vuoto
dell’esistenza umana, come usano fare senza vergogna le civiltà vecchie ed
esauste; la violenza, per parte sua, altrettanto spesso diventa una pratica fine
a sé stessa, esercitata da uomini ignobili e rozzi, e colpisce persino gli
stessi intellettuali che all’inizio l’avevano sostenuta entusiasticamente: che è
lo stesso motivo per cui alcuni tra gli intellettuali della Konservative
Revolution (Gottfried Benn, Martin Heidegger, Carl Schmitt, Ernst Jünger), in
Germania, sostennero Hitler nel periodo della sua ascesa al potere – era
affascinante, antiborghese, radicalmente provocatoria, quella violenza assoluta
– per poi trovarsi ostracizzati a causa del proprio essere “pensanti”, o
abbandonarlo di propria volontà per la stessa ragione. Anche ipotizzando di
opporsi al sempre agonizzante sistema democratico per veder trionfare la forza,
vi è da considerare che ormai la potenza della tecnica è tale che il controllo e
la repressione, in una simile prospettiva, assumono necessariamente una forma
onnipervasiva e spietata, ed escludono o finiscono per massacrare chiunque
manifesti il minimo dissenso: dunque sicuramente chi è avvezzo a pensare
liberamente e non a servire, e che anzi è disgustato per istinto
dall’atteggiamento di chi cerca di compiacere i potenti. Di qui, la
teorizzazione di quella che per Ernst Jünger diventa, dopo la seconda guerra
mondiale, l’unica strada percorribile: il “passaggio al bosco”, quell'esilio
interiore dalla società che verrà poi radicalizzato nella figura dell’”Anarca”
Martin Venator, protagonista del romanzo Eumeswil; figura che – lungi dal dire
una parola definitiva, che non può essere detta, sul pensiero conservatore – ne
testimonia il carattere problematico e contraddittorio, perennemente in bilico
tra tentazione del potere e ribellione ad esso: in nome di un ordine a cui il
conservatore tende, trovandolo sempre intollerabile nella sua manifestazione
concreta.
Ma mi spiegate il perchè di tutta questa anti borghesia?
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